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Stigma: basterà una campagna pubblicitaria?

29 Ago 12

Di Nadia-Micali

 

Il 2003 vedrà l’atto conclusivo della campagna pubblicitaria quinquennale lanciata dal "Royal College of Psychiatrists" nel 1998 ed intitolata "Cambiare opinione: ogni famiglia del paese". Essa ha come scopo aumentare la consapevolezza dell’opinione pubblica e dei professionisti del settore sulla malattia mentale; e favorire di conseguenza la riduzione dello stigma collegato a quest’ultima. Nelle intenzioni dei promotori della campagna, il titolo si riferisce alla necessità di cambiare l’opinione generale per determinare una modifica del comportamento e delle idee nei confronti di coloro che soffrono di disturbi psichiatrici, per combattere lo stigma e la discriminazione. Il titolo si riferisce anche all’esperienza diretta o indiretta che ogni famiglia nel paese ha con la malattia mentale, nelle sue varie forme.

In particolare sei patologie sono sotto esame: ansia, depressione, schizofrenia, morbo di Alzheimer e demenza, dipendenza da sostanze, anoressia e bulimia nervosa. La campagna si propone inoltre valutare i luoghi comuni riguardo alla pericolosità di coloro che sono affetti da disturbi psichiatrici, alla loro prognosi, alle difficoltà di comunicazione di questi soggetti, e all’idea che la malattia mentale sia auto-inflitta.

La campagna è stata basata su depliant relativi ad ognuna delle patologie d’interesse e su altre attività pubblicitarie. Sicuramente ha avuto successo nel pubblicare alcuni articoli sullo stigma, in riviste come "Lancet", "British Journal of Psychiatry" ed alcune altre. Informazioni sono anche state divulgate al pubblico tramite la stampa. Anche Internet è stato utilizzato per disseminare informazioni sulla campagna. Purtroppo però lo spazio dedicatole a livello pubblico è stato ben poco, inoltre la sua efficacia è stata minata da una pubblicità insufficiente. Aspettiamo con ansia le somme finali della campagna.

Nel 2000, 1787 rappresentanti della popolazione generale inglese sono stati sottoposti ad un sondaggio del "Royal College" stesso riguardo alle sei patologie di interesse (Crisp, 2000). Il 65% di questi ha risposto, descrivendo i soggetti con schizofrenia e dipendenza da alcool o droghe, come pericolosi ed imprevedibili. La dipendenza da sostanze e i disturbi alimentari erano visti come auto-inflitti. Inoltre gli intervistati definivano coloro affetti da malattia mentale come soggetti con cui è difficile comunicare. Circa un terzo di coloro che hanno risposto al sondaggio conosceva qualcuno con un disturbo psichiatrico. Due precedenti sondaggi nel Regno Unito avevano evidenziato che l’80% dell’opinione pubblica era d’accordo con la frase "la maggior parte della gente prova imbarazzo in presenza di individui con malattia mentale" e il 30% sosteneva di "sentirsi in imbarazzo in presenza di individui con disturbi mentali" (Huxley, 1993).

Chiaramente lo stigma legato alla malattia mentale viene da lontano, precedendo la nascita della psichiatria stessa. La maggior parte dei pregiudizi nei confronti della malattia mentale sono ubiquitari (Byrne, 2000). Probabilmente la psichiatria non ha fatto, né fa, molto per eliminare questi stereotipi. Inoltre al contrario di altri gruppi che sono soggetti a discriminazione, gli individui con malattia mentale non reclamano i propri diritti con altrettanta forza. Ciò è facilmente spiegabile data la natura della malattia stessa.

Si avverte la necessità che lo psichiatra stesso partecipi più attivamente a programmi di educazione e divulgazione a livello pubblico. Educare però non vuol dire solo aumentare il livello di conoscenze del pubblico, che difficilmente soppianterebbe secoli di pregiudizi; ma anche mettere in discussione l’immagine della malattia mentale fornita dai media e banalizzata dai luoghi comuni. Inoltre, combattere lo stigma è impossibile se non si mettono in discussione anche i pregiudizi presenti all’interno della psichiatria stessa. In uno studio del 1988, Lewis ed Appleby mostrarono delle vignette ad alcuni psichiatri, nel Regno Unito, dimostrando che essi reagivano diversamente a queste se la persona rappresentata nella vignetta era definita affetta da un disturbo di personalità. In questo caso erano dati più spesso giudizi negativi.

La tentazione di lasciare il compito di occuparsi di stigma e discriminazione al "Royal College" è forte, ma in questo caso la possibilità che si verifichino cambiamenti duraturi è ridotta. Ognuno di noi ha dunque un ruolo importante, sia nell’incontro clinico con chi racconta la sua esperienza di pregiudizi sociali, sia in un ambito più vasto di divulgazione, educazione e coinvolgimento pubblico.

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