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Lo sguardo ferito di Bruno Callieri

20 Lug 12

Di FRANCESCO BOLLORINO
Note in margine all'ambiguita' di un crepuscolo.

Questo mio pensare vorrebbe riportarmi al tempo dei racconti clinici, all' epopea dei grandi casi; mentre oggi la narrazione della storia clinica e' divenuta una sommatoria di segni, dove gli aggettivi compaiono sempre meno frequentemente.

La previsione statistica e la ripetizione del linguaggio dei tests, che tendono a sostituire l'arte rischiosa dell'immedesimazione, vengono qui marginalizzati senza ripensamenti e si torna ad interrogarsi in superficie sul senso e il significato psicopatologico dei sintomi, mentre si sorvola sulla praticita' della parola.
Perentorio e' il rimando all'importanza de Le sens du de'sespoir (Andre' Hejnal, 1980) allo stato di abbandono senza risorse, cioe' alla Hilflosigkeit, al vivere la propria soggettivita' di essere gettati nella derelizione ( la Geworfenheit di Heidegger).

E si capisce bene come la "guarigione" sia un problema e dia sempre da pensare, anche se a volte la sua prospettiva debba cedere a quella di una visione protettiva o riparatrice; dove " anche " il malato si assume propriamente come persona sofferente che puo' riconoscersi guarita solo integrando la malattia nella propria esperienza e nella propria storia di vita solo riprendendo la propria depressivita', facendo "buon uso" della depressione, non come disse Cicerone, non come prospetta Raffaele La Capria, ma come propongono ora Eugenio Borgna e Aldo Bonomi, nel loro "elogio della depressione".

Sembra a me, ora immerso nella mia crepuscolarita' di confine, che il desiderio e l'insicurezza, passaggi pendolari e ambigui, si situino sempre in quella terra di nessuno , cosi' ben evocata da molti cari amici e che tanto mi richiama il luogo buberiano del Tra della Zwischenheit, e che non e' di nessuno dei due soggetti in relazione ma, proprio per questo, e' costitutivo di entrambi, come vera e propria area affettivizzata, locus affectivus.

Da quest'area, pressoche' protomentale e dallo sguardo origina nel miotardo meriggio il pensiero gruppale, donde la caduta melanconica nel silenzio, cui avevo gia' accennato nel 1997 , in " Solitudine e isolamento. Vuote stanze dell'esistenza melanconica".

E dal silenzio, piu' o meno loquens, transita al corpo che si nega perche' ha paura di incontrare lo sguardo assente. Forse per questo ( ora capisco) ogni relazione analitica deve restare sempre sospesa, senza un approdo o, meglio, sempre oscillante fra sottrazione ed evocazione di senso. Leggendo molti contributi sulla depressivita', ho l'impressione che da tutti emerga la necessita' di aver la capacita' di entrare in risonanza, mentre – purtroppo- molti terapeuti sono solo in grado di emettere suoni ( pur pieni di God complex ) e di trasformare i pazienti stessi in cassa di risonanza per le proprie idee e i propri desideri.

Ed ho anche compreso di piu' l'importanza dello stare in attesa , dell'accettare che un problema non abbia facili soluzioni, del sopportare l'incertezza di una domanda che non cessa di porsi, la tendenza a mantenere uno stato di tensione per afferrare il Kairos, il tempo giusto ma soprattutto ho colto l'essenziale importanza del fatto che in psicoterapia bisogna esserci -in- due, etre-a'- deux, degli amici post-derridiani.

Il grande pericolo attuale, cui non sembrano sfuggire molti terapeuti al tramonto, e' che l'empatia che sta alla base dell'esperienza di ogni rapporto, venga ancora banalizzato in schemi di comportamento , da proporre anche solo tacitamente.
Al crepuscolo del mio sguardo dialogante appare presente il rischio che si voglia attendere alla conferma della teoria piu' che all'attenzione incessante al singolo; in vero, pur dando per indiscutibile la ricchezza delle dottrine psicoanalitiche, non si addormenta in me la convinzione che esse non si possono ridurre a tecniche interpretative, facendoci rimanere impigliati nei loro primieri determinismi di base.
Qui e' inevitabile un incontro fatto di montagne d'ombra e di vuoto di luce, l'incontro con la temporalita' , vissuto ora da me come tempo della perdita. E , anche se discutibile per uno psichiatra clinico quale sono stato io, bleulerianamente educato e poi cresciuto alla scuola di Kurt Schneider, questa pagina che mi accingo a voltare e' impregnata di seduttivita'. 
Propone un vero e proprio discorso melanconico, di transito, accennando al perenne perdersi e svanire dell'oggetto e al suo perenne ritardare nell'includenza esistenziale del sole nero ( Julia Kristeva), nella derelizione e detresse del soggetto hilflos, oramai privato della propria ombra, nell'antica prossimita' del corpo materno; in un cammino disseminato di oscuri anditi di lutti e di assenze, di dissolvenze e di ombre avernali.
Inevitabili, al mio sguardo ferito, le grandi configurazioni binswangeriane ;qui, per me, con maggiore densita' di compartecipazione, proprio come compagno di strada ( il poputcik, di sovietica memoria). Ludwig Binswanger con un colpo d'ala da grande maestro mi tira via dal letto ed eccomi a camminare senza le vecchie scarpe del passato, con la configurazione ardita del transito dal rifiuto all'invocazione (Marcel , Ricoeur ), dal silenzio destinale al colloquio co-esistenziale, al colmarsi Imprevisto della perdita della relazione con l'altro, con l'Altro.
Qui , incolmabile e quasi perentorio, mi coinvolge appieno il messaggio di Etty Hillesum, cosi' ben proposto oggi da Nadia Neri, che afferma il primato dell'altro, meglio, del Tu, primato che rischia di dissolversi quando lo sguardo dell'altro viene meno e con esso vien meno ogni rapporto di interlocutorita', di reciprocita'.
Questo e' , per me, un sollecito invito a coniugare la mia sempre piu' improbabile transferalita' psico-analitica (sensu lato) con l'incontro dialogico (di buberiana memoria) alla ricerca di una final common pathway fra antropologia esistenziale e medicina della persona, con la viva presenza di Franz Rosenzweig, di Ferdinand Ebner di Romano Guardini. Qui ripropongo a me stesso lo sguardo ferito del malinconico, la solitudine Kierkegaardiana (Diario, VIII, A, 27), che mi si traduce in perdita di slancio vitale, e mi porta alla Remanenz, al restare- indietro.
Mi sembra di essere la ricapitolazione di tante tangenti psicopatologiche (molto derivanti dal cio' che non si e' stati) e di conoscere, la sera , cose che al mattino neppur sospettavo; e anche di capire cosa significhi la temporalita' melancolica della parola, alla ricerca di un impossibile sodalizio itinerante, un (impossibile?) Weg-genossenschaft (come diceva von Weizsacker).
La glaciazione dell'inter-parola… quam Deus a me avertat.

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