Rita Corsa
Psichiatra e psicoanalista S.P.I., Bergamo
"… l’archeologo ricostruisce i muri dell’edificio dai ruderi che si sono conservati,
determina il numero e la posizione delle colonne dalle cavità del terreno, e stabilisce le decorazioni e i dipinti murali di un tempo dai resti trovati fra le rovine" (Freud 1937, p. 543).
Michel Foucault, nel suo celebre Storia della follia nell’età classica, individua l’origine della psichiatria non da esigenze di umanizzazione e di libertà, ma dalle repressioni che la società esercita sull’individuo che essa aliena o che, comunque, rinchiude per liberarsi dai devianti che offendono la morale e la ragione. Quest’ultimo aspetto sarebbe divenuto centrale nell’elaborazione moderna di un paradigma scientifico del controllo sociale, secondo il processo descritto dallo stesso autore in Sorvegliare e punire. In questa chiave di lettura, l’atto fortemente simbolico di Pinel che, nel 1793, spezza le catene degli alienati reclusi a Bicêtre, preparerebbe in realtà il passaggio ad un "incatenamento legale". Con il suo tipico gusto provocatorio e paradossale, il filosofo francese segnala un particolare evento come emblema di un transito epocale, a cavallo fra XVIII e XIX secolo: l’internamento nel 1803 di Donatien Alphonse François Marchese de Sade — già recluso per molti anni alla Bastiglia in epoca pre-rivoluzionaria — nella casa di cura per malattie mentali di Charenton. Questo "passaggio di consegne" avrebbe sancito il mandato custodialistico attribuito dal nuovo secolo alla nascente psichiatria.
Al di là delle pur discusse e discutibili opinioni di Foucault, i suoi brillanti contributi enfatizzano un problema reale, che ha accompagnato sin dalle origini la moderna scienza psichiatrica: la difficile convivenza del mandato curativo con le forti (talora fortissime) istanze di controllo sociale.
Così, nel 1877 lo psichiatra Virgilio, nel discorso tenuto al I° Congresso freniatrico di Imola, per sostenere l’istituzione dei manicomi criminali anche in Italia (da definirsi pudicamente "Asili di sicurezza e di salute"), osservava che "se la società, per motivi di sicurezza, ha il diritto di garantirsi dai pazzi recludendoli nei Manicomj, perché non deve essere egualmente in diritto di difendersi dagli altri i quali con lesione alle persone ed alla proprietà ne abbiano turbato l’ordine e le siano riusciti pericolosi?". Egli esprimeva la convinzione che "tra i delinquenti la follia è molto ma molto più diffusa di quello che non si creda (…) massime quando si ponga mente al non scarso numero di coloro, i quali durante ancora la follia, avendo espiata la pena, usano del diritto di rientrare nella società, ove spesso seminano il terrore e la strage". Era una visione che le contraddittorie proposizioni della criminologia positivistica lombrosiana avrebbero potentemente contribuito ad alimentare, anche al livello della cultura popolare e che, fra l’altro, si sarebbe riflessa nella legge 14.2.1904, n.36 (e relativo Regio Decreto attuativo 16.8.1909, n..615), con l’obbligo di custodia degli alienati mentali "pericolosi" o di "pubblico scandalo" e la loro segnalazione all’autorità di pubblica sicurezza con l’iscrizione nel casellario giudiziario. Un sistema il cui reale superamento avrebbe avuto inizio soltanto con la legge 18.3.1968 n.431 (c.d. "legge Mariotti") per giungere, dieci anni dopo, alla legge n.180 sulla riforma delle strutture psichiatriche. La storia della psichiatria nel secolo alle nostre spalle è stata dunque pure quella dei sofferti tentativi di conquistare infine lo spazio per un’ars sanandi libera da implicazioni e aspettative custodialistiche e vigilatrici.
Ritengo che la psichiatria italiana stia attualmente vivendo un periodo storico connotato dalla povertà di modelli critici di pensiero, dall’inerzia intellettuale e da una certa decadenza progettuale. Lo spegnimento comprensibilmente naturale, ma forse non spontaneo, di quel fuoco di principi e di gesti che ha segnato l’epoca post-manicomiale pare aver costretto la nostra pratica in uno spazio non illuminato dal pensiero, ma soffocato da un agire esasperato e caotico o, di converso, da una passività indolente e difensiva.
Come spesso accade, quando un’area epistemologica diventa debole ed insufficiente, il soccorso va ricercato in altri campi d’indagine. In maniera paradossale, alogica e controintuitiva, credo che le recentissime, provocatorie e perturbanti teorie dell’estetica ci possano aiutare a mettere ordine. Il filosofo Mario Perniola ne L’arte e la sua ombra si interroga sulla possibilità dell’esistenza di un’identità forte e di una forma di grandezza nell’arte attuale. Molti ne dubitano: il mondo dell’arte sembra infatti dominato da interessi mercantili che riducono l’arte alla produzione e alla promozione di opere da sfruttare economicamente. Contro questa mercificazione si è levata la protesta dell’anti-arte la quale, tuttavia, molto spesso misconosce il carattere complesso ed enigmatico dell’esperienza artistica e la sostituisce con una comunicazione ludica ed effimera. L’attenzione si sposta allora verso l’idea del resto. Scrive Perniola: "A causa di questo abbandono dei loro terreni più avanzati e tradizionali l’arte e la filosofia si trovano entrambe esposte al pericolo della banalizzazione, dell’omogeneizzazione, se non della trivialità; nella volontà di mantenere il rapporto con la società, esse assistono all’erosione della specificità dei loro messaggi e — ciò che è ancora più grave — al rischio di vedersi soppiantare da imitazioni più accessibili e commerciali, secondo il noto adagio "la moneta cattiva caccia la buona"". Per il filosofo italiano, vi è un’unica soluzione per cercare di contrastare tali calamità — indicazione che, forse, la psichiatria potrebbe far sua – cioè quella di giocarsi la carta del resto. Si tratta dell’idea che "sussista nell’arte come nella filosofia – [e io aggiungerei, se non altro per assonanza, anche nella psichiatria] — qualcosa di irriducibile ai processi di normalizzazione e di standardizzazione in atto nella società".
Mi piace pensare che tali ipotesi concettuali possano essere trasdotte e trovare senso anche nel territorio occupato maldestramente dall’attuale pensiero psichiatrico. Mutuando ancora Perniola, desidero notare che resto è connesso alla parola latina restus (da sto) e che rimanda all’idea di fermezza, di stabilità e di resistenza. "Sotto questo aspetto — spiega il filosofo — il resto dell’arte sarebbe ciò che nell’esperienza artistica si oppone e resiste all’omogeneizzazione, al conformismo, ai processi di produzione di consenso massificato, in atto nella società contemporanea, e più in generale alle tendenze a ridurre la grandezza e la dignità dell’arte".
Forse è proprio intorno a questo resto che anche i medici della psiche debbono soffermarsi e lavorare, nel tentativo estremo di arginare quel tragico processo di omologazione dell’arte psichiatrica, che tende pericolosamente a rapire verso orizzonti post-asilari cibernetici, dalle suggestioni post-umane e post-organiche.
Il progressivo spostamento sul territorio dell’intervento relativo alla salute mentale, con la creazione di una rete di Centri Psico-Sociali, ha costituito il cuore del processo che ha consentito il superamento del sistema custodialistico-manicomiale. Ciò implica che i Servizi Territoriali, mediante la loro attività ambulatoriale e domiciliare, debbano pervicacemente e disperatamente evitare di perdere i pazienti psicotici — si è financo proposto di redigere un casellario… mi correggo! … un registro dei casi gravi, con la finalità, immagino, di arginare il rischio di drop-out — e non debbano, inoltre, apparire disattenti davanti alle problematiche apparentemente meno severe, che rendono distratto anche l’ambiente sociale, in quanto la vis perturbandi ac turbandi del soggetto sofferente è mantenuta sotto-soglia.
Credo che lo strumento diagnostico, sia esso di matrice biologico-nosografica (DSM-IV-TR; ICD-10) sia esso di stampo psicologico-psicoanalitico (criteri diagnostici della schizofrenia di Pao, oppure quelli di Kernberg per i Disturbi Borderline di Personalità, giusto per citarne i più noti) risulti di assoluta inadeguatezza ed insufficienza per ottemperare a tale mandato.
Va tuttavia ribadito con vigore il concetto che qualsivoglia tipo di patologia psichiatrica, indipendentemente dai disagi e dai fastidi che arreca all’ambiente circostante, ha pieno diritto di essere valutata e curata nel modo più appropriato. Come è infatti ben noto, per esempio certe patologie dell’umore, molto invalidanti sul piano individuale e familiare, quali la depressione maggiore – connotata da grande ritiro, chiusura, inerzia e blocco e da un profondo dolore — a volte tendono ad essere trascurate o malamente considerate, in quanto arrecano poco o punto allarme sociale e quindi comportano per i Servizi Territoriali una modesta richiesta di intervento, salvo determinare — a posteriori — polemiche e inchieste nei casi delle vicende-limite che sfociano in suicidi o — addirittura — nei cosiddetti "suicidi allargati".
Per contro altri quadri nosografici, caratterizzati da clamore, furia, agiti eterolesivi, anomalie comportamentali, conquistano il primato degli investimenti dei Centri Psico-Sociali, dal momento che i ripetuti richiami ambientali richiedono, giocoforza, una spesso imponente risposta delle diverse figure professionali che operano nei servizi pubblici.
Di certo la mission dei Centri Psico-Sociali è indirizzata alla prevenzione e alla presa in carico delle patologie psicotiche e dei soggetti portatori di malattia mentale grave; meno certo in linea teorica, ma assai evidente sul versante della domanda socio-ambientale, risulta anche il mandato di controllo sociale di cui sembra investito il settore sanitario psichiatrico (territoriale ed ospedaliero). Qui mi pare di poter individuare uno dei tanti esempi di quell’omologazione dell’arte psichiatrica di cui si parlava prima, frutto di una cultura disorientata dalla densità delle aporie e delle contraddizioni e di un modello psichiatrico speculare, debole e compiacente, che testimonia dello svolgersi di un pensiero "menzognero". Mi collego per questo a Bion: "E’ necessario postulare il "pensare" senza supporre che un pensatore sia essenziale (…) Tutto il pensare e tutti i pensieri sono veri quando non c’è un pensatore. Al contrario, per le menzogne e le falsità è assolutamente necessario un pensatore (…). L’unico pensiero vero è quello che non ha mai trovato un individuo che lo "contenga" (…). La falsità è la caratteristica del pensiero all’interno di un contenitore (…). La menzogna è una falsità associata alla "morale"".
In tal senso è "menzognero" assumere a sostegno della "mentalità sociale" — come si esprime Bion — l’occultamento o comunque la rinuncia a rintracciare i "segni" della turba psichica, investendo la "moralità psichiatrica" del compito elettivo di riconoscere solo l’ "aspetto pratico dell’esistenza", che presuppone l’etica del sospetto, non promuovendo salute ma privilegiando il controllo del disordine e l’evitamento del pericolo.
Credo sia allora necessario ricercare un’area intermedia nella quale il pensiero abbia ancora modo di svilupparsi in maniera "devota", rendendo possibile quell’alchimia capace di trasformare il resto in un processo creativo e curativo ancorato solidamente al reale.
Penso alle tesi di Franco Fornari, alla formazione del collettivo, dell’Istituzione, come storicizzazione dei metastorici codici affettivi, propri a ogni essere umano, che consentono di intendere l’istituzione psichiatrica come "gruppo specializzato di lavoro", governata dai codici affettivi inconsci che "(…) costituiscono una competenza affettiva originaria comune a ogni uomo e hanno la funzione di significazione e di programmazione degli affetti".
D’altra parte, le vicende di almeno cent’anni di evoluzione della psichiatria (in Italia e altrove) sono costantemente attraversati da impulsi a superare lo status quo e il ritiro nei recinti asilari.
Mi permetto allora un salto all’indietro, agli albori del secolo appena trascorso, nella speranza di rintracciare gli stessi dilemmi, quegli stessi eterni elementi di dubbio e di incertezza che velano anche il presente della nostra branca specialistica. Mi anima pure la fiducia di recuperare, nella lettura della storia, dei sensi e delle ragioni che ci aiutino a resistere al richiamo fatale di ripercorrere, a ritroso, rotte antiche di navigazione e ad individuare feconde strategie progettuali per il futuro.
Così Buttolo Cesare, quarantottenne genovese, ricoverato nel 1908 nel Manicomio di Cogoleto a Genova in "stato maniaco — ipomania — caratterizzato da eccitazione del tono delle emozioni, ilarità, iperattività, deliri di grandezza, sensazione di benessere e ottimismo esagerati", si dice vigilato gli infermieri:
"Da questi, da tutti, — lo posso dire in coscienza, – fui sorvegliato, – ed in modo tanto speciale, che quasi dirò feroce… Fui dunque: arcisorvegliatissimo… ed in ogni luogo… fui seguito e doverosamente sorvegliato al camerino, durante i pasti. Furono persino tenuti da parte in un piatto gli avanzi del pane che non mangiavo (non mangio la midolla), – durante la passeggiata, – quando sedevo il Capo-Sala si avvicinava e nel bel bello mi interrogava per "scrutare", – nella camera da letto, – e poi anche durante la notte (…)".
E più avanti, sulla scia dell’affilata ironia che lo distingue:
"Alfine, – dopo un mese e più di osservazione microscopico-feroce, ed in una bella mattina di Luglio era destinato che a uno di questi buoni sorvegliatori giungesse un sussulto dispensatore di gioia in premio di tanta perseveranza. Ed ottenni il permesso di uscire per un’ora, da solo, a passeggiare per il parco. Purtoppo, ben presto iniziò a piovere a dirotto e dovetti subitamente tornare in corsia!".
Questo passo, che pare ancora di eccezionale attualità — si pensi alla sorveglianza imposta nei reparti ospedalieri, ma anche al controllo strenuo della devianza richiesto ai servizi territoriali — riceve un acuto commento da Borgna:
"L’essere trasformati in un "oggetto" di osservazione, l’essere destituiti di ogni connotazione individuale (questa associazione aggettivale, "microscopico-feroce", è di straordinaria pregnanza semantica e trafigge ogni attitudine infermieristica consegnata al "guardare" e al "sorvegliare" spietato e inquisitoriale) e, infine, l’assoluta incapacità di ascolto da parte di chi li assisteva rappresentano le spine crudeli e implacabili che hanno segnato il destino di infinite generazioni di pazienti: schiacciati sotto il peso degli sguardi deificanti e gelidi".
Eppure, nel 1908 stanno approdando in Italia le tendenze innovatrici della fine dell’ottocento e dei primi anni del ventesimo secolo, provenienti in particolare dalla Germania dove operavano Krafft-Ebing e Kraepelin e dall’Istituto svizzero di Zurigo, il celeberrimo Burghölzli, vero e proprio "monastero psichiatrico" sotto la direzione di Bleuler. Ma già nel 1902, nella sua profetica relazione Le conquiste della psichiatria nel secolo XIX e il suo avvenire nel secolo XX, presentata all’XI Congresso della Società Italiana di Freniatria, Tamburini, una delle figure più autorevoli del cosiddetto "Risorgimento Psichiatrico", prevede che: "Un molteplice ordine di conquiste e di riforme fisiche, morali e sociali dovrà cooperare", per inserire i malati nei loro ambienti di vita, con lo scopo di acquisire il "benefico risultato di ridurre l’affollamento dei manicomi (…) e di diminuire nel complesso l’incidenza delle malattie mentali".
Nel trentennio in cui fu Direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Reggio Emilia, Tamburini si adoperò nell’applicare alla psichiatria le giovani teorie della psicologia sperimentale e di quella clinica, che si stavano sviluppando in quegli anni nei paesi di lingua tedesca.
Il malato sembra entrare in un nuovo quadro di relazioni, dove anche il personale infermieristico pare rivestire un ruolo diverso e più professionale, onde garantire ai pazienti rapporti più "umani" ed "intelligenti". Nel documento sulla situazione dei manicomi in Italia, steso da Morselli nel primo decennio del secolo passato, appare chiaro il bisogno di cambiamento:
"E’ già da alcun tempo — afferma Morselli – che l’Italia si trova in un periodo di fervore per riguardo agli asili degli alienati: anzi possiamo dire che fra qualche anno tutti i Manicomi italiani avranno subite ragguardevolissime riforme (…) ad esempio di quelli bellissimi di Macerata, Siena, Pesaro, Novara, Imola e Voghera".
Si tratta di proposte che ipotizzano un miglioramento della qualità della vita degli alienati tra le mura asilari: "Fu lo Zani che riedificò questo Frenocomio [di Reggio Emilia] — celebra con enfasi Morselli — restituendolo alla scienza e all’umanità che lo avevano perduto da un pezzo. Ai suoi malati rese il sole, il moto, la vita: gli diede amicizia e lavoro, e col lavoro la quiete, la letizia, e salute", ma che suggeriscono pure delle formule alternative di cura, che cominciano a contemplare dei proto-trattamenti della patologia psichica in ambito extra-manicomiale.
Di certo a Kraepelin spetta il primato nell’opera di iniziale sistematizzazione delle malattie mentali, ma nei suoi scritti emerge pure una sincera preoccupazione per la sofferenza dei suoi pazienti, e la curiosità di sperimentare modalità innovative di terapia e di assistenza per gli psicotici. Le rivoluzionarie pratiche del Maestro tedesco giungono inevitabilmente a condizionare — seppur con qualche decennio di ritardo – l’operare psichiatrico anche del nostro paese.
Sulla scia delle pionieristiche esperienze del villaggio belga di Gheel, i cui "abitanti si occupano fin dagli antichi tempi della cura domestica dei pazzi per una ragione di origine religiosa" – culto di Santa Dymphna -, e di altri paesi, come la Scozia e la Germania, Kraepelin individua nel "trattamento famigliare" un ottimo supporto alla terapia del demente precoce. Spiega Kraepelin: "Tale cura famigliare [da realizzarsi affidando i malati ad apposite famiglie, su compenso economico e sotto controllo medico al domicilio] serve da una parte di passaggio per una completa libertà e per abituare i malati ad un lavoro quotidiano regolato e per dar loro di cercare guadagno. Oppure essa rappresenta una forma originale per la permanente cura dei malati di mente".
Una nota altrettanto attuale si legge quando il grande clinico tedesco parla della dimissione dell’infermo dal manicomio, inizialmente da intendersi solo in via di esperimento, ma poi da tentare in via definitiva, tenendo conto che, per alcuni pazienti, il soggiorno nell’asilo può essere ulteriormente nocivo, perché risultano accentuati l’isolamento e il distacco dalla realtà quotidiana.
Sollecita, poi, la crescita e lo sviluppo di quelle fondazioni a carattere benefico e filantropico, quali la "Società di Soccorso" di Hessen, diretta da Ludwig , o la "Casa Schônov" a Berlino, sorta per la tutela dei "soggetti nervosi", che dovrebbero assolvere al compito primario di "togliere agli infermi con convenienti sussidi le prime preoccupazioni e inoltre — scrive Kraepelin — di aiutarli con consigli ed appoggi a riacquistare una indipendente e tranquilla posizione sociale".
Egli descrive, infine, le attività che oggi definiremmo di "prevenzione primaria", svolte da queste associazioni di volontario soccorso: "Esse cercano in tutto il paese per mezzo di molte persone di fiducia, non solo di conservare un contatto continuo con i malati dimessi dai Manicomi e con i loro cari, ma anche di educare la popolazione ad un’efficace cooperazione per provvedere ad essi; – e continua – rendendo in tal modo più popolare il concetto della natura della pazzia e spingendo l’opinione pubblica ben istruita a premere e ad aprire la strada a successivi miglioramenti".
Il Kompendium di Kraepelin divenne nelle sue molte edizioni il trattato psichiatrico più diffuso e letto nell’Europa a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo.
Nel 1928, a trent’anni circa dall’edizione più divulgata del manuale, quella del 1896, Levi Bianchini, Direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Teramo, istituisce uno dei primi Dispensari di Igiene e Profilassi Mentale (D.I.M.) sul territorio italiano. Tale ambulatorio psichiatrico è attivo a tutt’oggi.
Come spiega lo stesso Levi Bianchini, non si tratta della prima esperienza italiana in assoluto: "Il brevissimo, ma già proficuo periodo di tempo (10 mesi) che contrassegna l’inizio del funzionamento del D.I.M. di Teramo, venuto, se la memoria non erra, terzo in Italia, dopo quelli di Arezzo e di Venezia e già seguito dalla costituzione di quelli di Trieste, Pesaro, Napoli è certamente destinato ad affrettare la costituzione di identici istituti presso tutti gli Ospedali Psichiatrici del Regno e persino in tutte le province, anche non aventi manicomi propri (…)".
Il Dispensario riveste funzioni di cura extra-nosocomiale e di prevenzione della salute mentale: "Il D.I.M. funziona come guardiano dell’Ospedale Psichiatrico, nel senso che è deputato alla scoperta precoce delle neuropatie e neuropsicosi infantili, al trattamento ambulatorio (e psicoanalitico) delle neuropsicosi e psicosi puberali e dell’età adulta, alla educazione igienica, nei riguardi dell’intelligenza e della condotta della popolazione; e con ciò alla prevenzione delle malattie mentali stesse ed alla salvazione dell’individuo dall’internamento manicomiale".
Queste asserzioni colpiscono per il carattere di strabiliante modernità che le anima, e che richiamano curiosamente ad alcuni principi enunciati nei più recenti Piani Sanitari Italiani sul tema della salute mentale.
Una forte spinta a trovare soluzioni alternative alla custodia ospedaliera proviene pure dalla Trieste degli anni del ciclone psicoanalitico, anche se, tutto sommato, la psicoanalisi entrò con voce assai flebile nell’Istituzione Psichiatrica giuliana. Nella relazione sull’andamento dell’Ospedale Psichiatrico triestino, datata marzo 1930 ma relativa all’attività dell’anno precedente, si legge: "Le difficoltà incontrate per piazzare i malati non del tutto guariti presso le famiglie furono considerevoli (…). Vi si provvide con sussidiamenti periodici da parte della Provincia (…). Tre di questi ex-degenti (un meccanico, un tappezziere, un falegname) si recano a lavorare nelle officine dell’Ospedale quando non riescono a trovare occupazione in città. Gli infermieri si prodigano nell’aiutarli quando il loro zelo cala. (…) Costante e serio è stato l’impegno messovi dai medici curanti per forzare le dimissioni".
I pazienti dimessi vengono poi seguiti in ambulatori medici collocati fuori dal manicomio, con notevole impiego di personale medico e di comparto, diremmo oggi: "Furono visitati vari ammalati a domicilio; a questi e alle famiglie indigenti dei ricoverati si distribuirono sostegno morale e sussidi economici (…)".
Viene inoltre costituito un "ripartino" annesso all’Ospedale: "attraverso questo ripartino si riuscì ad istituire l’ammissione libera dei malati desiderosi di farsi curare (…) e quando le cure al domicilio non risultassero sufficienti (…), evitando l’odiosità di essere notificati all’Autorità giudiziaria come previsto dalla Legge del 1904 ".
Il resoconto annuale sulle attività del nosocomio termina con un appello all’ "assistenza libera, intesa anche come mezzo di profilassi per le malattie mentali". La libera assistenza postula come tesi fondamentale la dimissione dei malati dal manicomio, attraverso:
"1) l’assistenza omofamiliare, assicurando agli ammalati la cura medica — o ambulatoriale – e stabilendo dei sussidi mensili di sostentamento per le famiglie povere;
2) collocando singole malate verso compenso presso le famiglie di infermieri (…); si istituirebbe così l’assistenza eterofamiliare finora mai tentata su vasta scala a Trieste;
3) assegnando, sotto il controllo del Patronato per neuropsichici, nelle nuove case un quartierino alle malate innocue".
Queste proposte d’intervento e di trattamento senza dubbio si distinguono con vigore dalla gestione custodialistica della sofferenza mentale: lentamente si sta passando da una posizione che privilegiava la salvaguardia del sociale, ad una posizione dalle prospettive salvifiche anche per l’individuo malato.
Credo che questi emozionanti riferimenti di ordine storico — assieme, ovviamente, a molto altro – possano rivestire un importante significato euristico nel chiarire il processo che ha condotto alla definizione delle coordinate di idee, di atti e di norme della psichiatria italiana territoriale e di comunità, ma che segnala anche la deludente fase attuale, che sembra rassegnata a registrare una parabola discendente sul piano teorico e progettuale.
Mai come in questo periodo la psichiatria sembra essere travolta dalle difficoltà originate dall’ imperativo improbo e schiacciante di vigilanza sociale, compito per definizione insolubile da parte di una pratica sanitaria. In questo senso le proposte di legge sulla riforma dell’assistenza psichiatrica avanzate nel corso della XIV legislatura dalle forze politiche di maggioranza — solo temporaneamente accantonate – sembrano manifestare uno zeitgeist, uno spirito del tempo, di segno ben preciso. Dalle due proposte più importanti (n.174, sottoscrittore On. Burani Procaccini; n.152, sottoscrittore On. Cè) emerge una forte espansione delle aree di trattamento obbligatorio – sia per i tempi che per le modalità esecutive — con l’introduzione di una vera e propria "griglia" destinata a modulare un crescendo di interventi coattivi sul paziente psichiatrico, dall’ "accertamento sanitario obbligatorio" (ASO), all’ "accertamento sanitario obbligatorio ospedaliero" (ASOO), sino al "trattamento sanitario obbligatorio prolungato" (TSOP), con evidenti intenti di controllo sociale.
Mai come in questo periodo è necessario intendersi su chi sia l’oggetto dell’agire curativo e salvifico della psichiatria. E’ l’Individuo o è la Società? Mai come in questo periodo la pressione culturale e mass-mediatica forza e devia l’asse dell’azione in psichiatria nella direzione del controllo connivente e "menzognero" – in termini bioniani — del disordine e del disagio ambientale.
Si sta riproponendo in termini post-asilari e post-moderni una questione antichissima, che ha a che fare con l’orrore per il caotico, l’insensato, il folle, il dolore, il male, che vanno denegati e segregati, magari in luoghi nuovi — come nei vari servizi e presidi psichiatrici ospedalieri, residenziali e territoriali, oppure dentro agli schermi televisivi o nelle colonne dei giornali — ma che richiedono sempre e comunque di essere isolati e separati dal contesto collettivo. E allora coloro che praticano la psichiatria corrono un rischio conosciuto: riproporre il manicomio nei loro servizi di prevenzione, diagnosi e cura (SPDC), nelle loro comunità, nelle semi-residenzialità, negli ambulatori. Nelle loro stesse menti. Sembra il gioco delle tre carte condotto da mani diaboliche.
La malattia mentale è certamente una questione di natura medica, ma è anche una faccenda profondamente radicata nel sociale e nel panorama culturale del tempo.
Credo che la vera mission, intesa proprio come compito benedetto, di noi operatori psichiatrici sia quella di registrare lucidamente la "menzogna" — sempre in senso bioniano — che sta opprimendo e omologando la nostra professione, e cercare di coltivare quel "resto" stabile e sincero che può fare ancora del nostro mestiere un’arte.
da leggere e da discutere
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