Elena Petrassi: Quali sono le motivazioni intellettuali e personali che l'hanno spinta a scrivere il libro "Il gesto di Ettore"?
Luigi Zoja: A spingermi è stata prima di tutto la constatazione che si parla molto della madre e poco del padre, quindi la scarsità di dibattito culturale, ed in secondo luogo l'essere cresciuto in una generazione, quella del '68, che mi ha portato a interessarmi alla critica della società e della storia recente. In ogni storiografia, però, ho sempre trovato una forte carenza di ordine psicologico. Ad esempio nello studiare la nascita dei fascismi ho rilevato che una certa storiografia, di radice economicista e marxista, non ha tenuto nella dovuta considerazione le componenti di ordine psicologico che entrano in gioco nella costituzione dei regimi politici, in modo particolare nell'instaurarsi dei fascismi. C'è poi da aggiungere che un altro motivo di interesse viene dalla mia sfera privata: sono padre di 3 figli, nati da due matrimoni diversi, un figlio di 22, una figlia di 19 e una di 12. Dopo la separazione dalla mia prima moglie, i miei figli maggiori, già abbastanza grandi, hanno scelto di vivere con me, quindi mi sono trovato a giocare un ruolo di mediatore tra maschio e femmine e tra figli dei due diversi matrimoni, assumendo così la veste di co-parent, cioè quello che oggi chiamano il "nuovo padre": un padre primario che ha un ruolo che si confonde con quello della madre, così come era avvenuto nel corso del mio primo matrimonio. Col passare del tempo, però, sono regredito, o forse progredito, a un ruolo più tradizionale di guida e devo dire che ne sono contento. Anche i miei figli seguono il mio lavoro di ricerca intellettuale e preferiscono vedermi in questo ruolo piuttosto che mentre cucino, cosa che, peraltro, continuo a fare. Le motivazioni di carattere personale, quindi, sono state altrettanto forti di quelle intellettuali.
Petrassi: Per entrare nel vivo del suo libro, vorrei partire da un concetto espresso nella parte iniziale: cosa intende quando parla di "paradosso del padre"?
Zoja: Due sono gli episodi che racconto nel libro e che qui è necessario ricordare per comprendere cosa intendo con tale paradosso. Il primo è quello occorso al padre di Freud, il quale, aggredito da un prepotente che non voleva cedergli il passo, si limitò a scendere dal marciapiede e a raccogliere il berretto che l'altro gli aveva gettato nel fango, così segnando, con la sua mancanza di eroismo, il carattere del futuro padre della psicoanalisi. Il secondo episodio non attiene al mondo reale, ma a quello delle narrazioni epiche. L'immagine centrale del mio studio è infatti Ettore che, come racconta L'Iliade, sfilandosi l'elmo sovrastato da una imponente chioma può finalmente chinarsi, prendere il figlio tra le braccia e levare verso gli dei quella preghiera benaugurante che vuole il figlio più forte di quanto lui stesso non sia. Con il suo gesto e con la preghiera Ettore, nella mia lettura, travolge l'onnipotenza immobile del mito con la speranza che il futuro possa essere migliore del passato. Tradizionalmente, nella società occidentale -che, ci piaccia o no, è quella in cui viviamo e quella in cui vive anche il resto del mondo a causa della globalizzazione, quindi è di fatto una società mondiale-, che nel bene e nel male è una società patriarcale, il padre ha questa funzione di intervenire nell'educazione dei figli dopo la madre, insegnando loro come si sta nella società. Semplificando, in una fase cosiddetta primaria, il figlio è affidato alla madre, o a chi comunque esercita quella che chiamiamo ‘funzione materna', che in questa fase accudisce fisicamente il bambino e si prende cura di soddisfare i suoi bisogni. Il bambino, però, non può soltanto avere bisogni, desideri, istinti da soddisfare immediatamente, e nella fase secondaria, si inizia quindi a insegnargli la limitazione dei bisogni proprio per introdurlo nella società e nella famiglia, che è una micro-società. Per funzione paterna intendo proprio questa capacità di dire ‘no', di insegnare ai bambini a limitarsi, a imparare la disciplina, che è un fatto del tutto culturale e ben si attaglia alla figura paterna, che è anch'essa una creazione artificiale, cioè culturale, mentre la madre è una sorta di continuazione della natura. Come ricordava anche Paolo De Benedetti nella sua relazione di oggi, nella Bibbia il termine ‘padre' è attribuito al solo essere umano, mentre la parola ‘madre' riguarda anche la maternità animale. Nella società e nell'apprendimento culturale, che è prima di tutto una limitazione dei bisogni, non c'è più soltanto il piacere, ma il rapporto col figlio è anche di dispiacere, quindi anche conflittuale così com'è conflittuale anche il rapporto con la società, perché bisogna insegnare, e imparare, a stare al proprio posto come anche a combattere per avere un posto. Il paradosso del padre è dunque che il padre deve essere padre in famiglia, dove prevalente è la legge del bene e la legge dell'amore, ma deve essere padre anche in quanto insegna al figlio la società, sta nella società ed è guardato dal figlio nel suo stare in società. Lo sguardo del figlio verso il padre che gli fa da maestro in società è lo sguardo che si attende il padre in qualche modo vincente, dando il primato alla legge della vittoria su quella dell'amore, una legge spietata che nel libro definisco ‘darwiniana'. È meno importante che, in società, il padre sia buono come nella famiglia, perché essere buono, ma perdente, rischia di avere come risultato il fatto che il figlio ritiri la funzione paterna al padre. E' questo proprio il caso della storia raccontata da Freud a proposito del padre, rispetto al quale la stima del giovane venne meno quando questi non reagì e si lasciò umiliare. Va a questo punto notato, però, che nella nostra tradizione patriarcale è difficile immaginarci che qualcosa di equivalente accada con la madre: se una madre viene umiliata in pubblico il figlio si dispiacerà, ma più facilmente proverà solidarietà verso la madre piuttosto che vergogna.
Petrassi: Sempre nel suo libro lei parla di "stadio sfrenatamente consumistico della nostra civiltà e della nostra condizione di lattanti psichici, cioè non iniziati a quell'alternarsi di dare e ricevere che è la condizione per diventare esseri morali" ed in tale affermazione mi sembra implicito un forte giudizio politico. Dal suo punto di vista di analista junghiano cosa rende irresistibile la pervasività del possesso e del consumo in tutti noi, occidentali e non solo? Cosa rende quindi apparentemente irresistibile l'ideologia capitalista?
Zoja: E' una domanda non facile, perché ogni risposta rischia di essere riduttiva in quanto il nostro atteggiamento e il nostro comportamento sono determinati da una serie di fattori. Uno di questi, forse il più vistoso, è la secolarizzazione della società, ancora più che la sua laicizzazione, cioè il ritiro della religione, se ancora c'è del senso religioso, nel privato, nel cuore dell'uomo. La secolarizzazione, infatti, va ancora oltre la laicizzazione perché, in generale, implica una perdita dei valori. Quello che di fatto ho rilevato è che il marxismo è stato una sorta di prosecuzione del cattolicesimo, perché in fondo si fondava sulle stesse radici psicologiche. Il consumismo, invece, è una macchina che si alimenta da sola, perché consumismo chiama consumismo, è una sorta di addiction, una tossicodipendenza, non c'è più abitudine ad altro. Al tempo stesso, e per collegarmi a quello che dicevo prima, il consumismo è il ritiro della ‘fase del no', della funzione paterna da chiunque sia esercitata, quindi del "good enough father" -come direbbe il mio collega Andrew Samuel-, cioè del padre sufficientemente buono di qualunque sesso e di qualunque origine egli sia. La mancanza di una funzione paterna, certamente scomoda e criticabile, è però anche causa di questa situazione sociale. Forse è vero che, criticando fortemente la società patriarcale, abbiamo gettato via "l'acqua sporca insieme al bambino". Nel '68, proprio mentre la critica alla società patriarcale si radicalizzava, io mi sono disimpegnato, perché provavo una grande inibizione, una pietà, verso i poliziotti: quando gridavamo contro i ‘padroni borghesi' non potevo non ricordarmi che io stesso ero un borghese.
Petrassi: Un sentimento simile a quello di Pasolini quando scrisse degli avvenimenti di Valle Giulia…
Zoja: Esattamente. In seguito mi sono trasferito a Zurigo e un giorno provavo una grande angoscia, mi sentivo in colpa per avere tradito in qualche modo i miei compagni e lui ha messo in parole quello che io pure sentivo.
Petrassi: Lei sostiene che la nascita del padre patriarcale, così come lo intendiamo, è un atto essenzialmente culturale e quello che lei chiama "il genocidio dei padri", cioè l'allontanamento dei padri dai figli, è sempre più evidente e inconfutabile, questo significa che il ruolo paterno inteso come funzione collettiva e simbolica è irrimediabilmente perduto?
Zoja: Perduto no, però certo è estremamente indebolito, deve girare per altre metafore e altri simboli, si nasconde dietro ideologie più astratte che, come sappiamo, hanno sempre meno funzione di immagine concreta e mancano di valenza affettiva. Non credo comunque che la figura del padre sia irrimediabilmente perduta, perché comunque riconosciamo una funzione alla socializzazione, alla disciplina, però, non so come dire, è un ruolo e un significato estremamente indebolito e deve nascere da situazioni diverse, in cui comunque il fattore paterno deve mescolarsi con altri simboli perché come fattore paterno esclusivo è divenuto inaccettabile. Per esempio si nasconde molto dietro le società dei fratelli, cioè società a valenza orizzontale, quindi società come quella dei talebani, che non vogliono ricostruire un'autorità patriarcale ma costituiscono queste bande di eguali con un capo carismatico che non ha una funzione paterna specifica, quindi una funzione di mediazione sociale.
Petrassi: Ma questo passaggio alla società dei fratelli non potrebbe essere il preludio a una società meno gerarchica, quindi a una società policentrica, reticolare, più egualitaria, libertaria e rispettosa delle diversità?
Zoja: Dipende, dobbiamo intenderci sulle parole, su cosa intendiamo quando diciamo "società dei fratelli". Per me uno degli aspetti più deteriori della società americana, e qui mi rifaccio a Robert Bly, è proprio dovuto a questa orizzontalità e a questo egualitarismo, oggi molto forzato attraverso l'ideologia del politically correct, che è una vera esasperazione. Qualche giorno fa, per esempio, ho tenuto un seminario su questo tema e uno dei numerosi partecipanti uomini, che appartiene a uno di questi men's group, ha dichiarato "mi interessano molto le idee, ma quella che è stata la grande esperienza, la grande novità della mia vita, è l'aver partecipato a questi men's group, avvenimento che mi ha dato un sentimento, un'emozione, che non ho mai provato nel partecipare alla società mista di uomini e donne". Negli Stati Uniti le funzioni sono molto più ‘egualizzate' che non in Europa e nelle società latine e quindi l'uomo aveva riscoperto, relazionandosi solo con altri uomini, emozioni potenti. Io, però, trovo che questa sia una non soluzione, perché non riporta quella verticalità, quel collegamento dei valori superiori, non riporta a un senso di disciplina necessaria prima di tutto come auto-disciplina. Penso a come dei talebani possono guardare a questimen's group: credo che facilmente potrebbero dirsi: "Perché dobbiamo passare attraverso la modernità, con tutti i mali che conosciamo, quando poi la soluzione, la riscoperta di emozioni vere, la si ha quando si torna a separarsi dalle donne"? La società egualitaria porta queste contraddizioni, porta anche allo stato premoderno della società dei fratelli, proprio lì dove la critica alla società patriarcale è stata molto forte. In Italia, tutto sommato, attraverso la politica, attraverso la persistenza della chiesa cattolica, questo meccanismo è stato frenato. L'esasperazione del consumismo e quella della società dei fratelli vanno assieme. Quello che manca è il progetto, la lunga durata. La difficoltà nasce quando si instaura un rapporto simbiotico tra madre e figlio, o figlia, un rapporto che priva il figlio/la figlia dell'aspetto progettuale e di proiezione nel futuro, cosa che, fra l'altro, rende anche più difficile la formazione di una identità sessuale definita, e questo fermare il tempo, questo mancare il progetto è causato anche dai padri che se vanno.
Petrassi: Per restare alle figlie, nel suo libro il rapporto padre/figlia resta sullo sfondo rispetto al rapporto padre/figlio. Per la sua esperienza, le figlie di questo padre assente, mancante, ne hanno più o meno nostalgia dei maschi?
Zoja: Penso che ne abbiano nostalgia forte sia le figlie che i figli, anche se nelle figlie è forse ancora maggiore. Quello che però vorrei sottolineare è che la nostalgia del padre assente c'è anche quando il padre vive ancora in famiglia. Mi viene in mente l'episodio, che cito anche nel libro, di una mia paziente che mi disse: "Il padre contadino era un tiranno, ma era un padre. Il padre di oggi è un cretino che se ne sta seduto davanti alla televisione". Insieme a questo bisogna ribadire il vuoto creato dal consumismo e dalla mancanza dei valori.
Petrassi: Per restare alla "società dei fratelli", lei crede che sia possibile leggere in tal senso anche i movimenti mondiali "no-global", il popolo di Seattle per intenderci, così fortemente critici rispetto agli Stati Uniti e all'ideologia consumista?
Zoja: Pur non avendo ancora dedicato una attenta riflessione a questo movimento, credo si tratti di un fenomeno che possiede una valenza fortemente innovativa in quanto nasce da una critica culturale che non si esaurisce in slogan ma che ha in sé elementi di consapevolezza e attenzione alle future generazioni. Coniuga cioè l'aspetto della progettualità e della limitazione dei bisogni tipici della funzione paterna alla struttura orizzontale e allo stare in gruppo tipico dei movimenti degli anni Sessanta.
Petrassi: Il suo libro è una storia psicologica del principio psichico che per semplicità lei chiama "padre" senza altri attributi. Ma diversi suoi lettori di genere maschile, con i quali ho avuto modo di parlare, pur non rifiutando gli assunti della storia che lei ci racconta, stentano a riconoscersi nel modello di padre contemporaneo, cioè assente, che lei descrive e rivendicano, anzi, il loro ruolo di "padre primario sdolcinato" che lei sembra rifiutare anche con una certa vispolemica…
Zoja: Sdolcinate, innanzitutto, sono le immagini del padre che ho riportato nel libro, non i padri. Io non sono in polemica con loro, il problema è che in un libro non si può dire tutto. Il politically correct ci ha portato ad aiutare la madre e va benissimo, l'ho fatto anch'io, mentre quello che ho voluto sottolineare è l'assenza della funzione secondaria, che per definizione è il punto di partenza della funzione paterna. L'avere fatto i padri primari, la vice-madre va benissimo, ma la questione vera è il collegamento tra la disgregazione della società attuale, la disgregazione dei valori, e la mancanza di padre in questa funzione secondaria. Di nuovo penso agli aspetti teologici che ha introdotto De Benedetti. Il problema del primario viene sottolineato continuamente dai progressi della medicina, dell'igiene e della psicoanalisi primaria. Anche la psicologia junghiana, nella sua matrice inglese, è andata molto verso il primario. Il problema è che questo ha sempre lasciato più scoperta questa seconda fase, anche perché intervenirvi è scomodo e impopolare. Per intenderci meglio proviamo a pensare al problema della decolonizzazione. Badi che non sto certo dicendo che voglio tornare al colonialismo, ma è indubbio che le potenze coloniali avevano una funzione e hanno fatto un grande male ad abbandonare i paesi coloniali nel modo in cui l'hanno fatto. Ho visto di recente un meraviglioso film su Lumumba e l'indipendenza del Congo, dove i belgi hanno lasciato 13 milioni di abitanti e 16 o 17 laureati. È scomodo assumersi la responsabilità e accettare, di conseguenza, anche qualche critica, qualcosa di simile è accaduto alla funzione secondaria. Non ho criticato i padri che cambiano i pannolini, il problema è che un libro sulla paternità non può concludersi con un inno ottimistico ai nuovi padri, mostrando certe foto di padri giovani e androgini, perché sarebbe solo superficiale, consumista e ipocrita. Il problema è la mancanza di ‘cultura del paterno', quale è mostrata, ad esempio, dalla mancanza, dalla scomparsa della tragedia dalla nostra civiltà. Qui muovo una critica a un aspetto consumistico della cultura Stati Uniti, che ci hanno abituato a sostituire al linguaggio della tragedia il linguaggio hollywoodiano, un linguaggio che semplifica, dove gli eroi sono sempre buoni, come ho raccontato nel mio libro "Coltivare l'anima". Un tema che mi affascina, e che non ho ancora affrontato, è il rapporto tra la tragedia e i padri. La tragedia vera ha sempre bisogno di padri e, viceversa, il padre è in qualche misura sempre una figura tragica: la tragedia vera in qualche misura implica sempre la paternità. Invertiamo le cose per renderle più chiare: Macbeth è una figura tragica quasi eccezionale perché non è padre, è tragico e non è padre. È quasi un'eccezione che Medea sia una madre e sia una figura tragica. La regola è che la tragedia sia piena di padri tragici e ambivalenti, complessi come è complessa la vita. Qui mi ricollegherei a quello che cercavo di dire con il paradosso del padre e con l'ambivalenza di Ettore, che deve essere forte e feroce e al contempo tenero: io non ho detto che non deve essere tenero, ho detto che deve essere forte. Il padre, proprio perché è una creazione culturale, una sintesi inventata, agisce in una ambiguità, in una ambivalenza, quindi possiede un potenziale dissociativo non occasionale ma strutturale, il padre, cioè, deve fare cose contraddittorie. Dalla seconda metà del ventesimo secolo è stato difficile fare i padri, ma vedo che basta sollevare il problema e subito si accendono i dibattiti, anche se è singolare che a questo genere di eventi i partecipanti siano più donne che uomini, un po' come accade nella stanza dell'analisi, anche se la percentuale si sta lentamente modificando e il rapporto oggi è quasi di parità.
Petrassi: Per chiudere questa intervista le lascio una citazione dalle prose del poeta Umberto Saba di recente uscite nei Meridiani Mondadori: "Vi siete mai chiesti perché l'Italia non ha avuta, in tutta la sua storia – da Roma ad oggi – una sola vera rivoluzione? (…) Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani (…) Sono l'unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda), un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione. Gli italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli". Se la sente di condividere questa affermazione?
Zoja: E' un'affermazione interessante anche se ci sono diverse interpretazioni della nostra ‘anima nazionale'. L' Italia è stato un paese caratterizzato da una grande creatività, da un ruolo storico di primo piano e da una enorme instabilità. Il passaggio da una generazione all'altra implica una grande stabilità che può comunque essere stravolta dal passaggio stesso. Nella nostra storia recente non mancano certo episodi di regicidio, però anche per l'Italia mi viene da dire che ciò che ci manca è la dimensione della tragedia così come l'ho descritta prima.
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