L’interesse per gli affetti ha trovato negli ultimi anni un giusto sviluppo nell’ambito della ricerca psicologica e psicoterapica che oggi tende ad attribuire loro un ruolo fondamentale nello sviluppo della personalità, nei suoi aspetti fisiologici e patologici.
Freud aveva sin dall’inizio della sua attività sottolineato il loro ruolo nella formazione dei sintomi nevrotici, ma la sua concezione era inizialmente limitata ad un fenomeno di scarica tensionale. E tutta la ricerca accademica che ne seguì continuò per anni a considerare gli affetti come derivati pulsionali, come delle temibili forze capaci di disorganizzare il comportamento (Muscetta, 1990). Certamente la razionalità, la volontà, cede il passo al prorompente vigore degli affetti
Solo successivamente si cominciò a riconoscere agli affetti una funzione strutturante, un ruolo fondamentale nella comunicazione interpersonale e nella costruzione del senso di identità .
Oggi si sottolinea soprattutto la loro processualità bidirezionale : essi hanno la possibilità tanto di mantenere, quanto di disgregare le relazioni che l’organismo ha con l’ambiente, interno ed esterno.
Oggi, anche alla vergogna, definita da Rycroft (1970) la "Cenerentola delle emozioni spiacevoli" per la scarsa attenzione ricevuta nel passato da parte degli psicoanalisti, è riconosciuta la funzione positiva di promuovere e proteggere l’identità personale (Wurmser, 1981; Kinston, 1983; Kaufman, 1989).
La vergogna è diventata l’affetto chiave per la psicologia del Sé, così come l’angoscia lo è per la psicologia dell’Io (Broucek, 1982).
La nascita della coscienza si accompagna con il fondamento dell’Ombra e con l’esposizione vergognosa della propria identità, così come il biblico cogliere il frutto dell’albero della Conoscenza portò alla cacciata dall’Eden ed alla scoperta pudica della propria nudità.
L’esperienza dell’Ombra è ineludibile e il vissuto di vergogna è una pietra miliare nel percorso esistenziale .
L’Ombra, in questa suggestiva metafora junghiana, si configura come la proiezione di un corpo opaco, esposto alla luce, il nostro corpo esposto alla luce della coscienza e allo sguardo dell’altro, che permettendo di specchiarci, ci dà ulteriormente la possibilità di costituirci come individui .
"L’esperienza dell’Ombra è innanzitutto esperienza del proprio limite, della negatività, del male di cui siamo colpevoli e di quello di cui siamo vittime" (Trevi) .
La vergogna è qualcosa di più complesso
Considerata prima da Freud come un sintomo traumatico (1896) e successivamente come difesa dagli istinti sessuali (1905), praticamente ignorata dalla Klein, considerata a volte come indistinguibile dalla colpa (Hartman e Loewenstein, 1962) ed è l’aspetto che più facilmente balza ai nostri occhi, la vergogna ridiventa oggetto di interesse specifico negli anni ’50.(Muscetta)
Erikson la definisce come "uno dei modi di esperire accessibili all’introspezione, uno dei modi di comportarsi osservabili da altri e una delle condizioni inconsce individuabili in analisi".
Erikson, in "Gioventù e crisi di identità", si rifà al Convivio dantesco dove la vergogna viene messa tra le passioni che l’adolescente deve provare per entrare bene nella fase giovanile.
L’anima – dice Dante nella canzone che introduce al IV libro – "ubbidiente, soave e vergognosa è nella prima estate".
Qui Dante coglie l’aspetto che potremmo definire libidico della vergogna, cui riconosce tre componenti : stupore, pudore e verecondia.
Sottolineando nello stupore la curiosità, la disponibilità all’oggetto, Dante coglie l’aspetto del desiderio più che la capacità di disorganizzare le funzioni intellettuali, e facendo ciò si ricollega ad Aristotele e a S. Tommaso e si distacca dal concetto più biblico di vergogna, connesso alla colpa, allora in auge.
La complessità del sentimento di vergogna era stata già affrontata da un grande tragico, Euripide, che nell’ "Ippolito" rappresenta con Fedra le implicazioni dell’aidòs.
Teseo ha un figlio, Ippolito, da un’amazzone.
Rimasto vedovo si risposa con Fedra quando il figlio è ancora adolescente. Dal pari dei suoi coetanei, Ippolito ama andare a caccia con gli altri uomini ed onora Artemide quanto disprezza Afrodite, le donne, l’amore.
Afrodite per vendetta fa innamorare Fedra di Ippolito che, coerentemente con la sua posizione, la rifiuta.
Sconvolta Fedra decide di uccidersi per la vergogna, ma prima di farlo scrive un messaggio in cui l’accusa di averle usato violenza. Teseo lo maledice e lo esilia. Poseidone, padre di Teseo, fa comparire sulla strada di Ippolito un toro: i cavalli si imbizzarriscono, Ippolito cade dal carro e viene riportato morente alla reggia.
Artemide svela a Teseo le trame di Afrodite. Il padre chiede ed ottiene il perdono di Ippolito che subito dopo spira.
Con Euripide non siamo più nella "civiltà della vergogna", come è stata definita quella omerica, in cui questo sentimento era la più potente forza morale nota all’uomo (Dodds, 1978), ma certamente ne siamo profondamente in contatto.
Con Fedra vediamo soprattutto la vergogna legata alla propria immagine sociale, all’espressione dei propri sentimenti ed al rifiuto; una ferita che non riesce a tollerare, una vergogna che conduce alla morte ed alla vendetta . Ma non c’è vergogna o colpa per aver lanciato un’accusa ingiusta ed infamante .
Entriamo così nell’ambito di quella distinzione che alcuni AA fanno, tra cui Giuseppe Vetrone (che insieme alla prof.ssa Felici ha curato nel ’90 ad Arezzo un convegno sulla vergona,) tra la "vergogna del fare", collegata all’aischyne, e la "vergogna dell’essere", collegata all’aidòs.
D'altronde anche i due paradigmi antropologici, utilizzati in sociologia, che identificano le società a seconda che siano basate sull’aidos (la vergogna) o sull’aischyne (la colpa) (Benedikt R.) sono compresenti, anche se in modi e quantità differenti, nella maggior parte delle culture attuali.
Possiamo trovare esempi del primo tipo in una certa mentalità del sud dove, sotto la pressione del conformismo sociale, è insopportabile esporsi alla pubblica riprovazione. Ma una paradigmatica espressione la possiamo ritrovare, con sfumature diverse, anche in Oriente, in Giappone, dove è previsto un suicidio rituale per la perdita della propria immagine .
Mentre un facile esempio della cultura della colpa è quello della cultura giudaico-cristiana in cui l’individuo è chiamato a rispondere innanzi tutto alla propria coscienza, o meglio alla legge di Dio, prima ancora che alla società o alla pubblica opinione.
In un schematismo riduttivo potremmo legare la vergogna ad un eccessivo conformismo sociale, mentre la colpa sembra rimandare ad una maggiore profondità dell’autonomia individuale e dell’ethos .
Se utilizziamo il linguaggio psicoanalitico potremmo dire che la vergogna è più legata all’Ideale dell’Io, erede del narcisismo primario, mentre la colpa si costituisce rispetto al SuperIo considerato l’erede del complesso edipico .
In verità i confini tra le due modalità di esperire la vergogna sono nella realtà clinica spesso molto sfumati, ed è più facile osservare l’una o l’altra a seconda dell’angolatura della nostra ottica o, mettendoci nei panni del nostro paziente, in rapporto al prevalere in lui, in un determinato momento, di una componente o di un’altra della sua personalità .
Vi propongo due casi clinici in cui potremo verificare meglio questa prospettiva .
- Caso n. 1
- Adriana è una ragazza di 30 anni, impiegata in una grossa azienda.
Primogenita, e vissuta sempre in famiglia oggetto di mille attenzioni perché considerata la più debole, gracile, con difficoltà scolastiche (che si riveleranno poi come un rifiuto di apprendere, di crescere), sempre sofferente fisicamente ma senza alcuna patologia specifica oggettivamente rilevabile.
Tali attenzioni familiari si rivelarono poi come compensatorie di un’aggressività e di un sostanziale rifiuto da parte dei genitori, in particolare della madre .
Il prevalente tono dell’umore della paziente è depresso, ed il tema della morte appare significativamente presente nelle sue fantasie infantili, con una carica variabile di ansietà, ma sempre con il significato di voler scomparire .
I rapporti di Adriana sono sottesi, a volte esclusivamente motivati, dal desiderio di essere apprezzata, accettata, anche se, una volta raggiunto l'obiettivo sembra impegnarsi nel distruggere ciò che ha costruito, a conferma della propria incapacità, negatività.
Rifugge da qualsiasi assunzione di responsabilità, sia in famiglia che nel lavoro dove si è ricavata una nicchia protetta grazie all'atteggiamento paternalista, permissivo del datore di lavoro.
La bassissima autostima le impedisce di aspirare a qualcosa di diverso.
Ha timore di sposarsi e, nonostante abbia avuto rapporti, più sessuali che affettivi, con diversi ragazzi, non è mai riuscita a dare continuità ad una relazione. Sembra anzi che la sessualità sia la sola modalità conosciuta di rapporto con l'altro sesso, in cui l'unico obbiettivo è la soddisfazione dei desideri del partner e da cui non trae alcun piacere.
Per due volte ha interrotto volontariamente la gravidanza.
Negli ultimi anni ha subito alcuni interventi chirurgici che lei stessa ha richiesto forzando la ritrosia dei medici cui si era rivolta. Con il primo si è tolta una minuscola macchia sulla pelle, il secondo è stato di chirurgia plastica per eliminare la cicatrice residua (di dimensioni inferiori ad un millimetro), con il terzo ha tentato di riequilibrare un'inesistente asimmetria degli arti inferiori, ma ottenendo un risultato esattamente opposto.
Al momento della richiesta di aiuto psicoterapico porta segni vistosi di quest'ultimo intervento.
Lamenta diversi disturbi cenestopatici che polarizzano la sua attenzione.
Sul piano psicologico appare chiaramente una profonda disistima di sé, un pervasivo vissuto di vergogna, un pudore patologico a tratti negato con atteggiamenti esibizionistici
Una sua fantasia-desiderio ricorrente è di "scivolar via" .
Si rende conto di vivere in una sorta di torpore mentale, chiusa in un circolo vizioso di esperienze relazionali sterili, cristallizzate, sia nel mondo del lavoro che in quello affettivo.
Riconosce spontaneamente l'essenza dismorfofobica delle sue preoccupazioni estetiche, nonché la componente autodistruttiva degli interventi chirurgici. Quest'ultima consapevolezza è ciò che maggiormente la spinge ad una richiesta di aiuto psicologico.
Riconduce, con una lucidità così particolare che ha dell'esibizionismo, l'origine del senso di vergogna proiettata sulle sue parti del corpo ad esperienze che definisce traumatiche. Fin dalla prima infanzia il padre aveva l'abitudine, con una mano nella tasca dei calzoni, di manipolarsi i genitali seduto in poltrona a guardare la televisione, nonostante la possibilità di essere facilmente visto dalla figlia. Con il passare degli anni, raggiunta una maggiore consapevolezza della sessualità, Adriana ebbe occasione di assistere a delle vere e proprie masturbazioni. Anche il prendersi cura di lei, quando stava male, con iniezioni o clisteri, pratiche che il padre prediligeva, era intriso di sensualità. L'elemento più conflittuale è riposto nel ricordo di un approccio sessuale diretto che il padre agì quando lei aveva quattordici anni e che pur non arrivando ad una violenza fu vissuto in modo drammatico.
Già in precedenza la curiosità l'aveva portata a frugare fra le cose del padre fino a trovare del materiale pornografico macchiato, presumibilmente, di sperma.
Lo "sporco" fu trasferito simbolicamente sul proprio corpo, in quella iperpigmentazione (che nel linguaggio comune viene chiamata "voglia" e che Adriana collega coscientemente al desiderio).
Tali macchie divennero l'espressione visibile della sua colpa. Tentò pertanto di occultarle come poté perché oggetto di profonda vergogna fino a che, paralizzata dal senso di inadeguatezza che impediva ogni rapporto sociale, perennemente nascosta dietro un pesante trucco divenuto ormai maschera inseparabile dal volto, decise di ricorrere all'intervento chirurgico.
La cosa non era certamente disgiunta dal senso di colpa per l'eccitamento che ella aveva provato, ma che si era negato trasformandolo in dolori addominali, vampe di calore, tensione muscolare. Questa rappresenterà la base su cui si appoggeranno le successive somatizzazioni e cenestopatie.
Anche 1'anorgasmia, di cui soffre da sempre, è coscientemente collegata a queste esperienze.
- Caso n ° 2
Maria è una ragazza di 31 anni, secondogenita con un fratello maggiore ed una sorella minore. Per motivi economico-sociali è vissuta dai 4 agli 11 anni in un'altra città presso dei parenti, il cui affetto non bastò a farle superare un senso di pudore eccessivo, di inibizione non solamente sociale, di inadeguatezza che caratterizzò la sua infanzia .
Ogni ritorno a casa durante le festività o le vacanze era vissuto in modo traumatico per il clima conflittuale familiare e la percezione di non affetto, di estraneità che il comportamento dei genitori induceva.
Il rapporto con la madre era profondamente alterato (un quadro psicotico si slatentizzerà al momento della definitiva fuoriuscita della figlia dalla famiglia). La madre, che usava definirla "il mio polo negativo", aveva un comportamento irrazionale, aggressivo, vessatorio; l'accusava di essere, con la sua cattiveria, la causa di ogni problema familiare; la considerava un essere spregevole e immorale.
Il padre, personaggio definito rozzo, violento, dedito all'alcol, aveva avuto con la paziente, fin dalla prima infanzia, contatti fisici carichi di sensualità fino ad arrivare, all'età di 12 anni a pratiche masturbatorie.
"Il momento preferito era la mattina, quando mi svegliava. Non volevo, avevo paura, ma ero anche incuriosita, mi piaceva. Mi sentivo responsabile, ma al tempo, stesso era una violenza cui non potevo sottrarmi perché mio padre si sarebbe inquietato. Una volta accadde anche sul letto dei miei genitori. Mamma era presente e non reagì. Ne rimasi sconvolta. Quando successivamente gliene parlai negò decisamente l'accaduto".
Ormai adolescente, ma ancora incapace di sottrarsi a queste ripetute "intrusioni", vincendo la vergogna ed il muro del silenzio che si era creato, ne parlò nuovamente con la madre ottenendo però solo una rinnovata negazione dei fatti ed un'accusa di immoralità: tutto sarebbe stato frutto della sua morbosa immaginazione.
Ricorse quindi all'assistente sociale che si occupava già della famiglia. La cosa finì in tribunale e, benché senza conseguenze legali, ottenne di non essere più molestata dal padre.
Il senso di vergogna che provò nel denunciare i fatti fu ulteriormente alimentato dai genitori ed dall’esposizione al contesto sociale di appartenenza. Ciò le attirò ulteriormente addosso l'aggressività materna.
Accettò di buon grado di essere mandata a studiare in un collegio di suore in un'altra città, sia per allontanarsi dalla famiglia, sia per sfuggire alla vergogna. Qui, oscillando tra la vocazione religiosa e una chiusura che rasentava l’autismo, visse con drammaticità alcune attenzioni omosessuali di cui fu oggetto da parte di una compagna.
Diplomatasi, riuscì a trovare lavoro, che svolse con precisione ossessiva, in una città diversa da quella natale rompendo ogni relazione con i genitori che insistevano per riaverla in famiglia.
La richiesta di aiuto psicoterapico è centrata sulla propria ansia, spesso somatizzata, ma la sintomatologia è ben più vasta. Fisicamente è contratta, irrigidita, "come una bambina che non vuole essere presa in braccio" dirà lei stessa successivamente.
Presenta alcune ritualità ossessive e manifesta un ideale di sé perfezionistico che si esprime soprattutto nell'ambito lavorativo.
Non è riuscita mai ad instaurare un rapporto affettivo stabile con un ragazzo, ma vive in una dipendenza fortissima da persone che ritiene possano darle una briciola di affetto, ma che in realtà la tiranneggiano ed alle quali deve poi sottrarsi con sofferenze indicibili.
La sua vita è caratterizzata da un perenne senso di vergogna e di inadeguatezza. L'opinione ed il giudizio delle persone che la circondano è tenuto nella massima considerazione.
Ha una così bassa stima di sé da dubitare non solo del proprio valore umano, ma addirittura del proprio senso di realtà. Ciò si esprime non solo nella rievocazione del passato, ma anche nella considerazione del presente.
Anche nella richiesta di aiuto si vergogna perché teme di non essere creduta nella sua sofferenza.
Nel corso della terapia ritornò ripetutamente sulle esperienze con il padre e, nonostante avesse la certezza di avere subìto la violenza del genitore, chiedeva rassicurazioni sulla sua non colpevolezza e sul suo valore.
Teme di essere lei stessa a trasformare magicamente in modo negativo la realtà.
Nel corso del tempo emergerà la sua sottostante struttura schizoide con venature paranoidee . La vergogna può essere interpretata nei casi su riportati come costituita da elementi concentrici : all’esterno troviamo la vergogna dell’appartenenza ad una determinata famiglia, una più interna originata dalla colpa, intesa come desiderio, fantasia o piacere sessuale, ma è evidente che c’è un’ulteriorità di significato che si pone come nucleo centrale della vergogna e che riguarda l’essenza stessa dello psichismo, dell’identità delle due persone descritte .
In entrambi i casi la vergogna appare nella sua essenza relazionale . Non può esserci vergogna dove non c’è presenza dell’Altro; almeno inizialmente lo sguardo dell’Altro è indispensabile anche se poi viene poi interiorizzato e fa sentire il soggetto sempre esposto, anche nella sua più completa solitudine .
Anche quando è collegata alla colpa, la vergogna si manifesta per la trasparenza della maschera sociale, per dirla in termini junghiani la vergogna non nasce solo dalla percezione dell’Ombra, ma anche dalla trasparenza della Persona.
Il primo caso, quello di Adriana, ci porta immediatamente a riflettere sul collegamento tra vergogna e dismorfofobie . Come ben sappiamo questo aspetto psicopatologico non appartiene solo all’ambito dei disturbi d’ansia, ma si estende ad altri quadri, di cui rappresenta un elemento essenziale, come l’anoressia mentale -come ha sottolineato Vetrone – o l’esordio schizofrenico.
E’ chiaro che in queste due ultime patologie l’impossibilità di trovare un significato alla propria presenza e la proiezione di questa impossibilità in un corpo sentito come difettoso sono strettamente unite, ed il desiderio di poter finalmente fare a meno dell’altro nella ricerca di questo significato spinge il soggetto ad un ideale di perfezione ossessivamente perseguito, come le caso di Maria, od al ritiro autistico .
E’ infatti da notare che mentre il riconoscimento della colpa può essere la premessa per la riaffermazione dei propri valori e del proprio valore, l’esperienza della vergogna non apre a nessuna riabilitazione, ad essa si può solo cercare di sfuggire con l’isolamento relazionale o con il suicidio .
La vergogna è infatti indissolubilmente legata al nostro Esserci nel mondo, alla nostra presenza di fronte all’Altro, ma anche di fronte a noi stessi .
Il filosofo Emanuel Levinas (1983) così si esprime: "Se la vergogna c’è è perché non si può nascondere quello che si vorrebbe nascondere: la necessità di fuggire da se stessi; ciò che appare nella vergogna è precisamente il fatto di essere incatenati a sé, l’inammissibile presenza dell’io a se stesso" .
La vergogna richiama alla centralità del soggetto in sé, non alla sua azione (H. Lewis). Il soggetto sperimenta un esistere che non ha significato agli occhi dell’altro o ha solo significati negativi .
La vergogna è un’esperienza dell’essere, non del fare.
Per alcuni soggetti fragili, come possono esserlo state Adriana e Maria, la vergogna a volte non ha neanche un nome, perché è direttamente connessa alle origini della propria identità: è un’esperienza dolorosa primaria che induce un sentimento di perdita di valore ineludibile e permanente.
Arriviamo così alla psicologia del Sé ed alla rilettura della patologia narcisistica a partire dal concetto di suscettibilità alla vergogna .
Se nell’esperienza infantile l’Altro, intrusivo e aggressivo, non può essere attaccato, le uniche difese possibili sono il disinvestimento, il ritiro autistico, la scissione, o -come nei casi riportati- una fragilità di base che costringe il soggetto, esposto alle intemperie delle fasi evolutive successive, all’utilizzo di rigidi meccanismi difensivi di tipo ossessivo o dismorfofobico e comunque ad uno stile di vita sofferente improntato alla svalorizzazione ed alla vergogna .
La vergogna è nella struttura schizoide un carapace difensivo che ha lo stesso ruolo della colpa nella struttura ossessiva (Rycroft 1968, 1970).
Ripensando ai casi clinici riportati rivediamo insieme come questa fragilità si possa esprimere .
In Adriana, che esperisce una vergogna dell’essere, il fine della sessualità non è il piacere, ma il desiderio di sperimentare una temporanea sensazione di consistenza, di esistenza compattata dalle sensazioni corporee e dal desiderio dell’altro.
Ma anche Maria, in modo diverso, ha una percezione di vuoto, di futilità, e si offre alla relazione con l’implicita richiesta di una garanzia preliminare di accettazione piena, quasi simbiotica. Nella terapia, come nella vita, viene particolarmente temuta l’irraggiungibilità dell’Altro, la sua freddezza indifferente .
E’ facile ipotizzare che tutto questo sia legato ad una esperienza primaria sicuramente problematica, ma la sua storia, ed in misura minore anche quella di Adriana, ci apre ad un’altra possibile origine del sentimento di vergogna che potremmo definire traumatica : quella dell’essere stata oggetto di una violenza .
In entrambi i casi esaminati possiamo parlare di violenza, anche quando questa non è consumata sul piano strettamente fisico: in entrambi i casi sono stati superati quei confini dell’io che salvaguardano lo spazio interno, biologico e psichico; è stato violato quello spazio mentale che ognuno utilizza per schermare e distanziare il mondo esterno e modulare le sue interazioni con esso, con la conseguente possibile distorsione del processo maturativo ed una fragilità del Sé (Miller).
E’ suggestivo che il sentimento di vergogna venga sperimentato da persone che hanno subito traumi estremamente diversi .
Accade qualcosa di analogo alle vittime di stupri, a chi è stato sottoposto a torture, ai sopravvissuti a catastrofi, o -in un passato da non dimenticare- ai deportati nei campi di sterminio nazisti .
E’ come se l’aver subito queste violenze comportasse disonore e biasimo .
E’, la loro, una sorta di vergogna ontologica, legata all’esistenza stessa del soggetto, o per meglio dire alla sua sopravvivenza .
Primo Levi, nel suo ultimo libro (I sommersi e i salvati), nel capitolo intitolato appunto "La vergogna", scrive : "L’amico religioso mi aveva detto che ero sopravvissuto affinché portassi testimonianza . L’ho fatto meglio che ho potuto, e non avrei potuto non farlo … ma il pensiero che questo mio testimoniare abbia potuto fruttarmi da solo il privilegio di sopravvivere, e di vivere per molti anni senza grossi problemi, mi inquieta, perché non vedo proporzione tra il privilegio e il risultato", e più avanti " I sommersi … non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di quella corporale …" .
Possiamo ora apprezzare la puntualità delle parole di Trevi : facciamo esperienza dell’Ombra quando entriamo in contatto non solo con il male che è in noi, ma anche con quello che subiamo ; in entrambi i casi ne veniamo contaminati e sperimentiamo la vergogna quando la Persona (maschera) ne consente l’evidenza .
E’ questa una vergogna che solo parzialmente può essere spiegata collegandola a tematiche di impotenza, a vissuti di "furia umiliata" (Lewis) o di "rabbia narcisistica" (Kohut).
Dobbiamo ipotizzare un processo di reificazione e di contaminazione che sovverte il nostro modo di essere e di essere agli occhi degli altri .
Voglio concludere ritornando sull’immagine che ha fatto idealmente da sfondo alla nostra relazione .
Si tratta di un quadro di Magritte intitolato "Le viol", cioè la violenza, lo stupro .
Con Gabriella Ripa di Meana, che lo cita in un suo libro sui DCA, possiamo cogliere come questa donna abbia scolpiti sul volto i pezzi del suo corpo femminile libidico.
La perversione ha cancellato i tratti originari e ha piazzato al loro posto la "cosa" sessuale .
La violenza subita la obbliga ad apparire all’Altro in quell’eccesso di identità sconvolta che provoca vergogna
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