Le urgenze neurologiche (F.Cioli, A. Leonardi, E.Narciso, M.Pizzorno)
La terza giornata congressuale si apre con un argomento di estremo interesse e che quotidianamente il neurologo affronta in PS.
Ha aperto la discussione il Prof V.Toso (Universita' di Vicenza) trattando degli attuali modelli organizzativi in tema di ictus cerebrale.
In Italia la gran maggioranza degli stroke e' ricoverata in ospedale per una diagnosi di natura e per l'assistenza medica nella fase acuta. Circa un terzo dei casi e' trasportato con i mezzi del 118 e solo una minoranza arriva entro le sei ore dallo stroke. Il ricovero precoce e la dotazione diagnostica dell'ospedale sono gli elementi fondamentali da garantire in ogni caso. La dotazione di minima per la diagnosi corretta di stroke pretende la presenza di un medico esperto di malattie cardiovascolari, l'esecuzione di un esame elettrocardiografico, di una tomografia computerizzata encefalica (TCE), e di esami biochimici 24 ore su 24.
L'assistenza in stroke unit combinata, che associa alla diagnosi e alla terapia in fase acuta interventi precoci di riabilitazione, ha dimostrato la sua superiorita' in confronto ai letti comuni di medicina e geriatria e all'azione di un team itinerante. I caratteri che ne determinano la superiorita' sono: la presenza costante di personale sanitario dedicato e motivato, la sorveglianza precoce e mirata delle complicanze e delle comorbilita', l'approccio pluridisciplinare, la mobilizzazione precoce e la garanzia di interventi riabilitativi organizzati su misura del caso. Il modulo suggerito da SPREAD e' di 4-16 letti, basato sulla necessita' di otto letti per 200 000 abitanti, dotato di adeguati strumenti di monitoraggio della pressione arteriosa, dell'attivita' elettrocardiografia, della saturazione di ossigeno e della temperatura corporea.
Sulla base dei risultati di ricerche cliniche, epidemiologiche e di organizzazione assistenziale possiamo concludere che il ricovero in stroke unit, di tipo combinato e la terapia trombolitica dello stroke ischemico le sono uniche misure che modificano significativamente la mortalita' e gli esiti dello stroke.
In seguito il Prof. T. Tinuper (Universita' di Bologna) ha introdotto il tema "stato di male" utilizzando questa suggestiva citazione "Ci sono delle volte che appena una crisi finisce un'altra inizia, una di seguito all'altra in successione, cosicch� si possono contare 40, 60 crisi senza interruzione. I pazienti lo chiamano "etat de mal". Il pericolo e' imminente, molti pazienti muoiono." (Calmeil, "De l'epilepsie", Paris, 1824).
Ne e' seguita una dettagliata ed efficace classificane delle possibili eziologie, dei quadri clinici soffermandosi sui possibili "scenari" di presentazione in PS. E' stata sottolineata l'importanza del monitoraggio EEG e clinico per un corretta impostazione terapeutica e prognostica.
Il Prof. N.Stecchetti (Universita' di Milano) ha trattato l'argomento "trauma cranico grave" in PS sottolineando pero' che anche il trauma cranico meno grave deve essere considerato con attenzione in quanto puo' peggiorare rapidamente. I pazienti non comatosi, ma con alterazioni dello stato di coscienza o fattori di rischio (coagulazione in atto, insufficienza renale, etc.), rischiano danni gravi permanenti o la morte in conseguenza dell'espansione di una massa intracranica che all'inizio puo' essere poco eloquente. Il trauma cranico e' spesso associato a lesioni extracerebrali. Se si usa come definizione di lesione extracerebrale una lesione che di per se' avrebbe giustificato il ricovero (criterio utilizzato in numerose raccolte dati epidemiologiche), oltre la meta' dei pazienti con trauma cranico presenta tali lesioni.
Nelle prime fasi successive al trauma si devono perseguire due obiettivi: la stabilizzazione sistemica (ripristino di ossigenazione e perfusione) e l'identificazione (ed il trattamento) precoce di masse in espansione all'interno della scatola cranica. Il ruolo di ciascun membro del gruppo di curanti e' di contribuire a questi due obiettivi, coordinando la propria azione e rispettando le priorita'.
L'ultimo intervento doveva essere tenuto dal compianto Prof Mancia, la cui figura e' stata ricordata nella generale commozione. La Dott.ssa Bortone ha quindi letto la relazione preparata per questa occasione dal professore sull'argomento della perdita temporanea di coscienza nella pratica clinica ed in particolare di primo soccorso.
I dati presentati sottolineano, da un punto di vista epidemiologico, che una delle situazioni che piu' frequentemente conduce un paziente al Pronto Soccorso e' appunto la perdita di coscienza. Infatti in uno studio recente sulle cause di ammissione per tale situazione, si rilevava che nel 53% dei casi si trattava di crisi epilettica, nel 33% di sincope e nel 14% la causa non era determinabile. E' stato sottolineato che il problema principale che il medico deve porsi di fronte a un episodio di perdita di coscienza e' quello della diagnosi differenziale, che comporta un iter diagnostico e strategie terapeutiche molto diverse. La diagnosi differenziale preliminare si basa sui dati anamnestico-obiettivi, che non richiedono altro se non tempo ed attenzione.
Nella maggior parte dei casi la vera diagnosi differenziale si pone fra crisi epilettica e sincope, non fosse altro che per ragioni di incidenza nella popolazione. Alcuni parametri distintivi sono da tempo entrati nel bagaglio del medico (es la perdita di urina e morsus del bordo laterale della lingua suggestive per crisi epilettica; sudorazione intensa e il pallore suggestivi per sincope) anche se, ad una revisione attenta del problema, le eccessive schematizzazioni possono indurre come sempre in errori interpretativi. A sottolineare le difficolta' che si possono incontrare nella diagnosi differenziale, e' stato coniato dagli anglosassoni l'assioma "All is not epilepsy that shakes" e "All is not syncope that faints" . Per esempio, una sincope prolungata puo' sfociare in una crisi epilettica e, d'altra parte, rare crisi epilettiche associate a marcata bradicardia, a loro volta determinano una sincope su base emodinamica. Nei casi dubbi l'EEG intercritico o post-critico potra' fornire ulteriori elementi differenziali: la presenza di grafoelementi parossistici suggerisce infatti la diagnosi di crisi comiziale, anche se l'assenza di anomalie non esclude la diagnosi. Nella fortunata condizione in cui viene registrato l'evento comiziale, ovviamente il tracciato risulta diagnostico. Anche durante una sincope, l'EEG mostra un pattern caratteristico costituito da iniziale, lieve rallentamento generalizzato dell'attivita' di fondo, seguito da onde delta di ampio voltaggio a prevalenza frontale e, se persiste l'ipoperfusione cerebrale, da appiattimento del tracciato.
La sincope (dal greco "pausa", brusca interruzione) puo' essere definita come una perdita transitoria della coscienza, associata a perdita del tono muscolare, causata da una temporanea riduzione o interruzione del flusso ematico cerebrale. Il paziente puo' presentare talora sintomi prodromici quali una sensazione di scarso equilibrio e di testa vuota, seguita da calo del visus, ottundimento mentale, sordita', nausea, progressiva riduzione del tono muscolare. Queste sensazioni sono indicative di un processo ischemico cerebrale. La sincope e' senza dubbio la causa piu' frequente di perdita di coscienza. Si calcola che dal 20% al 50% della popolazione ha manifestato un episodio sincopale, completo o parziale. La sincope determina il 3% delle visite urgenti in Pronto Soccorso e il 6% dei ricoveri ospedalieri . In un recente studio italiano (OESIL), e' stata registrata un'incidenza fino all' 1,7% di tutti gli accessi in Pronto Soccorso.
Le cause che determinano una sincope sono numerose: fino a 60 sono quelle elencate da Manolis et al. nel '90 ( Manolis AS, Linzer M, Salem D, Estes III NAM 1990 Syncope: current diagnosis and management. Ann Intern Med 112:850-863) Se consideriamo i dati disponibili in letteratura, circa 1/3 delle sincopi sono di origine cardiovascolare, 1/3 di origine neurologica, da 1/3 alla meta' rimangono di origine non determinata.
Sono stati considerati nel dettaglio solo i meccanismi e le cause di origine neurologica. Due sono i possibili disordini del controllo autonomico cardiovascolare: da una parte vi e' un deficit cronico del sistema simpatico (ipotensione posturale-ortostatica) sia per cause periferiche (polineuropatie) sia per cause centrali (MSA, sindromi parkinsoniane, etc.) e dall'altra un riflesso anomalo, "triggerato" da impulsi afferenti centrali (dolore, paura, etc), a partenza da strutture corticali, limbiche o ipotalamiche, oppure da impulsi periferici a partenza da recettori sensoriali situati nell'albero arterioso e/o nei visceri. E' questa la genesi di varie sincopi situazionali (seno carotideo, sincope minzionale, da distensione del tratto gastro-intestinale, da nevralgia trigeminale o glossofaringea, da tosse e da manovre di Valsalva in generale). Se in diverse sincopi neuro-mediate il trigger e' noto, in altre situazioni non e' possibile individuare il fattore scatenante: nell'ultima decade si e' fatta strada l'ipotesi che recettori sensitivi ventricolari o, piu' probabilmente, situati nell'albero arterioso, siano la sorgente di impulsi anomali, che funzionano da trigger. A rendere attivo il meccanismo, sarebbero necessarie contrazioni cardiache molto vigorose (quali si verificano in presenza di un deficit di riempimento), determinando una risposta di tipo vasodepressivo. L'ipotesi ha trovato numerosi sostenitori, tanto che e' stata coniata la definizione di "sincope neurocardiogena
Una condizione spesso sottovalutata ma di grande impatto epidemiologico nella nostra societa' dato il costante incremento del consumo di farmaci, specie negli anziani, e' quella delle sincopi iatrogene, cioe' indotte da farmaci. Sostanzialmente i farmaci agirebbero attraverso due meccanismi: ipotensione posturale (antipertensivi, antidepressivi,antiparkinsoniani, antipsicotici) o aritmie/disturbi di conduzione (antiaritmici, antipsicotici, antistaminici, antimalarici o antiprotozoici, etc.).
In corso di malattie cerebro-vascolari, la perdita di coscienza transitoria, contrariamente a quanto si possa ritenere, e' una evenienza del tutto eccezionale. Si calcola che solo il 5% di tutte le perdite di coscienza e' attribuibile ad evento ischemico esclusivamente a carico del circolo posteriore. Al contrario la sincope e' evenienza frequentissima, spesso inoltre come sintomo d'esordio che porta il paziente all'osservazione medica, nelle emorragie subaracnoidee o intraparenchimali.
L'Emicrania Mestruale (F. Cioli, M. Pizzorno).
Presso la sala Portofino si e' tenuto questo pomeriggio un interessante simposio sull'Emicrania mestruale (prof. G. Allais– Universita' di Torino) ponendo particolare attenzione alla varieta' di espressione clinica e ai piu' recenti dati acquisiti sulla terapia di questo singolare "disturbo neurologico".
La ciclica fluttuazione degli ormoni sessuali nella vita fertile femminile e' probabilmente il principale determinante del fatto che almeno il 60% delle donne emicraniche lamenti attacchi in qualche modo correlati con le mestruazioni. E' probabilmente soprattutto la brusca caduta dei tassi estrogenici, che avviene in fase premestruale, a scatenare gli attacchi di emicrania. La cosiddetta emicrania mestruale si presenta in particolare immediatamente prima, durante e/o subito dopo i giorni del flusso mestruale. Per meglio definire questo intervallo di tempo perimestruale troppo generico, si e' recentemente introdotto il concetto di una finestra mestruale (menstrual window) in cui debbono cadere gli attacchi per essere realmente definiti "mestruali"; questo intervallo si estende, secondo i criteri piu' restrittivi, dai giorni compresi fra -2 e +2 rispetto al primo giorno di mestruazione (inteso come giorno +1) oppure, utilizzando criteri piu' permissivi, dal giorno -3 al giorno +7.
Possiamo individuare, basandoci su una recentissima classificazione delle cefalee stilata dalla International Headache Society, tre quadri clinici:
– l'emicrania mestruale pura senz'aura (pure menstrual migraine without aura, PMM), caratterizzata da attacchi rispondenti ai criteri dell'emicrania senz'aura che si presentano sempre e solo nella finestra mestruale, estesa da -2 a +3;
– l'emicrania senz'aura correlata alle mestruazioni (menstrually related migraine without aura, MRM), in cui gli attacchi di emicrania senz'aura si presentano sempre con la cadenza catameniale nella finestra temporale sopraindicata, in almeno due cicli su tre, ma possono comparire anche in altri momenti, per effetto di diversi fattori trigger o anche in apparenza senza alcun motivo scatenante;
– l'emicrania non mestruale senz'aura (non menstrual migraine without aura, NMM), che identifica attacchi di emicrania senz'aura che non presentino alcuna evidente correlazione col ciclo mestruale, in una donna regolarmente mestruata.
Genericamente, una percentuale molto variabile di donne emicraniche (in media il 60%, ma a seconda dei criteri piu' o meno rigorosi di selezione dell'estensione della finestra mestruale si puo' andare dal 15 all'80%) lamenta attacchi in qualche modo correlati alle mestruazioni, mentre solo l'8-10% presenta una PMM.
Gli attacchi mestruali, qualunque sia il criterio utilizzato per definirli, si presentano sotto forma di emicrania senz'aura (l'aura e' riscontrabile solo in casi eccezionali); in genere ad ogni ciclo si associa un attacco molto severo, di lunga durata (anche superiore alle canoniche 72 ore della classificazione IHS), accompagnato da imponenti fenomeni vegetativi, particolarmente refrattario al trattamento farmacologico e con un'alta probabilita' di recidivare.
Le crisi di emicrania mestruale risultano pertanto essere, rispetto a quelle extramestruali, di maggiore durata ed intensita', con piu' probabilita' di recidiva e con minore risposta ai farmaci antiemicranici, il che comporta anche un maggior grado di disabilita' conseguente agli attacchi.
Per quanto riguarda l'approccio terapeutico all'emicrania mestruale, essa necessita ovviamente, data la relativamente bassa frequenza degli attacchi, innanzitutto della corretta prescrizione di un sintomatico specifico. L'uso di eventuali strategie di profilassi va riservato solo a casi particolarmente resistenti ed invalidanti. Come e' noto, nel trattamento sintomatico dell'emicrania mestruale vengono impiegate le stesse classi di farmaci utilizzate nell'emicrania tout-court, e dunque triptani, derivati ergotaminici, antinfiammatori non steroidei, analgesici vari ed antiemetici, da soli o in formulazioni di combinazione. La preferenza iniziale deve sempre essere accordata ai triptani, per la nota capacita' di controllare sia i sintomi dolorosi che quelli di accompagnamento, ed anche perche' per alcuni di essi, in particolare il sumatriptan, esistono studi specifici che dimostrano una notevole efficacia nella gestione dell'attacco di emicrania mestruale. Il sumatriptan, capostipite di questa classe molecolare, ha infatti storicamente accumulato evidenze di efficacia derivanti da un maggior numero di trials, rispetto agli altri triptani entrati successivamente in commercio; inoltre, piu' di tutti gli altri e' stato studiato specificamente nell'emicrania mestruale. Negli studi in cui veniva valutata la capacita' di ottenere un sollievo dal dolore (cioe' una riduzione dell'intensita' del dolore da grave a lieve o da moderato ad assente) a due ore dall'assunzione del farmaco antiemicranico, sia la formulazione sottocutanea sia la formulazione orale si sono dimostrate significativamente piu' efficaci del placebo. Il dato ottenuto da Nett et al., assai recentemente, e' ancora piu' confortante, in quanto dimostra la possibilita' del sumatriptan in formulazione orale (sia 100 mg che 50 mg) di ottenere la condizione di totale benessere dal dolore a due ore dall'assunzione in una percentuale elevata di pazienti sofferenti di emicrania mestruale (51% e 47% rispettivamente per le due dosi), quando la compressa venga assunta nella fase iniziale del dolore, cioe' quando si eviti che l'insorgenza di un eventuale fenomeno di allodinia comprometta il buon risultato analgesico del triptano.
Malattia di Parkinson e terapia neuroprotettiva ( M. Pizzorno).
In questo simposio sono stati esposti (G. Meco-Universita' di Roma) i piu' recenti dati sul ruolo "neuroprotettivo dei dopaminergici nell'ambito delle malattie neurodegenerative quali la Malattia di Parkinson.
Negli ultimi anni uno degli obiettivi primari nella terapia della malattia di Parkinson e' stato, infatti, quello di individuare farmaci che rallentino la sua progressione e/o ripristino la funzione neuronale, prevenendo la morte cellulare e riparando o rigenerando le cellule in via di degenerazione. Negli studi sperimentali sui modelli animali sono state individuate molte sostanze che, agendo su diversi aspetti implicati nella patogenesi della malattia di Parkinson, hanno dimostrato di avere un effetto positivo sulla degenerazione neuronale. Gli antiossidanti (vitamine E e C; chelanti del ferro; IMAOB, quali selegelina e rasagelina), agenti bioenergetici (coenzima Q10), agenti antiglutammatergici antagonisti dei recettori NMDA, bloccanti dei canali del Ca, agenti antinfiammatori (inibitori delle COX2), sostanze interferenti sul "misfolding proteico" (che aumentano l'attivita' proteasica; "heat shock proteins"), fattori trofici (GNDF, Nurturin) ed agenti antiapoptocici (dopaminoagonisti, inibitori delle caspasi, propalginamina) hanno tutti dato risultati incoraggianti negli studi animali.
Al contrario, gli studi clinici per confermare nell'uomo l'azione di alcune di queste sostanze si sono dimostrati molto difficoltosi a causa dei seguenti fattori:
1. eterogeneita' della malattia di Parkinson;
2. necessita' di studi prolungati nel tempo, considerato la lenta progressione della malattia;
3. necessita' di un campione numeroso di pazienti perannullare sia l'eterogeneita' della malattia sia gli innumerevoli fattori di rischio o di protezione che possono interferire sulla evoluzione della stessa (sesso; eta'; esposizione occupazionale a pesticidi, metalli e solventi; familiarita'; polimorfismi genetici del citocromo P450 2D6, del glutatione transferasi, dell'N-acetiltransferasi2, delle MAOB, ecc.; dieta, quali prodotti caseari, carne cruda, vitamina E; fumo di sigaretta; caffe');
4. uso di farmaci dei quali non sia stata esclusa l'azione sintomatica;
5. difficolta' di individuare "end points", indici certi di degenerazione neuronale.
Alla luce dei punti sopra esposti molti degli studi clinici fino ad ora condotti non hanno retto ad una revisione critica dei risultati. Per esempio la vitamina E non ha confermato le aspettative sperimentali; i risultati positivi attribuiti all'azione sulla progressione della malattia, che sono stati evidenziati negli studi clinici con farmaci IMAOB (selegelina e rasagelina), sono stati successivamente attribuiti alla loro azione sintomatica. Lo studio con il coenzima Q10, nel quale era stato descritto un effetto positivo ai dosaggi piu' elevati, e' stato condotto con un numero di pazienti (80 in tutto, divisi in quattro gruppi di 20) del tutto insufficiente per poter arrivare a delle conclusioni scientificamente corrette.
Per superare queste difficolta' sono stati proposti, quali indici indiretti di neurodegenerazione, "end points" clinici (insorgenza di discinesie) e neuroimmagini. A tale scopo sono state utilizzate immagini SPECT con l'uso di (123I)-betaCIT, radiofarmaco che si lega al trasportatore della dopamina (DAT), che da' informazioni sulla integrita' della terminazione neuronale presinaptica, ed immagini PET con l'uso di (18F) Dopa, che misura l'attivita' della dopadecarbossilasi e la capacita' di storaggio della dopamina.
I dopaminoagonisti negli studi clinici fin qui effettuati hanno dimostrato di avere una ridotta incidenza di complicanze motorie, per cui e' stata ipotizzata una loro potenziale azione neuroprotettiva; a tal proposito e' difficile poter accettare che le discinesie possano essere considerate come indice indiretto di neurodegenerazione, in quanto sono reversibili e risentono della differente potenza sintomatica del farmaco utilizzato.
In uno studio con pramipexolo (CALM-PD-CIT), nel quale sono state utilizzate le immagini della SPECT, e in uno studio con ropinirolo (REAL-PET), nel quale sono state utilizzate immagini PET, la percentuale di riduzione della captazione del radiofarmaco, ipotizzato indice della riduzione funzionale delle terminazioni pre-sinaptiche, e' stata minore nei pazienti in trattamento con dopaminoagonisti rispetto a quelli trattati con levodopa . Alcuni hanno voluto vedere in questi risultati la conferma dell'ipotizzato effetto neuroprotettivo dei dopamino-agonisti . Allo stato delle conoscenze non e' certo che quanto registrato sia da mettere in correlazione con l'effetto neuroprotettivo dei dopaminoagonisti, in quanto non e' ancora chiaro come il DAT e l'enzima decarbossilasi vengano modulati dal trattamento farmacologico e comunque la L-dopa e i dopaminoagonisti sembrano avere una differente azione sul DAT. Recentemente 5 pazienti parkinsoniani in stadio avanzato sono stati trattati con una infusione diretta intracerebrale di GDNF, che a distanza di un anno ha dimostrato avere una azione positiva sia dal punto di vista clinico che delle neuroimmagini [10]. Dati incoraggianti, ma e' ancora troppo presto per poter dire qualcosa di piu' certo. Si puo' pertanto concludere che, sebbene non esista al momento alcun farmaco con provata azione neuroprotettiva nell'uomo, in grado di modificare in modo incontrovertibile il decorso della malattia, i dopaminoagonisti negli studi clinici hanno dimostrato di raggiungere alcuni end-points sia clinici (ridotte discinesie) che neuroimmagini. Tali dati non sufficienti per confermare la loro azione neuroprotettiva, intesa come capacita' di rallentare i processi degenerativi primari, possono essere indicativi di un'azione di "neurorispetto", cioe' di una mancanza o ridotta interferenza negativa sui processi degenerativi primari.
Donna e malattie neurologiche (F. Cioli, E. Narciso, M. Pizzorno)
Questo pomeriggio si e' tenuto un interessante simposio dal titolo "Donna e malattie neurologiche"un argomento di comune interesse e sotto certi aspetti non ancora pienamente indagato.
Ha aperto questa sessione pomeridiana la Dott. ssa. A. Maggi (Universita' di Milano) che ha parlato del ruolo degli estrogeni nei vari organi, del loro meccanismo d'azione (recettoriale e non recettoriale) a livello delle cellule nervose (neuroni e microglia). In particolare ha sottolineato la funzioni antinfiammatoria svolta attraverso l'interazione degli estrogeni con i rec alfa a livello delle cellule microgliali e del ruolo neuroprotettivo attraverso l'interazione con i recettori alfa e beta a livello neuronale (azione anti-apoptotica). Ha anche esposto la possibilita' di creare per ogni malattia neurologica un modello animale sperimentale su cui studiare il possibile ruolo protettivo degli estrogeni.
In seguito lal Dott.ssa. T. Battaglioli (Universita' di Milano) ha posto l'attenzione sull'utilizzo dei contraccettivi orali e l' aumentato rischio di sviluppare trombosi venosa e arteriosa, tra cui la trombosi dei seni venosi cerebrali e l'ictus ischemico. L'incidenza annuale di queste patologie nelle donne in eta' fertile e' bassa ed il rischio assoluto rimane basso anche nelle donne che utilizzano contraccettivi orali. Allo scopo di ridurre le complicanze trombotiche, la composizione di questi preparati e' cambiata sia nel quantitativo di estrogeno sia nel tipo di progestinico. Ciononostante, il rischio persiste anche con i preparati piu' recenti. Il rischio di trombosi venosa cerebrale e' particolarmente elevato nelle donne portatrici di trombofilia mentre il rischio di ictus ischemico lo e' nelle donne con piu' di 35 anni, ipertese, in sovrappeso e fumatrici.
La Dott. ssa. A.Ticani (Universita' di Brescia) ha affrontato il tema delle immunoterapie e problemi della riproduzione. Le patologie autoimmuni sistemiche prediligono il sesso femminile e, spesso, si manifestano durante l'eta' fertile. Le malattie che restano attive durante la gravidanza, possono necessitare di terapia farmacologica, sia per il benessere della madre, sia a fini protettivi nei confronti della gravidanza e del feto. Diversi gruppi di farmaci (corticosteroidi, antiaggreganti piastrinici, antimalarici, anticoagulanti immunosoppressori) possono essere utilizzati secondo regimi terapeutici definiti, senza timore di danneggiare il feto. Per alcuni di essi e' consentita anche l'assunzione nel periodo dell'allattamento. E' evidente che la gravidanza in pazienti con problemi di autoimmunita' deve essere attentamente pianificata, possibilmente in un periodo di quiescenza della malattia, e seguita da un team multidisciplinare dedicato (immunologico-ostetrico-neonatologico), in grado di verificare e rispondere con la necessaria prontezza ai problemi che si presentassero nel corso della gestazione.
Infine la Dott.ssa D.Battino (Universita' di Milano) ha trattato il problema dell'epilessia in gravidanza. Questa condizione neurologica non comporta un aumento di complicanze ostetriche e del parto e la gravidanza non induce variazioni sostanziali dell'andamento clinico. Il problema principale e' rappresentato dall'aumento di incidenza di malformazioni congenite nei figli. A tutt'oggi i dati di letteratura non consentono di definire l'entita' di tale rischio, ne' il potenziale teratogeno dei farmaci antiepilettici somministrati da soli o in associazione: nessuno dei farmaci antiepilettici puo' quindi essere ritenuto piu' sicuro degli altri. L'introduzione di nuove molecole ha ulteriormente complicato le scelte terapeutiche poiche' non vi sono informazioni attendibili sui rischi legati al loro impiego in gravidanza. Attualmente non vi sono indicazioni per privilegiare l'impiego di un farmaco rispetto ad un altro. I registri osservazionali multicentrici potranno fornire in futuro importanti informazioni per lo sviluppo di linee guida nel trattamento della donna con epilessia in gravidanza. L'obiettivo rimane dunque quello di ottenere il miglior controllo possibile delle crisi con il minor carico farmacologico.
Come ribilanciare la vita dei pazienti depressi: percorsi innovativi per il trattamento della depressione. (W. Natta)
L'intervento di apertura, di M. Riva, dal titolo "Basi farmacologiche dell'evoluzione della terapia antidepressiva", ripercorre in modo particolarmente esplicativo la storia dei farmaci antidepressivi, tenendo come filo conduttore i meccanismi neurotramsttitoriali implicati nella genesi della depressione; meccanismi che questi stessi farmaci hanno contribuito nel tempo a chiarire. Partendo dal ruolo preminente dei sistemi serotoninergico e noradrenergico, nonch� della loro interazione, nell'eziologia della depressione, le diverse categorie di farmaci sono state presentate sulla base della loro efficacia nell'influenzare l'uno o l'altro di questi due sistemi. Per ovviare ai limiti degli antidepressivi triciclici, che pur agendo su entrambi i sistemi non sono sufficientemente specifici, sono stati sviluppati farmaci piu' specifici (gli SSRI), ma limitati nella loro efficacia dalla mancata azione sul sistema noradrenergico. La consapevolezza, maturata attraverso studi sulla combinazione di tricilcici e SSRI e studi di deplezione, che l'azione combinata su entrambi i sistemi potesse fornire i migliori risultati terapeutici, ha portato allo sviluppo di una nuova categoria di farmaci. Tali farmaci, il cui capostipite e' la duloxetina, sembrano in grado di agire in modo efficace e bilanciato sia sulla trasmissione serotoninergica che su quella noradrenergica, con effetti trascurabili sugli altri sistemi neurotrasmettioriali. Il beneficio di questo effetto sarebbe molto maggiore in ragione del fatto che l'azione non e' soltanto duplice, ma verosimilmente sinergica. Concludendo con uno sguardo al futuro della terapia antidepressiva, si e' accennato al ruolo sempre maggiore attualmente riconosciuto ai meccanismi intracellulari di trasmissione, ai fattori di trascrizione e trofici, responsabili dei fenomeni di rimodellamento neuronale. Tali fenomeni potrebbero essere il substrato neurobiologico dell'efficacia a lungo termine dei farmaci antidepressivi e una loro migliore conoscenza la strada per lo sviluppo di nuovi e piu' efficaci farmaci.
Segue l'intervento di R. Torta, che amplia il tema oggetto del simposio parlando dei nuovi trattamenti per la depressione. Il relatore pone l'accento sulla visione della depressione come malattia sistemica, intesa come disturbo che coinvolge in varia misura, oltre al sistema nervoso, anche quello endocrino, immunitario, e cos� via. In tale ottica, sembrano essere di sempre maggiore importanza i sintomi somatici, molto frequenti in corso di depressione. Si e' visto che la scomparsa dei sintomi fisici in pazienti in terapia antidepressiva e' un buon predittore di un'evoluzione positiva. Al contrario, la permanenza di tali sintomi caratterizza un'evoluzione peggiorativa, con quadri depressivi piu' gravi, intervalli liberi da malattia piu' brevi e maggiore rischio di cronicizzazione.
Spesso, inoltre, sintomi somatici sono presenti in quadri di comorbidita', tema che sara' ampiamente sviluppato nell'intervento successivo. Per queste ragioni, una terapia antidepressiva e' tanto piu' efficace quanto piu' influenza positivamente i sintomi somatici. In particolare e' stata studiata l'azione dei farmaci antidepressivi sul dolore, arrivando alla conclusione che tali farmaci agiscono sugli elementi somatici, affettivi e cognitivi del dolore, migliorando il coping del paziente. In tema di nuovi farmaci, la duloxetina si e' dimostrata particolarmente efficace nel migliorare i sintomi somatici. In conclusione si e' fatto un importante cenno agli effetti indesiderati della duloxetina, che sembrano essere piu' limitati rispetto ad altri farmaci, in particolare per quanto riguarda la funzione sessuale e l'ipertensione.
Nell'ultimo intervento A. Mitchell ha affrontato il tema della depressione nelle malattie neurologiche. Un quadro depressivo e' presente in un gran numero di patologie neurologiche, costituendo insieme un elemento di grande interesse clinico e un problema diagnostico e terapeutico non indifferente. Infatti i quadri clinici di molte malattie neurologiche comprendono sintomi che si sovrappongono in modo spesso indistinguibile a quelli della depressione (si pensi ad es. alla bradicinesia del parkinsonismo), motivo per cui la depressione rimane sottodiagnosticata in queste situazione di comorbidita. Ciononostante, risulta molto comune, soprattutto nel morbo di Parkinson, nella sclerosi multipla, e nello stroke, dove si stima presente nel 50% dei casi. Gli studi sulla terapia della depressione sovrapposta a patologie neurologiche sono molto pochi e non consentono di trarre conclusioni universali. Si e', pero', visto che la sopravvivenza a 9 anni di pazienti colpiti da stroke e trattati per la depressione successivamente insorta e' maggiore rispetto ai soggetti non trattati. Qualcosa di simile si puo' dire per il deterioramento cognitivo che appare piu' lento quando si trattano i pazienti depressi con sindrome di Alzheimer.
I farmaci che sembrano essere di maggior interesse in questo campo sono la duloxetina, soprattutto nei casi di patologie con significativa componente dolorosa e sintomi somatici, la mirtazapina e l'escitalopram.
La conclusione dell'intervento sottolinea come il tema della depressione nelle malattie neurologiche sia un campo ancora poco esplorato, ma di grande interesse per le possibili ricadute in termini sia di sopravvivenza che di miglioramento della qualita' di vita per i pazienti.
La sedazione nelle cure palliative neurologiche: appropriatezza clinica ed etica (F. Cioli, M. Pizzorno)
Molto interessante e' stato l'argomento "sedazione nelle cure palliative-aspetti etici" tenutosi questo pomeriggio presso la sala Rapallo.
La sedazione per il controllo di sintomi refrattari ai trattamenti convenzionali � una pratica comune nelle cure palliative e spesso coincide con la fase terminale della malattia in una percentuale variabile di pazienti a seconda del contesto clinico e della selezione dei pazienti. Soprattutto applicata alle fasi avanzate delle malattie neoplastiche per il controllo della dispnea e del delirium terminali, e pi� raramente del dolore, trova indicazione anche in altre patologie come quelle neurologiche degenerative o progressive a seconda delle diverse situazioni cliniche.
L' identificazione delle indicazioni corrette, la definizione esatta di sedazione palliativa e la sua esecuzione appropriata pongono quest' intervento entro i confini della medicina che si rivolge ad alleviare le sofferenze dei morenti e richiedono preparazione specifica ed esperienza.
Alcuni dati epidemiologici recenti1 testimoniano la grande attualita' del problema delle cosiddette "decisioni mediche alla fine della vita" (End of Life Decisions). Si intendono con questo termine "tutte le decisioni prese dai medici concernenti corsi di azione intesi ad affrettare la fine della vita del paziente o corsi di azione a proposito dei quali il medico tiene conto della possibilit� che affrettino la fine della vita. Le procedure considerate sono: l'omissione o la sospensione di trattamenti (compresa l'alimentazione artificiale) e la somministrazione, la fornitura e la prescrizione di farmaci, la decisione di non rianimare (ordine Do Not Resuscitate, DNR), l'eutanasia attiva e l'assistenza al suicidio.
Gli studi citati dimostrano che, nel contesto della medicina di oggi, queste decisioni sono divenute sempre pi� frequenti ed e' necessario prendere atto che, nelle situazioni terminali, quando la prognosi e' chiara e prevede la morte a breve termine, il momento della morte potra' essere influenzato da decisioni mediche, sia di tipo positivo (prescrivere analgesici, trattare un'infezione ecc.), sia di tipo negativo (interrompere determinati trattamenti o la stessa nutrizione-idratazione artificiale). Coinvolto profondamente nella cura del malato e disponendo dei mezzi potenti della medicina tecnologica, il medico e' inevitabilmente implicato nel processo del morire e non puo' non influire sui suoi tempi. Fra le decisioni mediche di fine vita si puo' far rientrare la cosiddetta sedazione terminale (ST), pratica che si e' sviluppata appunto in seno alla medicina palliativa, soprattutto nella cura di malati tumorali, per il trattamento dei sintomi refrattari.
Un classico argomento morale per giustificare l'impiego nelle situazioni terminali, di mezzi potenzialmente suscettibili di abbreviare la vita del malato e' la dottrina del doppio effetto. Si tratta di una argomentazione elaborata in seno alla teologia morale cattolica per giustificare, in alcune circostanze, atti suscettibili di determinare effetti moralmente cattivi quali la morte di un individuo. Nella sua applicazione alla clinica, essa afferma che e' moralmente lecito sottoporre un paziente ad un trattamento mirante ad un effetto benefico (qui: l'alleviamento del dolore o di altri sintomi intollerabili e intrattabili come la dispnea e il delirium) pur sapendo (ma non con l'intenzione) che quel trattamento potrebbe abbreviarne la vita, mentre non e' lecito ricorrere allo stesso (od un altro) trattamento se esso viene somministrato con l'intenzione di abbreviarne la vita. Il principio del doppio effetto e' stato proposto dai teologi e dai filosofi consapevoli che la disamina etica di un'azione puo' avvenire a diversi livelli e che possono sorgere discrepanze e conflitti fra questi livelli. I livelli considerati sono soprattutto due: quello delle conseguenze, che valuta la bonta' del risultato dell'azione e quello dell'intenzione, di cui viene valutata la bonta'. Una delle difficolta' pi� ovvie del principio del doppio effetto sta nel valutare l'intenzione (nel nostro caso, l'intenzione del medico) dato che, almeno intuitivamente, tutti siamo portati a considerarla come uno stato mentale privato, inaccessibile ad altri che l'agente e pertanto difficilmente valutabile "dall'esterno". I problemi inerenti questa tematica sono ovvi: il timore (non necessariamente fondato) di sanzioni legali favorisce l'insincerit�. In parte essi sono stati superati dal carattere rigorosamente anonimo dello studio, ma e' chiaro che questa situazione e' ben diversa dalla pratica clinica. Va detto pero' che, a ben guardare, l'intenzione e', almeno in molti casi, iscritta in certo modo in ogni azione volontaria e contribuisce a spiegare di che tipo di azione si tratta. La modalit� stessa di esecuzione dell'atto esprime spesso in modo abbastanza trasparente l'intenzione dell'agente, come ben sa il giudice quando deve distinguere tra diverse fattispecie di reato (per esempio, fra omicidio colposo, preterintenzionale o intenzionale). Ora, proprio nel caso della ST, si puo' osservare che il contesto clinico, il tipo e la dose dei farmaci scelti, la loro via di somministrazione e le misure terapeutiche concomitanti nonch� l'aderenza a protocolli stabiliti dalle Societa' scientifiche rendono abbastanza facile distinguere l'intenzione di attuare una ST a scopo palliativo da un'intenzione di por fine alla vita del malato (eutanasia attiva). Inoltre l'applicazione del principio del doppio effetto alla ST sembrerebbe almeno in parte superata dalle crescenti evidenze di una sostanziale ininfluenza di tale intervento "palliativo" sulla durata della vita nelle sue fasi terminali. Ne consegue che non e' indispensabile invocare quel principio per giustificare moralmente la ST. Incidentalmente sembra che valga la pena di mettere in rilievo che, nel caso della ST, la riflessione etica potrebbe giovarsi del "doppio effetto" in un'altra accezione. Infatti, per affrontare efficacemente dei sintomi insopportabili e altrimenti intrattabili (effetto principale), la sedazione e' costretta ad operare una riduzione o una soppressione della vigilanza, ovvero della coscienza del malato (effetto secondario). Ci� e' di per se' un male poich� la coscienza � universalmente ritenuta la condizione primaria dell'autonomia individuale, che � un bene fondamentale della persona. Ma quando tale riduzione o soppressione della coscienza si configura come un male inevitabile, non direttamente voluto ma solo tollerato, e soprattutto proporzionato al bene che la sedazione persegue nei casi di cui stiamo trattando, sembra potersi considerare eticamente accettabile. E' gia' stato rilevato come la sedazione offra diverse forme e possa essere attuata secondo diversi criteri di durata e di intensita'. Sembra evidente che – a parita' di altre condizioni di efficacia – si debba comunque cercare di sedare il meno intensamente e il meno a lungo possibile. La dimensione etica della sedazione finisce quindi per fare appello anche alla preparazione e alla perizia del personale sanitario, alla disponibilita', spesso molto onerosa, di farsi carico dei singoli casi non secondo procedure standard ma con modalita' il pi� possibile personalizzate. In base a quanto precede, si possono trarre alcune conclusioni:
– La ST e' da considerare un mezzo di trattamento appropriato sia sul piano clinico che etico e che non puo' essere considerata equivalente all'eutanasia; questo va detto indipendentemente dal giudizio morale che si puo' dare dell'eutanasia.
– Bisogna ammettere che la medicina ha e persegue diversi e legittimi obiettivi che per lo piu' sono compatibili fra loro, ma che talora possono entrare in conflitto. Pensiamo al contrasto fondamentale, che puo' nascere nella cura del malato terminale, tra l'obiettivo di sanare (o piu' precisamente quello di prolungare la vita) e quello di sedare dolorem. Quando i due obiettivi siano in conflitto, e' necessario dare priorita' ad uno dei due e questa priorita' non puo' non essere stabilita che sulla base di uno scopo della medicina ancor piu' fondamentale, quello di ricercare il beneficio del malato.
– In ambito neurologico accade spesso che pazienti con malattie inguaribili e in fase avanzata non ricevano un trattamento adeguato dei loro sintomi: ci� vale per la terapia del dolore e degli altri sintomi disturbanti, che spesso e' trascurata a favore dai trattamenti mirati sulla patogenesi, e probabilmente vale ancor piu' per la ST, pratica poco conosciuta, ma che puo' permettere di alleviare sintomi intrattabili quali la dispnea nel paziente con malattia del motoneurone, specie quando il paziente sottoposto a ventilazione meccanica chieda di essere disconnesso dal ventilatore, o il delirium nelle patologie centrali.
Crediamo che sia un preciso compito del neurologo occuparsi anche della fase terminale dei propri pazienti, cominciando dalla conduzione di studi su come muoiono i nostri malati, studi drammaticamente carenti nella letteratura scientifica. E' ovvio che l'acquisizione di una base conoscitiva � fondamentale per la corretta formulazione di piani di intervento in questo campo. Da questi studi fra l'altro dovrebbe emergere quale sia il ruolo appropriato della ST in neurologia, quali le sue indicazioni e le procedure piu' utili.
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