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LA TEORIA FREUDIANA RISOLVE “I PARADOSSI DELL’IRRAZIONALITA?”

10 Ott 12

Di Adolf-Grunbaum e Albertina-Seta

Presentato come invited paper alla sessione di Filosofia della Psicologia del XX Congresso Mondiale di Filosofia, Boston, 10 agosto, 1998. In corso di pubblicazione negli Atti del XX Congresso Mondiale di Filosofia, Boston, 1998. Prossimamente nella rivista Philosophy and Phenomenological Research. In corso di pubblicazione negli Atti della Conferenza Internazionale "Freud alle soglie del XXI secolo", tenuta a Gerusalemme, Israele, dicembre 1999.

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In questo lavoro, mi propongo di criticare l'asserzione di Donald Davidson, tra gli altri, che la teoria psicoanalitica di Freud offra "una cornice concettuale entro la quale descrivere e capire l'irrazionalità". Inoltre, difendo le mie obiezioni epistemologiche ai fondamenti terapeutici ed esplicativi dell'impresa psicoanalitica contro gli sforzi di Davidson, Marcia Cavell, Thomas Nagel, e altri, di contestarle.

 

1.Introduzione.

In accordo con un numero significativo di filosofi, Donald Davidson (1982, p.290) ha affermato che "la Teoria Psicoanalitica si è sviluppata a partire dalla pretesa di Freud di fornire una cornice concettuale entro la quale descrivere e comprendere l'irrazionalità".

Egli spiega che "il tipo di irrazionalità che crea un problema concettuale è…la perdita, all'interno di una singola persona, di coerenza, o consistenza nell'insieme di credenze, attitudini, emozioni, intenzioni, e azioni (che la caratterizzandt ). Esempi ne sono il pensiero di appagamento di desiderio, la contraddizione tra azione e giudizio nella stessa persona (cfr. l'akrasia di Aristotele), l'autoinganno, il credere qualcosa che l'evidenza può screditare. Il pensiero di appagamento del desiderio, a sua volta, è designato da Davidson come "modello del tipo più semplice di irrazionalità" (1982, p.298). Pertanto, se la sola spiegazione della credenza di una persona è che questa rappresenta per lei un appagamento di desiderio, "si ritiene che la credenza sia irrazionale" (ibid.). Più in generale, Davidson scrive:

Nei casi di irrazionalità che abbiamo discusso, vi è una causa mentale che non è una ragione (nel senso di evidenza cogente) di ciò che provoca. Così nell'appagamento di desiderio, un desiderio causa una credenza. Ma il giudizio che un certo stato di fatto sia, o potrebbe essere, desiderabile non rappresenta un fondamento oggettivo per credere che esista davvero (ibid.)

Quanto all'autoinganno, Sebastian Gardner (1993, p.6), elaborando le tesi di Davidson, dice: "…nell'autoinganno un subsistema contiene la credenza sepolta, un altro la credenza promossa; la linea di demarcazione tra le due riflette l'impossibilità che entrambe le credenze siano vere". Incidentalmente, l'anno scorso, Alfred Mele (1997, p.91) contestò questa descrizione dell'autoinganno come tipicamente contraddittoria: "Il ritenere che (…) colui che si autoinganna crede che qualche proposizione sia vera, mentre anche credendo che sia falsa (…) produce un'opinione fondamentalmente erronea della dinamica dell'autoinganno. L'autoinganno è spiegabile senza il ricorso ad esotismi mentali. Ed Erwin (1997a, p.56) ha giustamente messo in rilievo che, qualsiasi analisiconcettuale della nozione di autoinganno, che richiede l'esistenza di una specifica struttura della mente (per es, un sé scisso), necessita di un'evidenza empirica capace di validare la pretesa di tale esistenza.

Passando dalla mera descrizione di importanti tipi di irrazionalità alla loro potenziale spiegazione, Davidson (1982, pp. 291-292) scrive:

Nel tentativo di spiegare questi fenomeni (e con essi molti altri, naturalmente) i Freudiani hanno asserito quanto segue:

Primo, la mente contiene un certo numero di strutture semi-indipendenti, queste strutture sono caratterizzate da attributi come pensieri, desideri e memorie.

Secondo, alcune parti della mente, come avviene per le persone, rivestono una posizione di maggiore rilievo, non solo per il fatto di avere, o di consistere in, (particolari ndt) credenze, volontà e altri tratti psicologici, ma per come questi fattori possono combinarsi tra loro, a esempio nell'azione intenzionale, per causare ulteriori eventi nella mente o fuori di essa.

Terzo, alcune delle disposizioni, attitudini, ed eventi che caratterizzano le varie sottostrutture della mente devono essere viste secondo il modello delle forze e delle disposizioni fisiche, quando colpiscono o sono colpite da altre sottostrutture della mente (p.es. Freud descrisse la "forza censoria" esercitata dall'io durante la repressione).

Mi riferirò a queste tre formulazioni come alla "Tripletta di Davidson". Come egli dice (1982, p.300, n.6), il suo carattere distintivo più saliente è "l'idea di una compartimentazione della mente". Davidson (1982, p.303) offre con essa il rationale per la sua asserzione che ognuno di questi tre fattori "molto generici" della teoria psicoanalitica è necessario a ogni teoria che voglia spiegare l'irrazionalità.

Quanto al primo, che suddivide la mente in due o più strutture semi-autonome, apprendiamo che questa divisione è "necessaria per dare conto di quelle cause (causes nel testo ndt) mentali che non sono (anche) fondamenti oggettivi (reasons nel testo ndt) degli stati mentali che provocano" (1982, p.303).

Il secondo punto assegna a una o più suddivisioni della mente una struttura simile a quella descritta dal sillogismo pratico di Aristotele, che è il modello di spiegazione delle azioni ordinarie come razionali: un'azione è ritenuta da portare a compimento perchè l'agente vuole raggiungere un risultato R e crede che A riuscirà nella realizzazione di R. Davidson chiama questo modello "il principio dell'azione intenzionale". E il punto essenziale è che si presume che idee e affetti di una persona interagiscano in maniera da produrre conseguenze in accordo con il principio delle azioni intenzionali.

Queste conseguenze, a loro volta, si comportano come cause, ma non come fondamenti oggettivi, di ulteriori eventi mentali, cosicchè "Il venir meno dei rapporti di fondazione oggettiva (reason-relations ndt) definisce il confine di una suddivisione…Le parti sono definite in termini di funzione; e in ultima analisi, nei termini dei concetti di fondamento oggettivo e causa. L'idea di una divisione quasi autonoma è un'idea che richiede un fattore di divisione non trascurabile; pertanto, i concetti operativi sono quelli di causa (cause ndt) e di fondamento oggettivo (reason ndt) (1982, p.304)

Ma, se è così, perchè Davidson (1982, p.290) inizia a formulare il suo secondo punto dichiarando che "parti della mente, come avviene per le persone, rivestono una posizione di maggiore rilievo," formulazione, questa, che ha il sapore delle infelici reificazioni homuncolari di Freud nella teoria strutturale di Es, Io e Superio?

Il terzo punto corrisponde all'opinione di Davidson (1982, p.304) che "certi eventi mentali prendono il carattere di mere cause (cioè cause che non sono anche fondamenti oggettivi) relative ad alcuni altri eventi nella stessa mente. Abbiamo trovato che questo fattore è anche necessario a qualsiasi spiegazione dell' irrazionalità…per fargli spazio, dobbiamo permettere un certo grado di autonomia a parti della mente." Egli definisce questa mera causazione da parte di eventi mentali come "cieca"(1982, pp 292, 299), dal momento che essa funziona "sul modello delle disposizioni e delle forze fisiche" (1982, pp 290-291).

E' qui molto evidente che, mentre da una parte, Davidson insiste sulla "centralità" della sua tripletta rispetto all'edificio freudiano, dall'altra, scrive: " la mia descrizione molto generale della ripartizione della mente (nella tripletta) devia da quella di Freud. In particolare, io non ho niente da dire sul numero o la natura delle divisioni della mente, della loro permanenza o etiologia. Io mi preoccupo semplicemente di difendere l'idea di una compartimentazione della mente, e di dedurre che questa è necessaria per spiegare una forma comune di irrazionalità " (1982, p.300, n.6, corsivi dell'Autore). Ma questa disconferma, di per sé, già mostra che l'istanza di Davidson di costruire la sua tripletta come "centrale" a, o emblematica della, ripartizione mentale di Freud si regge in piedi malamente. Ne risulta che Davidson costruisce la centralità di un insieme di ipotesi I rispetto a una teoria T per poi concludere che I è un fattore distintivo diT.

 

II. Critica dell'arringa difensiva di Davidson in favore di Freud

Dandogli molto rilievo, Davidson (1982, P.290) definisce nel modo seguente il supposto stato logico della sua tripletta all'interno della teoria freudiana: si tratta di elementi del pensiero di Freud, "elementi che consistono in poche dottrine, molto generiche, centrali rispetto a tutti i passaggi degli scritti del Freud maturo" (corsivi aggiunti), quindi aggiunge: "In conclusione, ogni soddisfacente punto di vista (esplicativo) (dell'irrazionalità) deve abbracciare alcune delle più importanti tesi di Freud" (corsivi aggiunti dall'Autore). Al posto di una chiarificazione, egli formula un avvertimento: "Forse bisogna enfatizzare il fatto che la mia "difesa" di Freud è diretta solo ad alcune delle sue idee e che tali idee si trovano al polo concettuale, opposto a quello empirico, di un approssimativo spettro (delle sue concezionindt)."

Davidson non si accontenta di evidenziare che che la sua tripletta "si trova" nell'edificio teorico freudiano. Il senso della sua insistenza sulla sua supposta centralità al suo interno e sul suo essere indispensabile dal punto di vista esplicativo è di conferire alla teoria psicoanalitica un merito esplicativospecifico nella spiegazione dell'irrazionalità: "Spero che si concorderà sul fatto che tutte queste dottrine si trovano in Freud, e risultano centrali rispetto alle sue teorie" (1982, p.291). Davidson in tal modo asserisce la centralità, anche se, proprio nella frase successiva, ripete, correttamente, che le componenti della sua tripletta sono, dal punto di vista logico, "di gran lunga meno forti e dettagliate rispetto alle vedute di Freud"

La nozione che una particolare ipotesi, o specifiche ipotesi, sono "centrali" rispetto a un dato sistema teorico è al centro stesso del reiterato tributo esplicativo di Davidson alla teoria strutturale dell'apparato mentale di Freud. Apparentemente egli argomenta che esso (sistema teorico ndt) meriti tale encomio, poichè la compartimentazione della mente di Freud, altamente specifica, rispecchierebbe la tripletta, di gran lunga più debole dal punto di vista logico, tripletta che peraltro Davidson stesso aveva estrapolato dai più importanti principi informatori dei successivi modelli della mente, bipartito e tripartito, di Freud. Quindi, come abbiamo visto, Davidson, a sua volta, deduce che la sua tripletta sia indispensabile a qualsiasi teoria che si proponga di spiegare l'irrazionalità.

Ahimè, egli sembra prendere la nozione di centralità come data, senza offrire alcuna articolazione del suo modo di costruirla. E, cosa più grave, ci lascia completamente all'oscuro su cosa autorizzi l'inferenza cardinale della sua arringa difensiva della teoria freudiana. Questa inferenza cruciale prende le mosse dalla solida premessa che la suddivisione della mente, configurata dalle successive teorie strutturali di Freud, sarebbe "centrale" rispetto a esse nel senso di essere il loro principio informatore nel confronto faccia a faccia con teorie rivali. Data questa premessa, Davidson crede di poter validamente inferire che la sua tripletta, logicamente molto più debole, "molto generica", e "altamente astratta", potrebbe anche essere considerata "centrale" rispetto all'edificio teorico freudiano!

A questo punto, poichè è assente dal suo ragionamento una qualsiasi asserzione alternativa che possa autorizzare la sua inferenza chiave, la sua conclusione risulta logicamente mal fondata.

Se Davidson avesse avuto in mente un rationale cogente e sofisticato che potesse autorizzare la sua vitale inferenza, presumibilmente lo avrebbe espresso (e sicuramente avrebbe dovuto esprimerlo) esplicitamente. Presumere che egli avesse un argomento così valido, e semplicemente lo abbia lasciato indimostrato, sollecita la nostra carità oltre il suo punto di rottura. E supporre, al di là di questo, che Davidson scientemente si sia fatto il cattivo servizio del silenzio, mi sembra un assurdo. Pertanto, fatemi ricostruire il suo ragionamento in accordo con quanto scrive, ma tenete a mente che la responsabilità delle lacune esplicative e probative nell'argomentazione di Davidson appoggia interamente sulle sue spalle e non sulle mie.

Per amore dell'argomentazione, concediamo a Davidson (1982, pp. 303-304) che ogni spiegazione soddisfacente di certe importanti specie di irrazionalità debba conformarsi alla sua tripletta. A questo punto però io rivendico che la caratterizzazione di essa come "centrale" rispetto all'edificio freudiano riposa su una specifica inferenza del tutto fallace. Inoltre, la sua conclusione è confutata dal semplice fatto che la tripletta non è specificamente freudiana, dal momento che essa è sostenuta da una serie di differenti filosofie della mente nella storia del pensiero occidentale.

Pertanto il fatto che Davidson arroghi il merito della spiegazione dell'irrazionalità alla teoria freudiana, semplicemente perchè essa conferma la tripletta, verrebbe fuori come un non sequitur ovvero come una falsa conclusione.

Proporrò dunque due serie di errori che indeboliscono la posizione di Davidson:

(i) Come spiegherò, le tesi "centrali" di una teoria sono presumibilmente, in prima istanza, quelle dei suoi postulati fondamentali, che costituiscono i suoi principi informatori distintivi nel confronto faccia a faccia con teorie rivali, o differenti, pertinenti allo stesso dominio di explananda. Allora, mancando altre argomentazioni di supporto, sembra che Davidson abbia impostato un ragionamento fallace sul fatto che la centralità dei principi informatori distintivi di una teoria sarebbe data dalla deduzione logica. Sarebbe come dire che egli inferisce, senza indugi, che, nel caso della suddivisione strutturale dell'apparato mentale di Freud, la sua, per sua stessa ammissione, più o meno specifica tripletta deriverebbe deduttivamente la sua centralità dai principi informatori psicoanalitici. Come se non bastasse, Davidson ripete che i componenti della tripletta "sono… di gran lunga meno forti e dettagliati delle vedute di Freud"(1982, p.291). Inoltre, insiste sul fatto che la sua "teoria (dell'irrazionalità) (basata sulla tripletta) è accettabile" (1982, p.304) senza presumere alcuna componente inconscia della mente.

Io comunque sostengo che la tripletta stessa sia molto lontana dall'essere centrale alla teoria freudiana.

(ii) La credenza di Davidson nella derivabilità per deduzione della centralità o dello stato di principio informatore sembra falsa se confrontata con la veneranda storia delle filosofie della mente pre-freudiane, che differiscono nei contenuti da quella di Freud, e tuttavia rispecchiano la tripletta di Davidson non meno di quanto faccia la teoria psicoanalitica. I principali esempi storici in gioco sono le teorie dell'anima di Platone e Aristotele, così come la psicologia delle facoltà di Christian Wolff, allievo di Leibniz.

Per esempio, Platone propone una struttura tripartita dell'anima simile a Es, Io e Superio di Freud. E un residuo della psicologia delle facoltà del XVIII secolo è perfino riscontrabile nella spiegazione di Jerry Fodoris (1983) dell'organizazione cerebrale, che descrive molti "moduli" di cellule localizzate, ciascuno dei quali svolge una particolare funzione, come quella del riconoscimento del volto.

Davidson non può parare questa obiezione storica prendendo semplicemente le distanze dalle suddivisioni mentali ammesse, rispettivamente, dalle due dottrine storiche che egli stesso menziona. Egli le rigetta come segue: 'La suddivisione che io propongo non corrisponde in natura o funzione all'antica metafora di una battaglia tra Virtù e Tentazione o Ragione e Passione. Per quanto concerne la competizione di desideri o valori che l'akrasia comporta, essa di per sé, a mio avviso, non suggerisce l'irrazionalità" (1982,p.301).

Ma il modo che egli ha di modellare la carne con cui riveste il nudo scheletro della sua tripletta, nella sua spiegazione dell'irrazionalità, chiaramente va ben oltre la tripletta, la cui centralità rispetto alla teoria freudiana è qui in discussione. Dal momento che i dettagli della sua suddivisione non possono sfuggire all'obiezione storica che la tripletta è più volte proposta, da una serie di differenti filosofie della mente, piuttosto che essere un carattere distintivo delle concezioni strutturali freudiane.

Ora permettete che fornisca le giustificazioni di base alla mia asserzione che l'assunto perentorio di Davidson circa la possibilità di una derivabilità per deduzione della centralità è fallace.

Cosa vuole dire, in prima istanza, quando afferma che un'ipotesi I è centrale rispetto a una teoria T?, o che I conta come una delle ipotesi centrali di T, o ancora che I è una delle più importanti tesi di T? Questa domanda richiede una risposta precisa. La mia risposta servirà a respingere la pretesa di Davidson della centralità della sua tripletta rispetto alla teoria freudiana. E in tal modo indebolirò il suo particolare tributo esplicativo alla teoria di Freud come capace di rendere conto dell'irrazionalità.

Seguendo Tarski, userò il termine "la classe di conseguenza di una teoria T" per designare la serie di tutte le conseguenze deduttive di T. Ora, di sicuro, la sempliceappartenenza di un'asserzione A alla classe di conseguenza di T, non fa sì che A sia "centrale" rispetto a T. Non è così, se non altro perchè quella classe ha alcune componenti che presentano molti dei contenuti della base assiomatica di T in modo sfumato, così come è per la tripletta di Davidson. Ed è lo stesso Davidson (1982, p.300) a definire la tripletta come "molto astratta".

Per confermare la sua asserzione, che contiene la locuzione "centrale", o un suo equivalente, la centralità evidentemente ha bisogno di essere dimostrata, in prima istanza, come una proprietà di quelle ipotesi che sono caratteristici principi informatori di T e la identificano, distinguendola dalle sue rivali riconosciute o da teorie differenti. In questo senso, di "centrale", un'ipotesi I può essere peculiare di T essendo nel contempo incompatibile con le rivali di T, oppure perchè una o più di queste teorie rivali non enunciano I.

Secondo questa costruzione, il postulato di Euclide delle parallele, per esempio, risulterebbe "centrale" alla geometria euclidea, poichè è incompatibile con le geometrie non euclidee, sia iperbolica che sferica. D'altra parte, i primi quattro postulati di Euclide non distinguono la sua geometria dalla geometria non euclidea iperbolica, quantunque questi postulati nel loro insieme distinguano entrambe queste geometrie dalla geometria non euclidea sferica. Chiaramente, la nozione di centralità richiede uno statuto preciso, e non una formulazione così vaga come quella che si trova nello scritto di Davidson.

Come abbiamo visto, egli riconosce (1982, p.291) che la sua tripletta rispetto alle logiche conseguenze delle stesse formulazioni di Freud, è "di gran lunga meno forte e dettagliata delle vedute di Freud". Come può allora fare il ragionamento che, nonostante lo stato logico più debole, la tripletta è nondimeno "centrale" all'edificio psicoanalitico di Freud, presumibilmente nel senso di essere ancoradistintiva di essa nel confronto faccia a faccia con altre teorie?

Mancando da parte sua ogni asserzione che possa funzionare da rationale, non posso fare a meno di concludere che Davidson ha fatto assegnamento sul seguente principio di inferenza: se I è un'ipotesi distintiva o "centrale " di una teoria T, così è per ciascuna delle sue conseguenze deduttive, quantunque molto più deboli di I. Da notare, immediatamente, che questo principio non è autorizzato, per l'elementare fatto logico che: se ogni conseguenza logica di I, comunque debole, fosse falsa, allora (in modus tollens) I stessa, e in verità anche T, sarebbero false. Chiaramente questo fatto ovvio non consente che la centralità di un'ipotesi a una teoria sia data per deduzione logica. Questo principio, all'opposto, è insostenibile, se non altro perchè estenderebbe la rilevante nozione di centralità ad alcune delle più deboli, più generali,aspecifiche e astratte conseguenze logiche dei postulati cardine di T come (se fossero ndt centrali rispetto a essa!

In breve, Davidson ha condotto un ragionamento fallace circa il fatto che la specifica suddivisione della mente di Freud in Es, Io e Super io, autorizzerebbe la conclusione che la sua generica tripletta sarebbe specifica rispetto alla teoria di Freud. Questa conclusione è falsa.

Io ho dedotto che l'insistenza di Davidson su Freud a proposito della tripletta sia, ahimè, un caso di patrocinio speciale: per come la vedo io, Davidson avrebbe dovuto accontentarsi di lasciare che la sua teoria dell'irrazionalità poggiasse sulle proprie gambe, anzichè mettere in evidenza che la tripletta su cui si basa è una sorta di conseguenza deduttiva, logicamente molto debole, della ripartizione psicoanalitica della mente di Freud, il che significa che anche Freud potrebbe trarre vantaggio dalla spiegazione dell'irrazionalità nel senso di Davidson. Tuttavia, il pagamento di un tributo alla mal fondata centralità della tripletta rispetto alla teoria di Freud è ricorrente nel saggio di Davidson "Il paradosso dell'irrazionalità", sviluppato a partire dalla sua Ernest Jones Lecture, del 1978, alla Società di Psicoanalisi Britannica.

 

III. Critica di Cavell e Nagel

Mi rivolgerò ora all'assimilazione epistemologica di Marcia Cavell e Thomas Nagel delle spiegazioni psicoanalitiche dell'irrazionalità al sillogismo pratico cosiddetto "Estensionidelle Spiegazioni delle Azioni in base al Desiderio-che-diventa-Credenza". Nel suo libro, La mente psicoanalitica(1993, pp.79-80), la Cavell contesta la mia tesi (Grunbaum 1984, 1993) che Freud fallisce nel fornire un'evidenza cogente della sua ipotesi cardinale che la repressione è causalmente necessaria per la nevrosi, e che il risolverla è terapeutico. Insieme ad altri filosofi come Donald Davidson e Thomas Nagel (1994a, 1994b), ella sostiene che alla mia sfida epistemologica si risponde realizzando che "la connessione causale tra repressione e sintomi è fondamentalmente la stessa (per quanto più complessa e meno ovvia) di quella tra desiderio e azione, e azione e credenza" (1993, p.80). In breve, la Cavell asserisce che le spiegazioni causali psicoanalitiche dei sintomi nevrotici, nel senso ampio di Freud, che vi include lapsus e contenuto onirico manifesto, sono estensioni della psicologia popolare del senso comune, poichè anche essi sono conformi al modello del sillogismo pratico (che d'ora in avanti indicherò con "SP")

Questo modello configura distintamente un insieme di desiderio-che-diventa-credenza, che si ritiene causi (causendt) un'azione. Conseguentemente, la Cavell parla di un'azione come "pienamente intenzionale" e del SP come il "modello (di ndt) spiegazione (in base al ndt) fondamento oggettivo (nel testo: reason-explanation model ndt) " (1993,p.179). Tuttavia, più avanti, ammette che "nessun modello comprenderà tutti i casi di repressione, così come quelli di autoinganno," spiegando che lei stessa ha messo a fuoco l'ampia gamma di casi pertinenti al trattamento psicoanalitico e conformi al modello del SP (1993, p186). Come sappiamo, la psicoanalisi dei pazienti fa uso di ciascuna delle principali branche della pietra angolare rappresentata dalla teoria della repressione: psicopatologia, sogni, lapsus.

Ora, come base per contestare la mia sfida epistemologica, la Cavell elenca i presunti modelli di SP delle etiologie della repressione secondo Freud. A proposito della applicabilità alternativa di questo modello esplicativo, sostiene: "Se fosse così, nessuna evidenza induttiva particolare sarebbe necessaria per stabilire una connessione causale nei singoli casi" (1993, p.80). Ma non ci dice, a questo punto, che caratteristiche ha questo schema per poter validare legeneralizzazioni universali che rappresentano il principio informatore dei tre pilastri della teoria della repressione di Freud. Presumibilmente, ella fa riferimento a quella sorta diinduzione per enumerazione sulla quale Thomas Nagel (1994b, p.56) faceva affidamento quando, nella sua risposta a me, invocava la credibilità intuitiva di singole attribuzioni causali psicoanalitiche:

la plausibilità intuitiva (…) si applica necessariamente in prima istanza a spiegazioni specifiche, piuttosto che a principi generali (…) la conferma va dal particolare al generale; è la teoria generale della repressione e dello sviluppo psicosessuale che deve essere supportata da queste istanze individuali, piuttosto che il contrario.

In un'energica e cogente contro-argomentazione, Erwin (1996, pp13-19, e inoltre pp.106-107, 26-40 e 122-123) conclude: "Il principio (di conferma) di Nagel è in generale insufficiente a giustificare singole inferenze causali freudiane. La ragione è che uno, o più, dei presupposti empirici che tale giustificazione richiederebbe generalmente non si riscontrano" (1996, p.18).

Più avanti negherò che le tipiche spiegazioni psicoanalitiche dei sintomi nevrotici, del sogno, o degli atti mancati, siano genericamente assimilabili al SP. Ma, prima di farlo, devo sottolineare che, perfino se ci fosse questa assimilabilità, queste spiegazioni sarebbero troncate sul nascere epistemicamente, poiché le attribuzioni di Freud dei suoi ipotetici desideri repressi non hanno nessun cogente supporto autonomo (Grunbaum 1984, 1986, 1993). Tra le tante difficoltà, il metodo delle "libere associazioni", sostengo, non è probativo dal punto di vista causale.

Inoltre, nelle applicazioni ordinarie del SP per spiegare molte delle nostre azioni, motivazioni come il voler raggiungere una tranquilla vita familiare, una sicurezza economica, o una buona reputazione, sono attestate in maniera indipendente e multipla. Mentre, per esempio, come ho dedotto nei miei scritti, la imputazione di Freud ai paranoici di desideri omosessuali fortemente repressi (1911, 1915, 1922) è gravemente priva di evidenza cogente. Per queste ragioni, la caratterizzazione delle spiegazioni psicoanalitiche come "estensioni" di un modello esplicativo delle azioni sulla base del loro fondamento oggettivo, alla Thomas Nagel, Marcia Cavell, ed altri, semplicemente elemosina un'attenzione epistemologica.

Tutto questo come avvertenza preliminare.

Per colmo dell'ironia, Richard Wollheim, confratello pro-freudiano di Nagel e Cavell, rigetta esplicitamente l'istanza induttiva puramente enumerativa sostenuta da Nagel, e presumibilmente anche dalla Cavell, senza far menzione di questi autori. Wollheim (1993, cap.VI) presenta la sua spiegazione contraria della conferma psicoanalitica in un capitolo intitolato "Desiderio, Credenza, e il Freud del Prof Grunbaum". Partendo dalla supposta conferma intuitiva di Nagel delle specifiche spiegazioni psicoanalitiche come estensioni credibili della comprensione del senso comune, Wollheim (1993, pp.104-110) considera che l'esame clinico nelle sedute di trattamento psicoanalitico si adatta bene a casi come quello della patogenesi delle ossessioni dell'Uomo dei topi.

Tuttavia, Wollheim involontariamente viene incontro a una delle mie principali obiezioni epistemologiche alla teoria freudiana (Grunbaum, 1984, p.278) quando dichiara (1993, p.109):

In primo luogo, se le ipotesi psicoanalitiche devono essere verificate clinicamente, dobbiamo presumere, almeno per la durata della verifica, certi principi psicologici più generali, probabilmente di tipo extra clinico, per i quali dobbiamo sperare che gli eventuali test clinici siano stati correttamente approntati. Questi principi includeranno elementi come la formazione del sintomo, i meccanismi di difesa, il processo primario o il pensare concreto, la regressione sotto ansia, tipi di struttura di carattere come il narcisistico o lo schizo-paranoide, e gli stadi di organizzazione della libido. Quanto troveremo credibili questi principi deciderà quanto sia per noi appropriato assumerli in anticipo come test extra clinici mirati (corsivi aggiunti)

Erwin (1996, pp.134-135) giustamente spiega che questo passaggio di Wollheim funziona come un boomerang, e porta acqua al mulino delle mie vedute:

Questa concessione da parte di Wollheim lascia perplessi. Ipotizziamo che abbia ragione: la conferma clinica di particolari ipotesi psicoanalitiche richiede che noi presumiamo come vere altre parti della teoria freudiana, ma queste, a loro volta, non hanno alcun supporto empirico (in realtà vi è solo una speranza di rintracciare un senso della loro verifica). Se Wollheim ha ragione, abbiamo un nuovo argomento a favore della conclusione di Grunbaum (1984) che il supporto fornito dall'evidenza clinica è, nella migliore delle ipotesi, notevolmente debole.

In connessione con ciò, nella sua sistematizzazione delle spiegazioni psicoanalitiche, Wollheim (1993, pp.95-102) lascia senza argomenti Nagel, la Cavell, e altri, che, come ricordiamo, ragionano come segue: le spiegazioni psicoanalitiche che invocano la repressione si conformano tipicamente al SP della psicologia popolare, pertanto possono dispensare "evidenze induttive di tipo speciale" (Cavell 1993, p.80). Come base per questa stessa inferenza, la Cavell (1993, p.180) asserisce che il lavoro di Freud "l'ultimo lavoro di revisione sulla repressione e relativi argomenti (Inibizione, sintomo e angoscia (1925 1926)), costruisce in base a un modello fondamento oggettivo- spiegazione".

Al contrario, Wollheim si preoccupa di sottolineare che che vi sono tre varianti di spiegazioni della condotta umana (che includono perfino alcuni lapsus, ma non tutti) per la qual cosa "diventa sempre meno plausibile considerare il comportamento come il risultato di un sillogismo pratico, e corrispondentemente diventa sempre meno convincente pensarlo come un'azione" (Wollheim 1993, p.96). E' deplorevole che Wollheim dimostri di non sapere che nel mio libro del 1984, avevo indicato le più evidenti violazioni del SP da parte di alcune delle più conosciute formulazioni di Freud: cioè le spiegazioni fornite dal suo esempio, ritenuto paradigmatico, del lapsus dell'aliquis, dalle versioni prima e ultima della sua etiologia della paranoia, e (seguendo Michael Moore) dalla intera teoria dei sogni di Freud. Nessuna di queste, penso, si conforma alla struttura intenzionale del SP (Grunbaum 1984, pp.77, 76-77, e 82, rispettivamente).

Quanto al caso freudiano, assai noto, del lapsus dell'aliquis, esso descrive la dimenticanza di questa parola latina da parte di un giovane in una citazione dall'Eneide di Virgilio. Ho usato proprio questo lapsus famoso per illustrare il crollo del SP dovuto all'assenza del requisito della credenza nella connessione mezzi-fine (Grunbaum 1984, p.77):

Pertanto, prendiamo il già menzionato resoconto di Freud del lapsus di memoria rappresentato dalla dimenticanza della parola latina aliquis, che egli attribuì alla paura repressa del soggetto di una gravidanza… (riferita alla sua amante). Questo caso ben conosciuto non si conforma al sillogismo pratico. Poichè non vi è la minima evidenza che lo stesso soggetto, maschio, andasse incontro a un collasso della memoria nella credenza inconscia (comunque sciocca) di realizzare (appagare) in tal modo il suo desiderio (speranza) che la sua amante non fosse incinta. Pertanto,…non (vi è) nessuna base per rivendicare che il soggetto inconsciamente intendesse il suo stesso fallimento della memoria come un mezzo per raggiungere la desiderata libertà da una gravidanza, perfino nel caso che il suo stesso desiderio fosse qualificabile come un'"intenzione". Come Morris Eagle (1980, pp.368-369) ha sottolineato, vi è una grossa differenza tra un mero desiderio e un piano per realizzarlo.

Sia la Cavell che Nagel hanno ignorato questo passaggio nel mio libro. Inoltre, l'assenza della credenza in una relazione mezzi-fine, richiesta dal SP, indebolisce l'opinione di Nagel (1994a, p.35) che la spiegazione di Freud del lapsus mnemonico possa essere un'"estensione intuitivamente credibile" della "struttura generale di spiegazione" del SP.

Passando al punto successivo della spiegazione di Freud del sogno e dei contenuti manifesti del sogno, ho scritto (Grunbaum 1984, p.82):

…a parte le stesse opinioni esplicite di Freud, Michael Moore (1980, 1983) ha arguito che, secondo quanto si può evidenziare in Freud, il sognare contenuti onirici manifesti semplicemente non è da considerare come un'azione intenzionale. Per questo emerge che nonostante l'orpello linguistico della parola "intenzione" con il quale egli riveste le spiegazioni dei vari sogni, l'esame concettuale di queste spiegazioni rivela che "i sogni non sono produzioni (azioni) che mettiamo in scena per ragioni (inconsce), ma sono eventi causati da desideri" (Moore 1980, p.538; 1983, p.64)

Inoltre, come Owen Flanagan (1995, p.5) ha messo in rilievo, Agostino parimenti negava che i sogni fossero azioni intenzionali, che portiamo a compimento per ragioni precise; essi sono esperienze che ci accadono, anche se sono causate dai nostri desideri. Per questo egli negava di violare il comandamento di Dio contro la fornicazione quando aveva un sogno sessuale bagnato: i sogni possono avere un contenuto peccaminoso senza equivalere a peccati commessi (cfr. Agostino 1961, pp. 233-234)

In connessione con ciò, Mele (1997, p.101) difende "un modello esplicativo dell'autoinganno che diverge dai modelli di spiegazione della condotta intenzionale". In breve, egli evidenzia (idem) che "il comportamento motivato non è la stessa cosa del comportamento intenzionale."

Infine, riguardo all'etiologia freudiana della paranoia, che attribuisce questo disordine all'omosessualità repressa, ho posto una domanda retorica (Grunbaum 1984, P.76-77):

Nella spiegazione psicoanalitica della condotta delirante del paranoico, si può a giusto titolo ritenere che colui/colei che ne è affetto sia in possesso di "fondamenti oggettivi" del suo comportamento così da credere che esso sia un mezzo per ottenere l'appagamento delle sue brame omosessuali? si può asserire che il soggetto paranoico abbia inteso al livello inconscio, i suoi pensieri deliranti persecutori e il suo comportamento per portare a compimento i suoi obiettivi erotici?

Giusto per amore dell'argomentazione, postuliamo l'esistenza dell'evidenza clinica che il soggetto paranoide possa inconsciamente considerare i suoi pensieri persecutori come un mezzo per fronteggiare l'ansia generata dall'omosessualità. E supponiamo inoltre che questa credenza non realizzi che la riduzione dell'ansia è guadagnata al prezzo di altre ansie, dovute alle risposte negative di coloro che sono vittime dei suoi sospetti infondati. Perfino in questo caso, una tale credenza inconscia potrebbe difficilmente essere attribuita alla (credenza), completamente diversa, che tali sospetti conducano alla realizzazione dei suoi obiettivi omosessuali.

La conclusione della mia argomentazione in questo passaggio (1984, p.77) era che in questo caso non vi era alcuna evidenza empirica dell'esistenza della seconda credenza del raggiungimento dell'appagamento erotico, che sarebbe richiesto dal PS in questo contesto. Inoltre, in un simposio di revisione del mio Fondazioni, nel 1986, io avevo osservato (Grunbaum 1986, p.269) che, costantemente, nell'opinione di Freud sulla paranoia, i sintomi deliranti rappresentano gratificazioni di compromesso tra due desideri conflittuali: il desiderio di un appagamento erotico omosessuale e il desiderio, carico d'ansia, di bandire questo desiderio dall'attenzione cosciente.

Ma la Cavell (1993, p.80) prende spunto dalla mia inclusione del desiderio erotico nello scenario etiologico, per obiettare che si tratta di "un errore di comprensione" da parte mia, basato su un anacronismo esegetico. Secondo quanto ella dice (idem) :

Innanzitutto, il desiderio che la repressione e la formazione del sintomo soddisfano, secondo il più tardo (1926) modello istintuale di Freud, non è in sé erotico, ma piuttosto il desiderio di non conoscere un desiderio erotico, o di evitare qualcosa che rende ansiosi. In secondo luogo, se la repressione mostra l'intera struttura intenzionale, gli scopi repressi dovrebberoessere razionali: se io penso, consciamente o inconsciamente, che potrei essere meno ansioso se avessi una certa credenza, avrei una buona ragione per acquisirla. Avrei una ragione per essere un credente in x, per quanto non abbia alcuna evidenza che sia ragionevole pensare che x sia vero.. In questo (ultimo) senso (soltanto) questo è irrazionale.

Quanto all'accusa della Cavell che io sono colpevole di non aver ben ricostruito il Freud posteriore al 1926, Erwin ha documentato, riferendosi alla chiarificazione di Freud, del 1933 (SE 1933, 20:94), delle sue opinioni del 1926, che l'esegesi della stessa Cavell, e non la mia, è in difetto, precisamente a proposito del ruolo etiologico che l'ultimo Freud attribuisce al desiderio erotico. Citando lo scritto di Freud del 1926 e, cosa più importante, la sua elaborazione del 1933, Erwin spiega (1996, pp. 108-109):

…Freud parla di repressione e di evitamento dell'ansia, ma egli non sconfessa le sue prime affermazioni che l'etiologia delle psiconevrosi comprende desideri erotici. Piuttosto egli ritiene che vi sia una repressione primaria e repressioni che intervengono successivamente. Le repressioni successive contemplano l'evitamento dell'ansia ("l'ansia è risvegliata come segnale di una più primitiva situazione di pericolo"), ma la repressione primaria è in risposta a pressioni libidiche (cioé l'intenso desiderio tabù di appagamento omosessuale) (SE 1933, 22:94). Quando Grunbaum si riferisce ai desideri erotici del paranoide (1984, p.79), egli sta parlando di quei desideri che, in accordo con Freud, sono stati sottoposti alla repressione primaria, e che più tardi portano, attraverso la formazione reattiva e la proiezione, alla paranoia.

Quanto al secondo rimprovero di non aver capito rivoltomi dalla Cavell, esso è mal fondato essendo semplicemente relativo al suo modo di leggere, errato e in verità ottuso, la mia p.79. Il punto che io evidenzio  è chiaramente introdotto dalla precedente pagina 78, dove scrivo "Sarebbe un errore invocare il paragone di Freud degli stati mentali repressi con quelli coscienti nello sforzo di assimilare le spiegazioni psicoanalitiche al sillogismo pratico" (corsivi aggiunti).

Pertanto, rispondendo al secondo rimprovero della Cavell, Erwin (1996, pp.108-109) spiega che la sua argomentazione è irrilevante per una critica a Grunbaum. L'argomentazione di Erwing (e qui Erwing, in relazione al riferimento scorretto di pagina della Cavell, di nuovo sbaglia, citando la mia pagina 79 anziché le pp.76-77) non è che la formazione del sintomo da parte del soggetto sarebbe irrazionale, ma che manca l'evidenza che il soggetto abbia la credenza che potrebbe correlare il desiderio represso al sintomo. Senza questa evidenza, noi perdiamo la possibilità di assimilare il caso al sillogismo pratico (corsivi aggiunti).

I paranoici sono "solitamente non analizzabili (clinicamente)" (SE 1922, 18:225), se non altro perchè la loro sospettosità resiste a formare un'alleanza terapeutica con l'analista. Pertanto, è molto difficile che possano esservi evidenze cliniche affidabili delle credenze richieste dall'imputazione teoretica. Qualcosa di simile avviene per le altre nevrosi "narcisistiche."

Come abbiamo visto, la Cavell e Nagel producono, come basi evidenti della spiegazione causale di Freud nella sua teoria della repressione, l'estensione delle credenziali psicologiche del modello delle azioni intenzionali. Ma ora emerge che il loro tentativo di assimilare le spiegazioni etiologiche di Freud alla struttura delle azioni intenzionali non può sopportare il fardello epistemico ed esplicativo che essi pretendono di imporgli.

Come corollario della Parte III, emerge che Marcia Cavell, Thomas Nagel ed altri, hanno fallito nel tentativo di scalzare le mie critiche epistemologiche alle fondazioni esplicative e terapeutiche dell'impresa psicoanalitica.

 

NOTE

1 Ma vedi S. Gardneris (1993, cap.3, p. 50) per una discussione sul fatto che la versione dei sottosistemi mentali di Davidson riesca o meno nel dare una spiegazione dell'irrazionalità.

2 Ho un grosso debito con la storica della psicoanalisi Rosemarie Sand che mi ha fornito molte informazioni riguardo a questi esempi storici.

3 Questo capitolo denigra uniformemente il mio punto di vista e ahimè è pieno di forzate attribuzioni di colpa e false piste; vedi le confutazioni in Erwin (1996, pp.130-136) e in Grunbaum (1994).

4 La Cavell si riferisce alla teoria di Freud del 1926 dell'ansia come segnale. Eric Gillett 1990, Sez II, pp.558-568) ha proposto argomenti logici ed empirici contro questa teoria.

5 Tutte le citazioni in inglese degli scritti di Freud sono tratti dalla Standard Edition of the Complete Psychological Works of Sigmund Freud, tradotte da J.Strachey et al.London: Hogarth Press, 1953-1974. 24 vol. Per ciascun riferimento usiamo l'abbreviazione (S.E.) seguita dall'anno della prima pubblicazione, il numero del volume, e la(e) pagina(e).

6 Il riferimento alla p.79 è errato e avrebbe dovuto essere alle pp.76-77. Questo è significativo, poichè la p.79 è quella dalla quale la Cavell ha derivato la sua errata asserzione che che la mia applicabilità del SP qui è che il comportamento paranoide è irrazionale. Io non ho mai detto neanche implicitamente questo!

7 Oltre a Rosemarie Sand (vedi sopra alla nota 2), ho un grosso debito con Edward Erwin per l'aver intrapreso discussioni utili e per la sua ulteriore difesa delle mie vedute (vedi Erwin 1993, 1997b). Inoltre, ringrazio Frederick Crews per avermi suggerito un certo numero di miglioramenti nell'esposizione nel testo. Infine, sono debitore di Jerome Wakefield, in un certo modo discepolo e alleato filosofico di Davidson, per aver offerto provocazioni critiche al testo originario di questo scritto. La sua provocazione mi ha permesso di articolare ulteriormente i miei rilievi, ma non mi ha convinto a ritrattarne neanche uno.

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