Percorso: Home 9 Psicoterapie 9 25 ANNI: “SENNA. no fear. no limits. no equal….” Film-documentario di Asif Kapadia, Sundance Festival 2010

25 ANNI: “SENNA. no fear. no limits. no equal….” Film-documentario di Asif Kapadia, Sundance Festival 2010

1 Mag 19

Di Rossella-Valdre

"Poichè la ragione cerca con ogni mezzo di tenerci lontani dal precipizio, proprio per questo noi inesorabilmente ci avviciniamo ad esso. Non c'è in natura una passione più diabolicamente impaziente di quella di colui che, tremando sull'orlo di un precipizio, medita di gettarvisi"
(E.A.Poe, Il genio della perversione)

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Perchè scrivere di un film-documentario su un campione sportivo, lo scomparso grande corridore di Formula 1, Ayrton Senna? Lo sport pare da sempre un altro mondo – o un mondo altro – rispetto alle nostre speculazioni e interessi psicoanalitici; qualcosa di puro intrattenimento, che non prevede un interno ma si gioca, letteralmente, tutto sull'esterno, sull'azione….

Niente di tutto questo nell' intenso ed eccellente lavoro di Asif Kapadia, vincitore delSundance 2010 per la sezione documentari, e ampiamente sottovalutato in Italia, come purtroppo accade spesso al genere documentari e docu-film (mi risulta avere circolato per pochi giorni in poche sale, e non nella mia città..). Avendo avuto la fortuna di vederlo a New York, accompagnato anche dalla breve presentazione del giornalista sportivo americano John Bisignano della ESPN, lo propongo a quanti avessero la voglia o la ventura, come me, di imbattervisi anche casualmente.

Il documentario ripropone, attraverso il recupero di preziosi filmati inediti che la famiglia ha oggi messo a disposizione (e depositati presso la Fondazione "Ayrton Senna", molto conosciuta in Brasile), la breve e folgorante carriera automobilistica di Senna, dagli esordi nel campionato sudamericano dell'81, all'ingresso in Formula 1 con il debutto nel Gran Premio del Brasile dell'84, alle numerose e per certi versi clamorose vittorie successive, fino alla morte tragica nell'ultima gara ad Imola, durante il Gran Premio di San Marino nel '94. Aveva 34 anni. Dopo la sua, non ci sono più state morti violente per incidenti in pista durante le gare: con Senna sembra quindi chiudersi un'epoca (che lui stesso con le sue anche violente critiche ha contribuito a migliorare, come il film testimonia assai bene), quella del corridore solitario, un pò epico, romantico, lanciato a tutta velocità in pista su auto non ancora ipertecnologiche, lui con in mano un volante e padrone del suo mezzo, che deve condurre con le mani, i piedi, i riflessi, l'intelligenza.

Niente azione o spettacolarismo, abbiamo detto, in questa vita ripercorsa attraverso lo sguardo di un regista, Kapadia, e dello sceneggiatore indiano Manish Pandey (film fortemente voluto anche dal produttore J.G.Rees) che sono riusciti nell'intento di evitare gli stereotipi che i media tristemente applicano ai campioni sportivi (e forse proprio questo ne ha limitato la distribuzione), come le donne, gli eccessi, la curiosità morbosa sulla vita privata, l'enfatizzazione degli aspetti caratteriali più vistosi, e via dicendo. La macchina da presa si sofferma qui sui volti, sulle espressioni e sugli indugi dei protagonisti al percorso di Senna, sui loro dubbi, ansie, esitazioni, emozioni trattenute nella parola, come forse è comune tra gli sportivi, ma denunciate dalle mascelle tese, dallo sguardo acceso, dai silenzi, dagli sporadici sbotti d'ira, dai rari sorrisi. Se non proprio l'evidenziazione di un mondo interno, certo la vita emotiva, i pensieri e le angoscie di questi uomini, costituiscono a mio avviso la cifra specifica e non banale del docu-film. Oltre a Senna stesso, i personaggi a cui la sua vicenda, umana e sportiva, fu indissolubilmente legata: primo fra tutti l'eterno rivale Alain Prost, campione francese preferito dalla Federazione e dal suo capo, Ballestre (che morirà nel 2008), visibilmente ostile a Senna da cui era "politicamente" troppo lontano e che, infatti farà squalificare nel Gran Premio del Brasile dell'84, rifilandolo in un vergognoso secondo posto; pochi fedeli allenatori e giornalisti sportivi, tra cui i commenti di John Bisignano; rapide immagini di altri campioni, di alcuni corpi divorati in lamiere che si schiantano e bruciano contro i guard-rail; alcune immagini di serenità nei filmati girati al mare dalla famiglia, di un Senna giovane e apparentemente felice delle prime vittorie, ma intimamente mai pago, mai davvero vittorioso.

Incombe dall'inzio un senso di morte nel filmato. Se anche non avessi saputo del destino di Senna, lo avrei sentito fin dalle prime scene, dalle prime parole catturate in brevi interviste. Lo sguardo di questa faccia malinconica e pulita di bambino, figlio di una buona famiglia benestante di San Paolo che ne appoggiò da subito il talento e le aspirazioni, è uno sguardo fisso sul suo unico oggetto d'amore, sulla sua unica passione: correre. Non si corre per partecipare, dice infatti con la disinvolta sincerità di un uomo a suo modo in contatto con se stesso e scevro da quelle convenzioni politically correct che vogliono che lo sportivo sia democratico, che porga l'altra guacia: si corre per vincere, lo scopo è vincere, siamo qui per questo. Sempre in uno dei primi commenti, in gran parte affidati alla voce calda e commossa del giornalista brasiliano Galvao Bueno, si mette in luce come Senna, quando correva, fosse guidato, dominato non da condotte razionali o strategiche, ma dall'inconscio. Non gli importava delle beghe politiche di Ballestre e di Prost, non gli importava di ingraziarsi qualche potente tacendo sui difetti e sui pericoli delle nuove macchine rese almeno all'inizio paradossalmente più fragili dalla tecnologia, non gli importava di niente se non di correre, correre, sfidare qualche demone dentro di sè, quella rabbia che lui stesso ammette di avere, mettere a tacere qualche fantasma, spingersi al limite, corteggiare la morte continuamente. Cercarla, infine. Chi saprà davvero mai cosa animava la mente di quest'uomo dotato, fortunato, che secondo il senso comune "aveva tutto". La fama, la ricchezza, un Paese alle spalle che lo adorava, una famiglia che pare sensibile e amorevole, un talento vero, eccezzionale. Eppure. Il volto triste tradisce la sostanziale inutililtà e indifferenza alla fama, per Senna; la ricchezza, si scopre dopo la morte, era in gran parte devoluta in beneficienza ai bambini brasiliani (non forse per quella 'bontà' con cui lo si designava, ma appunto a seguito di un disinteresse verso di sè, di una noncuranza verso il proprio piacere). Credente in Dio, afferma in un'intervista, sinceramente credente ma senza fanatismi, sembra quasi senza speranza, una sorta di tentativo di una buona presenza interna, di una qualche protezione, un riferimento.

Perchè proporre questo film, quindi. Uno dei pochi esempi in cui l'inconscia pulsione di morte (uso qui il termine in senso generico, e non strettamente psicoanalitico), nel suo declinarsi, se si vuole, tragicamente adolescienziale di ricerca compulsiva di sfida e stimolo, domina il registro narrativo restituendo alla persona Senna, e non tanto al personaggio, tutta la complessa umanità e il groviglio di angoscie che doveva portarsi dentro.

Nel fine settimana dell'ultima gara, quella di Imola in cui perse la vita, Senna appare "nervoso, scontento…..era a disagio con le nuove auto", commentano le voci di sottofondo, come se la tecnologia, nel suo appiattente intento facilitante che cattura i più, su di lui avesse avuto un effetto di perdita, privativo: gli levava qualcosa, il possesso diretto del mezzo, la sua padronanza, il contatto, lo scopo e il senso per cui era lì. E ora, che senso aveva? Lo schianto sarà terribile. L'autopsia rivelerà che non riportò nessuna frattura ossea; si accenna soltanto alle future diatribe intorno al processo e alla ricerca di responsanbilità, ma come detto non è questo l'intento del film.

Senna sembra decidere internamente, che quella sarà l'ultima corsa. L'organismo decide internamente la sua propria morte, scrive Freud in Al di là del principio del piacere (1920).
Il giornalista John Besignano, che da quarant'anni frequenta e conosce questo mondo, ad una mia diretta osservazione a fine spettacolo dice che "sì, è proprio così, in tanti anni posso dire che i grandi campioni sempre, sempre, vanno a braccetto con la morte, con il desiderio di morire. E' così. Perchè, non lo so….certo questo in Senna era molto, molto forte" ("yes, yes, it's just like that, as you have said….during a long time working and living with these men, with these champions, I can say that always, always they live togheter, they court death…wish of death. Why, I dont' know….Surely, in Senna that was very, very deep….").

Un ulteriore dettaglio mi ha colpita. 
Senna amava la pioggia: dava il meglio di sè sotto il diluvio, laddove altri avrebbero fermato le gare (la famosa squalifica sopra menzionata, fu appunto sotto un diluvio che lo stava vedendo vincente). Accresceva il senso di rischio e sfida, il pericolo? Lo isolava ancora di più dall'esterno, come una coltre uterina? Costringeva a maggiore fatica, più sforzo, più lavoro sull'auto?…chi può dirlo. L'uomo della pioggia non sembra spinto alla sfida per disprezzo del pericolo, per l'ebbrezza drogata della velocità, per una conscia voglia di distruggersi; il volto delicato e l'esile corpo, i gesti quasi timidi esprimono piuttosto, o così nel mio sentire, una vena di malinconia profonda, antica, inevitabile, inspiegabile, a cui dover obbedire…

"All'uomo accade talvolta di sfuggire alle persecuzioni del desiderio, alla tirannia dell'istinto di conservazione. Lusingato dalla prospettiva del decadimento, scalza la propria volontà, si ingegna all'apatia, si erge contro se stesso, e chiama in aiuto il suo cattivo genio. Esagitato, in preda a mille attività che gli nuocciono, scopre un dinamismo di cui non aveva sospettato l'attrattiva, il dinamismo del disgregamento. (…). Nell'intimo degli individui, come nelle collettività, abita un'energia distruttrice che permette loro di sgretolarsi con un certo brio: esaltazione acida, euforia dell'annientamento! Nell'abbandonarsi ad essa speriamo forse di guarire da quella malattia che è la coscienza. Di fatto, ogni stato cosciente ci estenua…."
(E.M. Cioran, La tentazione di esistere)

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1 commento

  1. sansoni.riccardo

    Anche io l’ho visto, con
    Anche io l’ho visto, con meotodi poco ortodossi proprio perché dal cinema non l’ho visto passare…..

    Davvero molto bello. A mio giudizio quello che rende grandi campioni come Senna o Mohammed Ai è quella che viene definita l’assunzione etica del proprio desiderio (Recalcati, Ritratti del desiderio). Questi campioni sono dei modelli non tanto per la grandezza raggiunta nel proprio ambito come la boxe, le corse o la lotta al razzismo e alla poverta. Sono dei modelli trasversali che hanno l’ammirazione di tutti proprio per il fatto di aver assunto eticamente il proprio desiderio. Il desiderio può essere il piu disparato, l’accento va bensi posto sull’atto dell’assunzione.

    La scena più bella per me è nei titoli di coda……….quando non aspetta i soccorsi per aiutare un compagno, ma ferma la sua macchina e accorre di persona!!!

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