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La fata della morte. Family mass murder

20 Apr 15

A cura di martucci

 
Le cronache degli ultimi mesi ripropongono con cadenza allarmante quella categoria estrema della violenza domestica che è costituita dalle stragi familiari. La vis classificatoria statunitense ha da tempo separato l’assassinio seriale dal mass murder, definito come l’atto di assassinare più persone, simultaneamente o in un lasso di tempo molto breve, seguito o meno dal suicidio del responsabile. Nel genere si individua una sottocategoria, quella del family mass murder, rispetto alla quale, in Europa, l’Italia occupa, sembra, una posizione di rilievo. In effetti da anni in ambito criminologico si denuncia la persistenza ed addirittura la crescita del fenomeno. Le cui interpretazioni oscillano fra abusati stereotipi mediatico-popolari (“il raptus di follia”, “la depressione”…) a paradigmi più sofisticati con richiami antropologici e socio-culturali all’eclisse dei ruoli ed al disordine post-moderno.
Tuttavia, anche in questo caso la memoria è corta, e si trascurano i tanti precedenti, talvolta nobilitati da prestigiose cornici letterarie
Il riferimento forse più ovvio va al saggio curato da Michel Foucault nel 1973, dedicato alla tragica vicenda di Pierre Rivière, un contadino normanno che nel 1836 aveva ucciso a sangue freddo con una roncola la propria madre (incinta), la sorella diciottenne e il fratellino di dieci anni. Subito dopo l’arresto Pierre aveva iniziato a scrivere una sorta di memoriale-confessione, il cui spiazzante incipit («Io Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello…») era stato ripreso da Foucault come titolo dell’opera (1).
Nelle 61 pagine dello scritto Rivière rievocava con straordinaria lucidità le tormentate vicende matrimoniali dei genitori e l’intricata conflittualità che attraversava la sua famiglia, sino all’esito sanguinoso, il cui “senso” sarebbe stato quello di “liberare” il padre dalle persecuzioni di una moglie avida e oppressiva. Niente di più lontano dal delirio di un pazzo. Il giovane fu condannato a morte, poi la pena fu commutata nella reclusione a vita. Si uccise nella sua cella nel 1840.
Ma un'altra vicenda, ancora più orribile e meno comprensibile, avrebbe scosso la Francia 80 anni dopo la storia di Rivière. Il 30 settembre 1913 Marcel Redureau, un ragazzo quindicenne, garzone presso una fattoria di contadini possidenti nelle campagne della Loira – come è d’uso in quei tempi – al termine di una delle tante dure giornate di lavoro legate alle settimane della vendemmia, viene rimproverato dal padrone che gli rinfaccia di non impegnarsi abbastanza. Marcel, che proviene da una “famiglia rispettabile”, è un ragazzo taciturno, anche troppo serio, che nei pochi anni in cui ha potuto frequentare la scuola e conseguire il diploma di studi primari si è dimostrato, come ricorderà il maestro, di «intelligenza superiore ai compagni». Se gli capita, ama anche leggere.
Eppure, questo ragazzo tranquillo non sopporta il rimprovero (l’ennesimo?) del padrone-tutore. Si impadronisce (pure lui) di un tipo particolare di roncola, un attrezzo assai tagliente usato per tranciare i grappoli d’uva, e lo colpisce a morte. Il delitto sembra innescare un processo inarrestabile. Risalito dalla cantina, dove si trovava con la sua vittima, l’adolescente percorre le stanze dell’edificio sterminandone gli occupanti: moglie, figli, madre del contadino ed una domestica, sette persone in tutto, scamperà solo un bambino di 4 anni. Il giorno dopo viene arrestato, forse dopo aver tentato di annegarsi in uno stagno. Il processo che ne segue scuoterà la nazione; avvocati ed alienisti si sforzeranno invano di trovare segni lombrosiani di “follia” o “degenerazione” nella mediocre normalità di un ragazzotto di origine umile (2), che verrà condannato a venti anni di prigione (il massimo per un minorenne) e dopo un paio d’anni morirà in carcere di tubercolosi. Ma si può pensare che il suo destino sarebbe stato in ogni caso segnato. Non si fosse macchiato del crimine, non sarebbe probabilmente sfuggito alla sorte di tanti altri giovanissimi contadini, mandati nelle trincee della Grande Guerra, a morire in una strage altrettanto insensata ma incomparabilmente più grande.
Anche la vicenda di Redureau, come quella di Rivière, attirò un grande nome della cultura, in questo caso André Gide, verosimilmente intrigato dalla incomprensibilità del gesto, lui che aveva già introdotto il delitto gratuito ne I sotterranei del Vaticano e che avrebbe ispirato Albert Camus e Jean Paul Sartre. Gide rievocò la storia ne Il caso Redureau, volumetto pubblicato nel 1930 in cui si sforzava di interpretare gli eventi non come frutto di patologia, ma delle dinamiche psicologiche dell’adolescenza (3).
Ma pure negli Stati Uniti, dove gli omicidi di massa hanno radicata tradizione, non sono mancate chiose narrative a vicende clamorose. Fra tutti si segnala il caso di Thomas Odle, un diciottenne che l’8 novembre 1985 a Mount Vernon – una cittadina dell’Illinois – massacrò brutalmente i genitori e tre sorelle. Riconosciuto sano di mente, a 19 anni era il più giovane condannato a morte nelle carceri dell’Illinois; attese 17 anni l’iniezione letale, sino alla commutazione della pena in ergastolo. L’imprevista prospettiva di un futuro indusse Odle ad un percorso di riflessione, condiviso con il neuropsichiatra che l’aveva esaminato al tempo del processo. Il risultato è stato un volume a quattro mani, pubblicato nel 2013, dal titolo evocativo: Survived by one. The Life and Mind of a Family Mass Murderer.
Dobbiamo leggere i casi di ieri e gli attuali come uno dei segni di crisi dei modelli sociali nella tarda modernità, proprio come taluni hanno associato l’assassinio seriale alla rivoluzione industriale?
In realtà occorrerebbe riflettere sulla circostanza che le vicende esplorate da Gide e Foucault si collocano nel cuore arcaico della campagna francese e che elementi significativi emergono evidenti se appena esaminiamo le tradizioni tramandate da quella straordinaria memoria collettiva della cultura contadina che sono le fiabe popolari. E’ noto come le analisi antropologiche e psicoanalitiche (in particolare quelle di matrice junghiana) abbiano posto in evidenza i tratti di crudeltà presenti in tante narrazioni, riferite proprio ai legami familiari e che sono in parte sopravvissute nelle trasposizioni letterarie “colte” dei modelli originari.
Ciò è evidente ad esempio nei Contes de ma mère l’Oye, che Charles Perrault raccolse nel 1697 e che il nostro Collodi tradusse nel 1875 col titolo I racconti delle fate: qui ritroviamo Barba-blu (l’archetipo dell’omicida seriale familiare), Pollicino e Cappuccetto Rosso, di cui Perrault ha conservato gli originari tratti di crudeltà, poi mimetizzati o rimossi nelle versioni più recenti. Così Pollicino inganna l’Orco inducendolo a sgozzare nel buio le sue stesse figlie, nella convinzione di uccidere Pollicino e i suoi sei fratelli: «Eccoli – disse – questi monellacci! Lavoriamo di fino. E nel dir così, senza esitare, tagliò la gola alle sue sette figliuole. Contentissimo del fatto suo, andò di nuovo a coricarsi accanto alla moglie» (5). Infatti «quest’Orco, in fin dei conti, era un buon marito, quantunque fosse ghiotto di bambini».
E che dire dei genitori di Pollicino e dei suoi fratelli? Una coppia di brave persone che però, di fronte all’impossibilità di sfamare i sette figli in un tempo di carestia, progettano semplicemente di liberarsene: «oramai io sono risoluto a menarli nel bosco e a farveli sperdere» – dice il taglialegna. Ma grazie all’espediente dei sassolini bianchi i sette fanciulli riusciranno a ritrovare la via di casa. Il padre e la madre, che avevano inaspettatamente riscosso un vecchio debito ed avevano potuto saziarsi con un gran pranzo, riaccolgono volentieri i figli. Ma «la contentezza durò finché durarono i dieci scudi. Quando questi finirono, tornarono al sicutera delle miserie, e allora decisero di smarrirli daccapo; e per andare sul sicuro, pensarono di condurli molto più lontani della prima volta». Il seguito è noto.
Alla fine la famiglia riaccoglierà definitivamente i sette fratellini «con grandissima festa», ma anche perché Pollicino (Puccettino nella versione di Collodi), torna «col carico addosso di tutte le ricchezze dell’Orco».
Passando all’altra celeberrima raccolta fiabesca, quella dei fratelli Grimm, è poco conosciuta la profonda opera di rimaneggiamento compiuta dai due autori fra la prima edizione del 1812 del volume Kinder und Hausmarchen (6) e le successive sei, sino all’ultima del 1857. Come nota Lella Ravasi Bellocchio in un suo pregevole contributo:
«Via via nelle successive edizioni, a partire già dalla seconda del 1815, alcune storie scompaiono, altre vengono rimaneggiate, trasformate, rese edificanti, fino a quella che è giunta a noi del 1857, preziosa gemma letteraria, su cui hanno lavorato anche Marie Louise Von Franz e Bruno Bettelheim nell’interpretazione e lettura delle fiabe, o lo storico Propp nei suoi testi sulla morfologia della fiaba e sulle radici storiche dei racconti di fate. Le fiabe sconosciute dei Grimm nelle versioni del 1812 e in parte del 1815 non sono né rozze né grossolane, al contrario sono forti e in qualche modo imperdibili e sorprendenti, non purgate dalla successiva ideologia puritana, dal bagno purificatore in cui i due fratelli hanno immerso le storie, ma ancora frutto della tradizione orale che era stata collezionata dai numerosi raccoglitori e informatori a cui i Grimm facevano riferimento. Un bagno a cui forse sono giunti dopo molte riflessioni per le critiche e il rifiuto del materiale proposto, di cui all’inizio erano comunque forti difensori, e con motivazioni precise. (…)
Il recupero del significato simbolico di alcune fiabe, ricche di mostri, alberi e boschi fatati, malefici e incantesimi di ogni genere, va di pari passo negli anni delle diverse edizioni con una sorta di epurazione degli aspetti più crudi del male, modificati a vantaggio di situazioni magiche e fuori dalla realtà. Le fiabe mantengono un carattere iniziatico nella maggior parte dei casi, ma come scrive Jacob Grimm: “Le fiabe per bambini sono mai state concepite e inventate per i bambini?” (…) Non si inventano le fiabe per loro ma forse per l’infanzia dell’umanità a cui tutti apparteniamo, questo ci dicono i Grimm. E dell’umano fa parte il male, che non è solo simbolico o allegorico. Rimangono come memoria di crudeltà intatta e senza mediazioni almeno due fiabe pubblicate nel 1812 ed espulse nella successiva edizione del 1815, ma ben difese dai Grimm» (6).
Vale la pena di riportarne una, brevissima, dalla prima edizione del 1812, epitome quanto mai pertinente al tema delle stragi familiari:
COME CERTI BAMBINI SI MISERO A GIOCARE AL MACELLAIO
«Una volta un padre di famiglia aveva ammazzato un maiale in presenza dei figli; quando nel pomeriggio i bambini si misero a giocare, uno disse all’altro: tu fa’ il maialino e io il macellaio, quindi prese un coltello e lo cacciò in gola al fratellino».
«La madre, che era seduta di sopra nella stanza e faceva il bagnetto al più piccolo in un catino, alle grida degli altri scese subito di sotto e quando vide l’accaduto estrasse il coltello dalla gola del figlioletto, e per la rabbia colpì dritto al cuore l’altro che aveva giocato al macellaio. Poi corse in fretta in casa per controllare il piccolino nel catino, ma nel frattempo quello era annegato; allora la donna per lo spavento e la disperazione, rifiutando ogni conforto della servitù, si impiccò. Il marito tornò dai campi e a quella vista di lì a poco morì di crepacuore».

(1) FOUCAULT M. (2000) a cura di: Io, Pierre Rivière , avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello… Un caso di parricidio del XIX secolo [1973], Einaudi, Torino. Nel 1976 la vicenda venne portata sullo schermo dal regista Renè Allio.
(2) Si veda OLLIVE B. (1914): “L'affaire Redereau”, in Archives d'anthropologie criminelle de médecine légale et de psychologie normale et pathologique, 625 ss.
(3) GIDE A. (2003), Il caso Redereau [1930], Sellerio, Palermo.
(4) La versione toscaneggiante di Collodi risulta assai efficace nel trasmettere il cinismo beffardo che attraversa il testo di Perrault: COLLODI C. (1976), I racconti delle fate [1875], Adelphi, Milano, p. 44 ss.
(5) Cfr. GRIMM J. e GRIMM W., Principessa Pel di topo e altre 41 fiabe da scoprire [1812], a cura di Jack Zipes, Donzelli editore, Roma, 2012
(6) RAVASI BELLOCCHIO L. (2014): “Le fiabe del focolare o l’horror del focolare”, in Rivista di Psicologia Analitica, 89.


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1 commento

  1. simonetta.putti

    L’opinione di Jacob Grimm:
    L’opinione di Jacob Grimm: “Le fiabe per bambini sono mai state concepite e inventate per i bambini?” (…) Non si inventano le fiabe per loro ma forse per l’infanzia dell’umanità a cui tutti apparteniamo….” andrebbe forse oggi ripensata, rianalizzando le fiabe anche alla luce del contesto attuale.

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