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RAGIONI PER VIVERE. DALL’ECLISSI DEL FUTURO AL TEMPO DELLA SPERANZA

6 Mag 15

A cura di galzigna

RIETI, 4 MAGGIO 2015: UNA TRACCIA DEL MIO INTERVENTO INTRODUTTIVO AL CONVEGNO PREVENIRE E COMPRENDERE: L'INDIVIDUO A RISCHIO DI SUICIDIO
(ASL di RIETI – DIPARTIMENTO DI SALUTE MENTALE)


 
          Stavo pensando, proprio in questi giorni, a una sorta di testamento spirituale: dopo essermi confrontato con figli, studenti, ricercatori e docenti più giovani, ho concepito il mio intervento, qui, come messaggio destinato alle nuove generazioni. Dobbiamo, io credo, riuscire a dialogare con loro: cioè con coloro che, presumibilmente, ci sopravviveranno. Dobbiamo riaprire il tempo assieme a loro – interagendo con loro: unendo, entro questa dimensione "antropopoietica", la speranza progettante e prospettica del PUER con la saggezza retrospettiva, storico-genealogica, del SENEX. Il vero antidoto alla morte e al desiderio di morte – aveva ragione il grande ELIAS CANETTI – è forse proprio questo: essere e diventare – assieme ai più giovani, aggiungiamo noi – testimoni e paladini della metamorfosi… Parlavo prima di dimensione antropopoietica. prendendo a prestito un neologismo – ANTROPOPOIESI (A) – coniato di recente da Franco Remotti, un nostro valente antropologo: A significa capacità del soggetto umano, a prescindere dalla trama dei fattori che lo determinano e che lo condizionano, di costruirsi un proprio spazio vitale, un proprio stile di vita, un proprio àmbito progettuale e operativo. A dunque: il lato attivo e creativo del soggetto, capace di mettere in scacco le variabili che lo influenzano, che lo assoggettano, che lo costituiscono. L’A rappresenta per noi una strategia che contraddice Thanatos, che contrasta attivamente quello che Freud –  nel suo libro Al di là del principio di piacere (1920) – chiamò l’istinto di morte, o la pulsione di morte. In che modo lo contrasta? Facendo leva su Eros, come auspicava l’ultimo Freud. Il padre della psicoanalisi scriveva infatti, a conclusione del suo celebre saggio “Il disagio della civiltà”, del 1929:
          “Il problema fondamentale del destino della specie umana a me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile riuscirà a padroneggiare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla pulsione aggressiva e auto distruttrice degli uomini (…). Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione. E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due potenze celesti, l’Eros eterno farà uno sforzo per affermarsi nella lotta contro il suo avversario parimenti immortale. Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito?” (OCF 10, p.630).
          Il problema del conflitto tra Eros e istinto di morte, pensato dall’ultimo Freud, nella sua seconda topica, anche come problema della vita collettiva, affonda le sue radici in un contrasto e in una contrapposizione che scandiscono, molto decisamente,  l’andamento della vita individuale. A questo stesso contrasto, e all’istanza costruttiva dell’Eros – capace di combattere la pulsione aggressiva e autodistruttiva dell’uomo – faremo qui, inevitabilmente, riferimento. Ma andiamo con ordine.
          
          Il nostro tempo – quello che possiamo vivere – è il tempo della disperanza:  despérance, un altro neologismo introdotto nella lingua francese da Alfred De Musset, nel suo romanzo Confession d’un enfant du siècle, del 1836: despérance non significa desespoir, disperazione; despérance significa caduta della speranza, vuoto della speranza, declino della speranza, assenza di futuro, e in De Musset ha il preciso significato di una formazione reattiva rispetto alla chiusura del processo rivoluzionario e rispetto al crollo della “speranza di rivoluzione”, che già l’ultimo Kant, attraverso il concetto di ENTUSIASMO, aveva messo a tema (cfr. “Il conflitto delle facoltà”): la disperanza è, in ogni caso, uno stato soggettivo della mente che attraversa, oggi più che mai, l’esperienza degli individui, dei gruppi, delle moltitudini.
            Questa dimensione diffusa e capillare della disperanza la rende, al tempo stesso e contraddittoriamente, più dolorosa e lacerante ma anche, come si vedrà, più vivibile e meno segnata, proprio perché largamente condivisa, dal funesto destino che colpisce inesorabilmente ogni male, ogni malessere, ogni evento catastrofico giudicato ineluttabile e irreversibile. Su questo terreno, può essere utile un riferimento alla vicenda storica della psichiatria clinica nascente, a partire dai Pinel, dagli Esquirol, dai Georget. Ai suoi esordi, la psichiatria clinica non ha ancòra tematizzato la cronicità, la dimensione patologica irreversibile: quando questo accadrà, con la psichiatria positivista successiva alla metà del secolo XIX, verrà meno la matrice illuminista, terapeutico-trasformativa del nuovo sapere. Il pz non verrà più considerato un soggetto, se non guaribile, almeno emendabile, trasformabile. Il declino dell’ottimismo terapeutico e della speranza di trasformazione sarà uno dei fattori, tutt’altro che secondari, responsabili del dispotismo asilare (manicomiale). Nel momento stesso in cui l’asilo, da istituzione terapeutica, da “machine à guérir”, si trasforma in istanza istituzionale preposta alla segregazione e alla contenzione, significa che l’ottimismo trasformatore dell’alienistica delle origini ha lasciato il posto ad un apparato di segregazione e di controllo. Ad un asilo che da ospedale si è trasformato in lager. Il lager che Basaglia ha cercato di distruggere.
          Il dipotismo e il crollo delle libertà: è dunque questo il prezzo che si paga per aver abbandonato il terreno della speranza, del futuro pensabile e progettabile, dell’avvenire concepito come prospettiva di liberazione, di emancipazione e di riscatto. L’uscita dalla disperanza, la riapertura del tempo, la ritematizzazione di un futuro possibile: su queste istanze possiamo trovare e mettere a fuoco – non da soli, non isolatamente, non soltanto individualmente – le RAGIONI PER VIVERE.
 
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Le ragioni per vivere, dunque… Un’ottica che può e che deve maturare in tutte le relazioni:  quelle simmetriche, che appartengono al nostro vissuto quotidiano (familiare e sociale) e soprattutto quelle asimmetriche, di carattere formativo o terapeutico-formativo: genitori-figli, insegnanti-allievi, curanti-curati. analizzanti-analizzati. Anche per semplificare la vostra ricezione del mio discorso, voglio sùbito esplicitare quello che potrebbe rappresentare una sorta di apriori per così dire filosofico, o almeno metodologico, di questo intervento: il passaggio DALL’IO AL NOI, DALLA EGOITA’ ALLA NOITA’, DALLA SFERA INDIVIDUALE ALLA SFERA COLLETTIVA. Il passaggio dall’IO al NOI, sul terreno educativo, formativo, terapeutico, deve rappresentare l’asse portante di una vera e propria rivoluzione antropologica, fondata sul superamento di ogni chiusura egoica, di ogni ripiegamento narcisistico e sulla conseguente valorizzazione del legame sociale, gruppale e comunitario. L’amor sui e la cura sui, dimensioni tematizzate dalla letteratura greco-latina –  potentemente ed efficacemente riprese e riarticolate dall’ultimo Michel Foucault proprio nella prospettiva del passaggio dall'Io al Noi – ci introducono alla necessità di uno stretto e duraturo legame tra l’amore di sé e l’amore dell’altro, tra la scoperta di sé e la scoperta dell’altro.  Consideriamo il passaggio dall'IO al NOI, in questa prospettiva, la maniera vitale, poetica e creativa per combattere l’istinto di morte, consapevoli del fatto che esso affonda le sue radici nella materia vivente, nella nostra stessa struttura biologica (basti pensare al modo in cui la ricerca biologica ha tematizzato il destino di morte della materia cellulare: lo ha denominato, con un neologismo che risale al 1972, APOPTOSI).
Nel suo libro del 1920, Al di là del principio di piacere, Freud ipotizza, profeticamente, che all'interno del citoplasma cellulare è presente una pulsione di morte: una pulsione il cui scopo è quello di ricondurre la materia vivente al suo stato primordiale di materia inorganica. Un principio di morte, dunque, filogeneticamente più antico della libido, che agisce contro di essa, insito nelle cellule stesse.
La scoperta dell’apoptosi conferma dunque l’intuizione di Freud, anche se la comunità psicoanalitica, a cominciare da Ernest Jones, non la accoglie favorevolmente. Vi è qualcosa, nel citoplasma cellulare, che ne provoca la morte. Siamo dunque votati alla morte? Come scriveva Heidegger? La morte, ineluttabile, è scritta nel nostro patrimonio cellulare? Certamente. Ma la nostra vita pulsionale può anche contrastare, almeno sul terreno psicologico, questo assetto. Tutta qui la grandezza di Freud. Pessimista, attento ai dati della ricerca scientifica, capace financo di anticiparne l’andamento, ma proiettato, al tempo stesso, a valorizzare l’Eros eterno, la “potenza celeste” che celebra la vita e l’amore. Questa valorizzazione dovrebbe rappresentare, voglio ribadirlo, la posta in gioco di ogni processo educativo, formativo e terapeutico. Nei vari àmbiti in cui tale processo si realizza – dalla famiglia, alla scuola, fino alla struttura sanitaria – dobbiamo riuscire, fin da principio, a far prevalere una logica della “noità” e, al suo interno, il piacere della scoperta e del riconoscimento dell’altro. Non il grande Altro, enfatizzato da Lacan, ma l’altro di tutti i giorni. L’altro con la a minuscola, che viene riconosciuto fuori di noi solo a patto di individuarne la presenza già dentro di noi. L’istanza femminile – ma potremmo dire, senza giri di parole, il pensiero femminile e femminista (perlomeno un certo pensiero femminile e femminista) – può oggi funzionare come bussola, come mezzo di orientamento, come strumento ineliminabile all’interno del vasto e variegato continente – variabile nel tempo e nello spazio – della CURA. Non la SORGE heideggeriana, impantanata nelle nebbie sterili ed asettiche di una dimensione ontologica, lontana dal corpo e dalla vita, ma la cura come fenomeno (come spinta esistenziale, come condotta quotidiana) che può realizzare con pienezza la sua vocazione oblativa solo se pensata, vissuta e realizzata dentro una noità, dentro una dimensione gruppale, dentro un contesto sociale e collettivo. All’interno di queste istanze, emerge con prepotenza una ridefinizione complessiva della problematica di genere: laddove, invertendo la plurisecolare partizione che assegna al maschio il principio di realtà e alla femmina il principio di tenerezza, comincia a funzionare qualcosa come una ibridazione, come una mescolanza, come una con-fusione di ruoli e di competenze. Il “caregiving father”, messo a tema dalla letteratura sociologica anglosassone, declina la sua presenza proprio dentro questa inedita e creativa ibridazione dei ruoli: diventa così, lo indica una certa psicoanalisi, padre primario, o “padre materno” (felice neologismo coniato dalla psicoanalista freudiana Simona Argentieri), portando a buon fine una cura (“care”) che richiede l’apporto congiunto e sinergico della funzione femminile e della funzione maschile. Si crea così, attorno al bambino, un contesto corale, un contesto collettivo, un contesto che è già, ab imis, intrinsecamente “sociale”. La coralità della cura – così come, in ambito terapeutico, la coralità della presa in carico – mette in moto eros, inteso come principio di vita. Meglio: all’interno di una relazione circolare, è proprio Eros, in quanto principio di vita, in quanto movimento creativo,  ciò che mette in moto la cura: quella con la c minuscola.
Un antico testo, di Senofonte, dedicato al governo della cosa domestica, utilizzava due differenti avverbi, per definire la funzione maschile e la funzione femminile: ENDON, che vuol dire dentro, connota la funzione femminile. EXO, che vuol dire fuori, connota la funzione maschile. Forse Freud è l’ultimo testimone, il testimone terminale direi, di questa lunga, laboriosa e drammatica storia. Oggi, l’ibridazione di endon e di exo è diventata necessità sociale, urgenza storica, soglia decisiva, utile a configurare lo spazio interno – lo spazio della nostra coscienza, l’agostiniano homo interior – come spazio di vita e di creazione. Come spazio aperto a una gestione della vita e della cura che sia gestione collettiva, solidale, condivisa (condivisa da maschi e femmine, da soggetti appartenenti a contesti diversi, financo a culture diverse). Solo a questo livello è pensabile un Eros che contrasti efficacemente, sul piano psicologico, Thanatos. Solo a questo livello Eros, come desiderio di vita, può avere la meglio su Thànatos, concepita come desiderio di morte.
 

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1 commento

  1. maria.vitale1

    grazie per questo scritto,
    grazie per questo scritto, grazie non solo per il suo contenuto ma per come è scritto

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