Il testo scritto da Rita Corsa e Lucia Monterosa affonda le radici nella loro esperienza psicoterapeutica e dall’incontro con quei pazienti che portano in analisi un bagaglio di sofferenza estrema e disarmante di fronte alla quale sembra che non ci sia più nulla da fare. Si tratta di condizioni che spesso includono l’infermità fisica che, con il suo portato di caducità, permea il pensiero e l’affettività.
I temi affrontati nel libro sono sostenuti da un ampio inquadramento teorico nel campo della letteratura psicoanalitica, ma è l’aggancio alla clinica che sostiene e anima la trama del discorso. Il dialogo con il lettore è sostenuto da uno stile espositivo rigoroso, che allo stesso tempo si colora di accenti emozionanti e coinvolgenti. La prospettiva di osservazione utilizzata, che include anche la persona dell’analista, può fornire un prezioso orientamento a tutti coloro che operano a contatto con la sofferenza psichica e che si prendono cura di pazienti «al limite».
Le autrici, partendo dal quesito se sia proprio dall’esperienza del limite che possa generarsi un vissuto di speranza, si interrogano sui confini del proprio operare. Nella prima parte del libro vengono analizzati alcuni temi cruciali legati a quelle situazioni in cui lo psicoanalista affronta lo smarrimento per una grave patologia organica di un suo paziente, ma anche a quelle in cui è egli stesso a prendesi la responsabilità di una propria seria malattia. Corsa e Monterosa ci parlano dei pensieri che possono addensarsi nella mente di chi è costretto a percorrere quei difficili attraversamenti; esse lo fanno attingendo alle loro storie parlando «di umanità senza veli e senza ipocrisie», come sottolinea Adamo Vergine nella sua appassionata postfazione. I capitoli si snodano prendendo in esame il tema della vergogna, della depressione e della morte, dell’onnipotenza, della neutralità e della self-disclosure. Quest’ultima questione è affrontata nelle possibili declinazioni in cui si renda opportuno o inevitabile che aspetti personali dell’analista possano essere svelati al paziente. Gli argomenti proposti alla discussione sono supportati da un accurato esame della rassegna della letteratura e da storie cliniche in cui si può cogliere lo spessore del lavoro autoanalitico.
Le autrici si interrogano e ci interrogano ma non offrono apertamente delle risposte, preferiscono piuttosto dischiudere nella mente di chi legge nuovi orizzonti: esplorano i contributi di molti autori – la bibliografia citata è molto ricca – e ampliano il loro discorso attraverso numerosi rimandi nel campo della letteratura e dell’arte, attraverso cui si possono cogliere stimoli e suggestioni.
Corsa e Monterosa, nel sostenere le loro idee, si affidano anche al metodo storico utilizzando biografie e carteggi in un modo illuminante. Inoltre, dagli esempi clinici descritti, traspare la comunicazione profonda che si può realizzare tra paziente e analista quando entrambi si trovano a dimorare in spazi scomodi.
La seconda parte del testo affronta il tema della speranza: se ne rintracciano le orme soprattutto nelle pieghe di alcuni scritti di Freud, Winnicott, Klein, Bion ed altri psicoanalisti contemporanei e vengono percorse le articolazioni tra questo affetto e l’area dell’illusione e della nostalgia. Le autrici si avventurano sul terreno della speranza osservandola da due versanti opposti e allo stesso tempo complementari: come un’estrema e menzognera difesa dall’angoscia di morte o una tensione in cui si incardina la vis conoscitiva dell’uomo. Inoltre, anche su questo terreno, i fili teorici si tessono e dialogano con intesi rimandi clinici.
Si tratta di un libro coraggioso che parla della vita e della morte, che osserva il presente e cerca di scrutare il futuro della psicoanalisi nella ferma convinzione che questa disciplina possieda gli strumenti per lavorare nelle aree più impervie della psiche. Le autrici inoltre non distolgono lo sguardo dal mondo che ci circonda, con le trasformazioni e le vicende, talvolta tragiche, che lo attraversano.
I temi affrontati nel libro sono sostenuti da un ampio inquadramento teorico nel campo della letteratura psicoanalitica, ma è l’aggancio alla clinica che sostiene e anima la trama del discorso. Il dialogo con il lettore è sostenuto da uno stile espositivo rigoroso, che allo stesso tempo si colora di accenti emozionanti e coinvolgenti. La prospettiva di osservazione utilizzata, che include anche la persona dell’analista, può fornire un prezioso orientamento a tutti coloro che operano a contatto con la sofferenza psichica e che si prendono cura di pazienti «al limite».
Le autrici, partendo dal quesito se sia proprio dall’esperienza del limite che possa generarsi un vissuto di speranza, si interrogano sui confini del proprio operare. Nella prima parte del libro vengono analizzati alcuni temi cruciali legati a quelle situazioni in cui lo psicoanalista affronta lo smarrimento per una grave patologia organica di un suo paziente, ma anche a quelle in cui è egli stesso a prendesi la responsabilità di una propria seria malattia. Corsa e Monterosa ci parlano dei pensieri che possono addensarsi nella mente di chi è costretto a percorrere quei difficili attraversamenti; esse lo fanno attingendo alle loro storie parlando «di umanità senza veli e senza ipocrisie», come sottolinea Adamo Vergine nella sua appassionata postfazione. I capitoli si snodano prendendo in esame il tema della vergogna, della depressione e della morte, dell’onnipotenza, della neutralità e della self-disclosure. Quest’ultima questione è affrontata nelle possibili declinazioni in cui si renda opportuno o inevitabile che aspetti personali dell’analista possano essere svelati al paziente. Gli argomenti proposti alla discussione sono supportati da un accurato esame della rassegna della letteratura e da storie cliniche in cui si può cogliere lo spessore del lavoro autoanalitico.
Le autrici si interrogano e ci interrogano ma non offrono apertamente delle risposte, preferiscono piuttosto dischiudere nella mente di chi legge nuovi orizzonti: esplorano i contributi di molti autori – la bibliografia citata è molto ricca – e ampliano il loro discorso attraverso numerosi rimandi nel campo della letteratura e dell’arte, attraverso cui si possono cogliere stimoli e suggestioni.
Corsa e Monterosa, nel sostenere le loro idee, si affidano anche al metodo storico utilizzando biografie e carteggi in un modo illuminante. Inoltre, dagli esempi clinici descritti, traspare la comunicazione profonda che si può realizzare tra paziente e analista quando entrambi si trovano a dimorare in spazi scomodi.
La seconda parte del testo affronta il tema della speranza: se ne rintracciano le orme soprattutto nelle pieghe di alcuni scritti di Freud, Winnicott, Klein, Bion ed altri psicoanalisti contemporanei e vengono percorse le articolazioni tra questo affetto e l’area dell’illusione e della nostalgia. Le autrici si avventurano sul terreno della speranza osservandola da due versanti opposti e allo stesso tempo complementari: come un’estrema e menzognera difesa dall’angoscia di morte o una tensione in cui si incardina la vis conoscitiva dell’uomo. Inoltre, anche su questo terreno, i fili teorici si tessono e dialogano con intesi rimandi clinici.
Si tratta di un libro coraggioso che parla della vita e della morte, che osserva il presente e cerca di scrutare il futuro della psicoanalisi nella ferma convinzione che questa disciplina possieda gli strumenti per lavorare nelle aree più impervie della psiche. Le autrici inoltre non distolgono lo sguardo dal mondo che ci circonda, con le trasformazioni e le vicende, talvolta tragiche, che lo attraversano.
Ha collaborato Andreina Fontana
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