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In memoriam. Sull’autismo schizofrenico visto da Arnaldo Ballerini

22 Set 15

A cura di galzigna

Questo intervento riprende alcuni temi già trattati durante la presentazione del libro di Arnaldo Ballerini, organizzata dalla sezione veneta della Società Italiana di Psichiatria (PSIVE) a Padova.

di Mario Galzigna

L’assetto autistico (AA) – ci ricorda più volte Arnaldo Ballerini nel suo importante lavoro dedicato al tema – si dispiega lungo uno spettro, lungo un continuum, che va dal normale al patologico.

La modalità del ritiro dal mondo, assieme alla "perdita dell’evidenza naturale" (assieme a quella che Minkowski definiva "la perdita del contatto vitale con la realtà"), rappresenta il nucleo focale dell’autismo schizofrenico (AS).

Dietro ed oltre i sintomi positivi, e quindi dietro la produttività delirante ed allucinatoria, vive il nucleo profondo dell’AS, che si manifesta attraverso l’area dei sintomi negativi: individuabili, certamente, a partire da parametri empirico-descrittivi (quelli, ad esempio, indicati da Nancy Andreasen: appiattimento affettivo, alogia, apatia, anedonia, asocialità, deficit di attenzione), ma non riducibile ad essi.

L’AA deve essere anzitutto intuìto nella relazione, e solo in un secondo momento confermato dall’anamnesi e dagli eventuali messaggi del paziente, oltre che dalla verificata vigenza dei parametri empirici sopra ricordati. Intuìto significa, qui, sentito empaticamente: colto come forma, come struttura, come eidos, attraverso l’intuizione eidetica di matrice fenomenologica ed husserliana.

L’AA deve essere sentito come rumore di fondo, dietro ed oltre i suoni che lo coprono e lo segnalano. Scrive Ballerini: "Occorre che la fenomenica psicotica non sia troppo inondata da deliri e da allucinazioni che coprono come suoni il rumore di fondo del modo di essere autistico" (p. 144).

L’Autore, in tutto il suo libro, sembra privilegiare il rumore di fondo rispetto ai suoni, e quindi, in definitiva, i sintomi negativi rispetto a quelli positivi, che sono molto spesso – come ci insegna l’esperienza clinica – non specifici e transnosografici. Ballerini cita infatti favorevolmente il punto di vista di E. Dein (1966), per la quale occorre "chiudere gli occhi" di fronte ai sintomi positivi se si vuole realmente valutare l’eventuale AA del paziente. In definitiva, il "modo di essere propriamente schizofrenico (…) forse è più coglibile proprio in quelle forme in negativo, paucisintomatiche, afferenti ai tipi ebefrenici o simplex della schizofrenia. Forme, occorre dire, che mostrano più allo scoperto, rispetto alle forme deliranti, il nucleo autistico della schizofrenia" (p. 92).

Vale la pena, credo, mettere a fuoco con molta attenzione questo approccio, onde evitare il rischio che il procedimento fenomenologico possa colludere con una terapeutica farmacologica sbrigativa e riduzionista, volta – come spesso accade nella pratica clinica quotidiana – a sopprimere o ad abbassare la produttività delirante e allucinatoria, prima ancora di aver valutato la sua inerenza alla struttura personologica del paziente. Esiste, in altri termini – questo il problema che vorrei sollevare – una relazione tra il plus ed il minus della schizofrenia? Tra la dimensione produttiva dei sintomi e la loro qualità "negativa"? E tale relazione, qualora esista, è in grado di arricchire la comprensione del mondo interno del soggetto da parte del gruppo dei curanti? In quale misura, insomma, "il filo di comprensibilità tra persona e delirio" – illuminato, ad esempio, da Kretschmer nella sua analisi del delirio di rapporto sensitivo (1918) – può arricchire lo spazio della condivisione e della relazione terapeutica? (si veda, su questo, A. Ballerini e M. Rossi Monti, Vergogna e delirio, Bollati Boringhieri, 1990, pp. 134-135).

Alcuni autori, studiando la produttività allucinatoria, hanno fornito un’argomentata risposta affermativa a queste domande: mi limito a menzionare Rod Coleman e la sua partecipazione a gruppi di "uditori di voci" (cfr. Guarire dal male mentale, Manifesto Libri, 2001), ed anche M. Romme e S. Escher (cfr. Accettare le voci, Giuffrè, 1997). Allucinazioni e deliri, come è noto, rimandano, in molti casi, ad orizzonti di senso comprensibili e decifrabili: orizzonti di senso relativi sia alla storia di vita del paziente sia al suo contesto storico, sociale e culturale.

Lo aveva ben compreso, agli albori della clinica psichiatrica moderna, Etienne Dominique Esquirol, molto attento alla stretta interazione tra "commotions politiques" e "commotions morales": già nella sua thèse sulle passioni (1805), infatti, egli mise a fuoco l’influsso del clima politico, sociale e religioso sui contenuti deliranti dei pazienti. Per Esquirol il contesto storico-sociale è, al tempo stesso, una matrice del delirio ed un suo ineludibile orizzonte di senso.

Lo aveva ben compreso e ribadito anche Eugen Bleuler, finemente utilizzato, studiato e criticato da Ballerini. Nella sua famosa monografia del 1911 – laddove il grande clinico tedesco propone per la prima volta due neologismi, schizofrenia eautismo: due parole chiave di tutta la psicopatologia novecentesca – il delirio schizofrenico, indagato in termini psicoanalitici, viene considerato un derivato, una conseguenza, un’articolazione del "pensiero autistico". Commenta Ballerini: il delirio, pur esprimendo, per dirla con Bleuler, "l’incapacità dei malati di fare i conti con la realtà", diventa un "giudizio sul mondo": un "compimento di significato – per quanto abnorme – su di esso, un nuovo trascendersi e quindi rapportarsi intenzionalmente con l’oggetto e con l’aspetto rivelatorio che, nel delirio, da esso promana" (p. 64).

In Bleuler, tuttavia, l’intreccio tra modo di esistenza autistica e delirio è molto stretto: tra i due livelli – che in ogni caso rimangono, a mio parere, sufficientemente differenziati e relativamente autonomi – vige una forte e significativa continuità, che autori come Blankenburg (e lo stesso Ballerini) vedono criticamente. Allo psichiatra tedesco si rimprovera, in sostanza, "una certa commistione tra il piano clinico-sintomatologico e quello dell’intuizione fenomenologica" (p. 89). Il contenuto delle idee deliranti, pro-dotte, potremmo dire, dal pensiero autistico, è costituito da "desideri" e "timori", letti da Bleuler in chiave psicodinamica. Questa prospettiva – pur correndo il rischio di non separare nettamente i "suoni" dal "rumore di fondo" – ha il vantaggio, mi sembra, di ricondurre alle qualità peculiari del mondo interno di ogni singolo paziente l’intera gamma della sua sintomatologia: le manifestazioni produttive assieme alle caratteristiche negative; il plus assieme al minus; i deliri e le allucinazioni assieme alle modalità del ritiro.

Il forte privilegio accordato al profilo negativo del ritiro, al suo "tipo ideale" (colto empaticamente a partire dall’intuizioneeidetica), non corre forse il rischio di riportarci ad un grund, ad un fondo (il cosiddetto nucleo autistico), assolutamente comunead una certa tipologia di pazienti? L’ancoraggio a questo fondo non è forse difficilmente declinabile nei termini di un’analisi personologica individuale e non generica? E questo stesso ancoraggio non è forse, di conseguenza, poco favorevole ad un approccio psicoterapico giocato sulla peculiarità di una storia di vita, sulla singolarità di un vissuto, sulla sua specifica ed irripetibile appartenenza al mondo? Mi limito, per il momento, a porre problematicamente questi interrogativi, attorno ai quali, da qualche tempo, sto lavorando.

In ogni caso, tutta la questione, qui sommariamente indicata, mi sembra aperta. La sua complessità mal sopporterebbe semplificazioni e scorciatoie.

E’ un grande merito di Ballerini averla sollevata ed averci spinto a riflettere, con un libro che stimola ed apre spazi di pensiero e di riflessione clinica, senza mai soffocarli nella morsa di una soffocante ortodossia.

E’ merito di Ballerini, in ogni caso, aver denunciato e definitivamente respinto il Defect, caro a Kraepelin, come cifra esclusiva dei cosiddetti sintomi negativi: averci insegnato a coglierli – in quanto manifestazioni dell’interiorità – utilizzando le risorse dell’intuizione eidetica ed evitando perciò di ridurli ai parametri empirico-descrittivi finora proposti dalla ricerca clinica; evitando, in ultima analisi, "la riduzione di almeno parte della fenomenica schizofrenica a frammenti comportamentali, anzi a gusci comportamentali vuoti che nella loro inconsistente miseria nulla ci dicono sul tipo di vissuto della persona" (p. 115).

L’Autore indirizza il suo sguardo fenomenologico dietro ed oltre i "suoni", dietro ed oltre i sintomi positivi: dietro ed oltre, come afferma l’Amleto shakespeariano, "i modi e gli aspetti della sofferenza". I "modi" e gli "aspetti" (ciò che per il clinico rappresenta l’orizzonte dei sintomi), "sono cose che sembrano" (cito ancora Shakespeare). "Ma io ho qui dentro – continua Amleto – qualcosa che è al di là di ogni mostra: il resto non è che l’ornamento e il vestito del dolore" (the trappings and the suits of woe). Questo "qualcosa che è al di là" sembra davvero uno degli epicentri della ricerca fenomenologica di Ballerini.

L’approccio deficitario kraepeliniano trova il suo Zenit nel tratto della demenzialità. "L’idea di demenza – sostiene Ballerini (citando, tra gli altri, Del Pistoia e Dalle Luche) – è infatti lo spettro che si aggira tuttora nei meandri della diagnosi di schizofrenia": un’idea che si coniuga con la previsione di un esito fatale ed uniforme (uno stato generale di decadimento ed una condizione cronica di disgregazione "simil-demenziale"), preparato da un decorso uniforme ed irreversibile di malattia.

La possibilità di un processo reversibile – già presente nell’approccio dinamico-psicologico bleuleriano e confortata dai più recenti studi di esito – viene validamente sviluppata ed argomentata dall’Autore nel capitolo finale del saggio. Alla fatalità irreversibile del decorso ed ai suoi esiti prevedibili, Ballerini sceglie di contrapporre l’idea di un "percorso": un percorso psicopatologico che può diventare, anche grazie alle risorse di un’adeguata presa in carico farmacologica e psicoterapica, reversibile, e quindi capace di sfociare in una guarigione che non comporta affatto "la guarigione con difetto" (Heilung mit Defekt), ovvero "il quid novum del Defekt post-schizofrenico" previsto da Kraepelin.

Il "percorso psicotico" che sfocia nell’AS diventa, nel tempo, disastrosamente distruttivo dell’intersoggettività, ma anchecostruttivo di un particolare ed esclusivo mondo proprio, di un particolare ed esclusivo "universo personale". Da forme psicotiche aspecifiche, il soggetto transita ad una forma specifica, ad una maniera di essere pervasivamente autistica: un assetto in cui si è consumata una perdita dell’evidenza naturale, una perdita dell’ovvietà della costituzione intersoggettiva, una perdita del contatto vitale con la realtà, una perdita del contatto con la realtà storico-sociale.

Tale percorso – affermazione, questa, di grande portata strategica per il lavoro clinico! – non rappresenta il passaggio dallostadio acuto allo stadio cronico della malattia. E’ invece il passaggio – di durata variabile – da forme psicotiche aspecifiche ad una forma specifica, in cui le perdite sopra ricordate scandiscono l’immersione del soggetto in un’esistenza autistica.

L’AA dello schizofrenico è qualitativamente diverso dall’AA del melanconico. Su questa differenza essenziale si sofferma, in garbato dissenso con le posizioni di Eugenio Borgna, il quarto capitolo ("Dei diversi autismi", pp. 94-110): forse il più sottile ed il più originale di tutto il libro.

Il ritiro, l’anacoresi del soggetto malinconico, trova in una certa alterazione e strutturazione della temporalità il suo "nucleo generatore": un nucleo che "informa di sé", che impregna di senso, che organizza i "fenomeni rilevabili", dei quali, più che la causa, è "la condizione di possibilità" (p. 105). La temporalità malinconica, con la sua ben nota e costitutiva impossibilità del futuro, è irrigidita, immobile, ripiegata sul passato.

Il ritiro autistico del soggetto schizofrenico è invece reso possibile da una diversa costruzione intenzionale della temporalità: nel "tempo vuoto" (Binswanger) dello schizofrenico vi è come un disgregarsi della forma del tempo; la presenza, qui, si configura come un’esistenza fuori dal tempo, senza tempo. Diversamente dalla temporalità della melanconia, ristagnante, immobile ed ancorata al passato, la temporalità, nell’AS, è imperniata su una sorta di "interminabilità" (Cargnello), dove "un adesso segue a un altro adesso". Il Sè schizofrenico, all’opposto del Sè malinconico, centrato sul passato, "è più proteso all’anticipazione e al presentimento" (Kimura Bin), all’interno di una temporalità, aggiunge Ballerini, "che rischia di sprofondare nell’inseguimento di un’identità che sfugge" (p. 106).

La fenomenologia oggettiva, praticata da Ballerini, "tende alla ricerca dell’eidos dei fenomeni osservati e della loro genesi costitutiva" (p. 109).

Praticando in maniera profonda e radicale questo metodo, l’Autore riesce a fornirci un profilo esaustivo delle differenze tra i due principali AA (quello malinconico e quello schizofrenico). "Tutte queste possibili differenze – egli afferma – forse non sono al servizio di una nosografia, che tutti sappiamo essere una mera seppur utile convenzione, ma al servizio del conoscere qualcosa di più delle o della psicosi". E aggiunge significativamente: "Conoscere di più della psicosi non è mai stato un impedimento a conoscere di più di uno psicotico" (p. 109). Quest’ultima folgorante annotazione non è affatto una conclusione: apre, semmai, un campo problematico, ricco di avvenire, che mi sta particolarmente a cuore da qualche tempo e che ha trovato, nel libro di Ballerini, un importante stimolo, al tempo stesso clinico, teorico e filosofico.

Mi interessa proprio questa articolazione, questo passaggio dal categoriale all’empirico, dal concetto all’evento: dal piano trascendentale, illuminato dall’intuizione eidetica, al piano empirico, illuminato dalla conoscenza storico-antropologica del soggetto, oltre che dalla comprensione partecipe dei suoi vissuti, dei suoi agiti, delle sue manifestazioni visibili, dei suoi comportamenti quotidiani, delle sue condotte minute ed osservabili. In altri termini, potremmo dire – con l’occhio rivolto ai problemi della psicopatologia – che la configurazione della forma, della struttura patologica, accessibile attraverso l’intuizione eidetica, deve essere indagata e conosciuta sia con il supporto di una "indagine metodica" (per dirla con Husserl) sulla sua storicità, sulla sua genesi, sia con il ricorso alle necessarie analisi empiriche sull’uomo, di cui si è sempre nutrita la ricerca clinica in psichiatria. Come scriveva Michel Foucault in Le parole e le cose, "la fenomenologia – anche se inizialmente si è delineata attraverso l’antipsicologismo, o piuttosto nella misura stessa in cui, contro questo, ha fatto risorgere il problema dell’a priori e il motivo trascendentale – non ha mai potuto scongiurare l’insidiosa parentela, la vicinanza, a un tempo promettente e minacciosa, con le analisi empiriche sull’uomo" (Rizzoli, 1970, p. 350). L’ "analisi del vissuto", in questa prospettiva, non può non essere "un discorso di natura mista", all’interno del quale l’empirico ed il trascendentale si intersecano; all’interno del quale, per l’appunto, l’uomo ci appare come "un allotropo empirico-trascendentale" (ivi, p. 346).

Questo discorso di natura mista presuppone, a monte, una saldatura di tre differenti percorsi analitici: quello fenomenologico, quello genealogico e quello storico-antropologico. Altrove ho già cercato di mostrare come l’esigenza di tale saldatura sia già presente, in nuce, nell’ultimo Husserl, riletto a partire dalla fenomenologia allargata di Enzo Paci e dalla ricerca genealogica di Michel Foucault.

Per riuscire ad integrare, ai fini di una comprensione radicale del paziente psicotico, il plus ed il minus dell’AS, occorre dunque stringere in un unico cerchio il piano empirico e quello trascendentale. Questo punto di vista, che l’importante lavoro di Ballerini ci permetterà di riformulare con maggior rigore, può forse offrirci la possibilità di ripensare, dereificandoli, i concetti nosografici della psichiatria: si tratta di mettere a fuoco la loro dipendenza dal processo osservativo (e dalle teorie che lo sostengono), la loro appartenenza ad una situazione storico-culturale, il loro rapporto con gli eventi minuti ed osservabili, con gli avvenimenti contingenti, con il terreno istituzionale e con le pratiche che li rendono operanti. A partire dai concetti nosografici visti come "vettori relazionali", sarà possibile individuare le componenti di quello che vorrei definire, con Gilles Deleuze e Félix Guattari, il loro piano d’immanenza (cfr. Che cos’è la filosofia?, Einaudi, 1996, pp. 25-50): un livello pre-categoriale e pre-psichiatrico, che rappresenta l’insieme di tali componenti e la condizione di possibilità della creazione concettuale.

Se Blankenburg, come ci ricorda Ballerini al termine del suo lavoro, vede la presenza dell’AS "là dove un io empirico tenta di supplire alla disfatta della fondazione trascendentale", vorrei proporre un ribaltamento di questa formulazione, osservando che una disfatta non meno rovinosa può essere determinata dalla pretesa cartesiana di un Io puro svincolato dal mondo: di unCogito separato dall’esperienza, dalla sfera della comunicazione intersoggettiva, dal Mit-sein, dall’essere-con, e quindi dalla presenza costitutiva dell’Altro.

Con grande acutezza David Hume, in un passo citato da Ballerini, potrà dire, nel 1737 (cent’anni dopo il Discorso cartesiano), che questa pretesa autosufficienza della fondazione trascendentale rappresenta un vero e proprio "delirio filosofico".

Si "guarisce" da questo delirio – il verbo è usato dal grande empirista inglese – affidandosi alla testimonianza dei sensi ed alla socievolezza del nostro vivere quotidiano. L’Ego puro, sovrano, disincarnato, separato dal mondo, rappresenta dunque, come scriveva Merleau-Ponty, una "follia essenziale della coscienza": una patologia dei pazienti schizofrenici, certamente, ma al tempo stesso anche una malattia endemica, che abita non pochi momenti del pensiero filosofico occidentale.

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