Nel groviglio di opinioni personali sulle “nuove forme” di genitorialità, l’opposizione all’utero in “affitto” emerge come linea di demarcazione tra ciò che è ammissibile e ciò che è eccessivo.
Sfortunatamente si tratta di una “linea Maginot”, che soffre l’aggiramento. Proibire la gravidanza surrogata (un arbitrio) serve solo a incoraggiare l’ipocrisia, gli espedienti e la clandestinità.
Più in generale la censura della possibilità di ovviare a una privazione, per i rischi reali di cui è foriera, ci allontana dal vero problema: la domanda con cui si investe questa possibilità, che determina l’uso che se ne fa.
La discontinuità tra la madre della gravidanza e la madre delle prime cure è presente tutte le volte che la presenza fisica della madre naturale si interrompe drammaticamente e non solo nella gravidanza surrogata.
La morte della madre durante il parto, l’uso dell’incubatrice, il ricorso a un surrogato del seno per l’allattamento (il seno di un altra donna o il biberon) implicano lo stesso problema. La sostituzione parziale o totale della madre dopo il parto può essere necessaria anche in presenza di una sua continuità fisica, quando non è in grado di relazionarsi adeguatamente con il suo bambino e prenderne realmente cura.
Il padre, la tata, i nonni e altre figure dell’ambiente familiare suppliscono regolarmente alla madre, quando è in difficoltà, e in circostanze gravi hanno un ruolo decisivo. Raramente veniamo al mondo in condizioni ottimali, se mai questo accade, per cui pretenderle in partenza, in una specie di eu-psicogenesi, non ci porta lontano.
Tutto ciò nulla toglie al fatto che il pericolo reale di un uso improprio (deresponsabilizzante e narcisistico) dell’utero in prestito esiste. Tuttavia, per comprendere la natura di questo pericolo, dobbiamo evitare di criminalizzare le singole persone e indirizzare la nostra attenzione non a valle, ma a monte della questione.
Il ricorso massiccio e indiscriminato alle gravidanze surrogate e il paventato mercato degli uteri, non mostrerebbero altro che un uso impersonale del corpo per la procreazione è già in atto nei legami tradizionali. Renderebbe manifesto ciò che, silenziosamente, già avviene nel loro interno.
Il progresso scientifico rende possibili o facilita delle eccezioni della vita: un giovane senza gambe può correre alle Olimpiadi, una coppia può procreare senza disporre di un proprio utero. Queste eccezioni e altre, già possibili o immaginabili, espandono il desiderio di vivere al di là anche dei più atroci traumi e limiti della nostra “naturale” esperienza. Tuttavia, se l’eccezione perde la sua sponda nel limite che essa trascende, cercando di costituirsi in modo autocratico, diventa eccezione dalla vita, pretesa di vivere indipendentemente dall’esperienza realmente vissuta.
L’uso del surrogato di una parte del nostro corpo perduta o l’uso del corpo di un’altra persona come surrogato di una funzione a noi preclusa (indispensabile per accedere a un’importante esperienza affettiva) può seguire due destini opposti. Può consentire la riparazione di una limitazione pesante della nostra vita o condurci al rifugio nell’onnipotenza.
Decide la presenza o l’assenza del lutto: le gambe tecnologiche, l’utero sostitutivo, non ci fanno sentire vivi se non elaboriamo il dolore per le gambe di carne perdute, per non aver avuto un figlio all’interno della relazione erotica in cui siamo impegnati, per avere usato un altro corpo per realizzare uno scopo nostro.
Non è colpa della surrogazione se neghiamo il dolore.
Abbiamo spinto Pistorius sulle sue ali di metallo.
Il suo volo si è concluso tragicamente per tutti.
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