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Il corpo topologico

28 Lug 16

A cura di antonello.sciacchi16

 

Mi affretto a postare, prima di andare in vacanza, questo testo, che è la naturale prosecuzione del post precedente sull’oggetto del desiderio: http://www.psychiatryonline.it/node/6351 .
Continuerò a parlare di topologia. La ragione per farlo è ragionevole. Ci sono ragioni esterne alla psicanalisi. Non avendo fini ermeneutici, la topologia offre spontaneamente, magari per caso, interpretazioni dei fatti psichici meno antropomorfe, meno superegoiche, delle psicologiche correnti, ma non meno pertinenti.

Prendiamo il caso dell’interdizione dell’incesto. La topologia non ti dice che la madre ti è interdetta; ti dice che puoi approssimarti – ricorda questo verbo che sottolineo – alla madre quanto vuoi senza toccarla. È un modo positivo per dirlo; è, per così dire, infinitamente positivo e non negativo. Allora, introdurre un po’ di topologia in psicanalisi può essere un buon antidoto al devastante antropomorfismo dei piccoli uomini dentro l’uomo che vi imperversano. Infatti, con la scusa che la psicanalisi rientra tra le scienze umane abbiamo assistito all’invasione nel soggetto psichico di un esercito di omuncoli, i quali in forme più o meno ideali hanno spadroneggiato su di lui: si va dall’Io, l’Es e il Super-Io di Freud, agli archetipi di Jung, al Grande Altro e al soggetto che parla nel soggetto di Lacan; sono tutti avatar dell’homunculus racchiuso nella fiala di Wagner, che Goethe irride nel suo Faust. Se la topologia ci aiuta a far piazza pulita di tutta la paccottiglia omuncolare, sia la benvenuta. Non si spiega l’uomo con il piccolo uomo dentro l’uomo. È tautologico, direbbe Wittgenstein.

Dopo la topologia dell’oggetto parlo di topologia del corpo. Ci sono ragioni interne alla psicanalisi per farlo. La topologia è una recente branca della matematica. Ufficialmente ha solo un secolo di vita, dai Grundzüge der Mengenlehre di F. Hausdorff del 1914, benché le prime intuizioni topologiche risalgano a G.W. Leibniz, che ne parlava come analysis situs, intendendo qualcosa di più simile all’analisi vettoriale. Il termine “topologia” è dovuto a J.B. Listing, che lo propose nel 1847 nei suoi Vorstudien zur Topologie insieme ai primi invarianti topologici. Cosa c’entra la topologia con il corpo?

La topologia se la fa con il concetto di limite, che ora tenterò di rendere comprensibile anche a chi ha la fobia della matematica. Si tratta di comprendere una relazione spaziale di vicinanza. Ma attenzione, non è una relazione elementare; non vale per singoli punti, come può essere la distanza tra due punti nello spazio, misurabile con un regolo, ma vige tra un punto e un insieme di punti e non è necessariamente metrica. (L’adozione dell’assetto non metrico è per parare le eventuali obiezioni umanistiche contro ciò che nelle scienze dure si presenta come quantitativo, oggettivo e meccanico, quindi esecrabile). È in ballo una relazione di prossimità, o di aderenza o di coesività, tra due entità diverse: da una parte i punti, considerati come elementi individuali, e dall’altra gli insiemi, considerati come entità collettive, ma senza quantificare il discorso. Non dovrebbe stupire che se ne parli in una rubrica che tratta di soggetto collettivo. La nozione di limite istituisce una relazione molto generale tra elementi e insiemi, più generale di quella di appartenenza, perché riguarda punti non necessariamente appartenenti all’insieme, per esempio i punti di un suo bordo o della sua frontiera. Allora ecco la definizione puramente qualitativa di punto limite (detto anche punto di accumulazione), dove adotto la definizione transitiva di intorno di un punto nel senso di insieme che contiene un aperto della topologia che contiene il punto:

Si dice che un punto di uno spazio topologico è limite di un insieme se in ogni suo intorno esiste un elemento dell’insieme diverso dal limite. (Si noti la retorica dei quantificatori logici per ogni ed esiste, usuale nella matematica moderna e che incontreremo anche più avanti). La definizione è dovuta a W. Sierpinski, 1956.

È chiaro che, se esistono infiniti intorni diversi, intorno al punto limite si addensano infiniti elementi. La nozione di “sempre diverso” è qualitativa; soppianta la nozione classica quantitativa di infinito come “sempre più grande” o “sempre più piccolo”. La topologia dà una versione qualitativa (debole) della nozione metrica (forte) di distanza. Chiaramente, la topologia dell’oggetto osmico non può avvalersi di regoli rigidi o teodoliti a raggi laser per individuare il situs dell’odore. Un odore si annusa; se c’è, aderisce al naso; per gli odori vige la topologia dei recettori, valida anche per molte interazioni tra membrane cellulari, in particolare per il sistema immunitario. (L’ispirazione per questa topologia mi è venuta dalle Kontaktschranken o “barriere di contatto”, introdotte da Freud nel suo Progetto per una psicologia del 1895). Si dice anche che un punto limite di un insieme è vicino quanto si vuole all’insieme, nel senso che si approssima – ecco il verbo “edipico” già sottolineato – quanto si vuole ai suoi punti, senza coincidere con nessuno di essi all’interno di intorni sempre più piccoli.

La nozione di approssimazione è molto moderna; gli antichi, non concependo la variabilità, non sapevano approssimare. Per loro una misura o era esatta e ben determinata (ah, il determinismo!) o non era misura. Invece, approssimandosi con incertezza al certo si può fare del buon lavoro scientifico. Direi che l’approssimazione è una pratica feconda dell’infinito, già sotto l’egida della scienza. Dissento qui dalla tesi formulata da Alexandre Koyré nel 1948, secondo cui il passaggio dal pensiero antico al moderno sarebbe stata la transizione dal mondo del pressappoco all’universo della precisione. Il soggetto scientifico sa approssimare, il prescientifico no; uno a zero per il primo.

Intuitivamente, zoomando sul punto limite, si vedono sempre nuovi punti dell’insieme diversi da lui; cioè un punto limite non è un punto isolato o staccato dall’insieme, anche quando non appartiene all’insieme. Tipico punto limite è il punto di frontiera, che è un punto limite sia per l’insieme dato sia per il suo complementare, cioè per l’insieme dei punti che non appartengono all’insieme dato, anche se non appartiene a entrambi. La frontiera di un insieme si definisce allora proprio così: l’insieme dei punti i cui intorni contengono sia punti dell’insieme sia punti dell’insieme complementare. In altri termini, la frontiera di un insieme è la parte comune a due bordi: il bordo dell’insieme e il bordo del suo insieme complementare, dove per bordo di un insieme si intende l’insieme dei punti che appartengono all’insieme ma non sono interni all’insieme (vedi avanti la definizione topologica di punto interno).

Nel nostro caso la relazione tra punto limite e insieme porge un modello di rapporto tra soggetto individuale e soggetto collettivo: più approfondisci l’analisi dell’individuale, mettendo a fuoco il singolo, più vengono alla luce elementi collettivi. Il singolo è il limite del collettivo, si può dire. Lacan lo diceva in modo filosofico: “L’individuale non è altro che il soggetto del collettivo” (cfr. J. Lacan, Le temps logique et l’assertion de certitude anticipée. Un nouveau sophisme (1945), in Id., Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 213 nota). Concepire il soggetto come ciò che sta al limite, o sulla soglia, mi sembra, oltre che elegante, un approccio teorico promettente. Correla due nozioni che di solito non si integrano a sufficienza nella cultura attuale: quella di singolare, o esattamente uno, e quella di particolare, che può contenere molti elementi. Allora si dividono le competenze: quella letterario-filosofica si appropria del singolare, per esempio per via narrativa; quella scientifica del particolare, per esempio per via teorematica. (Cfr. il post Universale, singolare, particolare: http://www.psychiatryonline.it/node/6188.) Ma è una divisione artificiosa che crea dannose barriere tra le “due culture” e genera difficoltà alla comprensione non ideologica del collettivo. La precomprensione difficile da azzerare è quella di collettivo per identificazione al leader (concezione anche freudiana).

Nel post precedente ho definito la topologia su un insieme come famiglia di suoi sottoinsiemi, detta famiglia degli aperti, che soddisfano gli assiomi dell’unione e dell’intersezione finita, che sono ancora aperte. Qui aggiungo che la famiglia di aperti formalizza la coesione dello spazio topologico. Più la famiglia è ricca di aperti, più la topologia è fine, più il risultante spazio topologico è frammentato, meno è coeso. Lo spazio più coeso è dove gli unici aperti sono l’insieme vuoto e lo spazio stesso (topologia indiscreta); lo spazio meno coeso è dove tutti i sottoinsiemi sono aperti (topologia discreta). Queste topologie sono banali, nel senso che nell’indiscreta tutti i punti sono limite e nella discreta non esistono punti limite.

Di un insieme cui appartengano tutti i propri punti limite si dice che è un chiuso della topologia (W. Sierpinski, 1956). Dualmente, di un insieme in cui tutti i suoi punti siano punti limite si dice che è denso in sé. Un insieme chiuso e denso in sé si dice perfetto. Si dimostra che un chiuso è il complementare di un aperto. Di conseguenza si può definire la topologia come famiglia di chiusi, che soddisfano gli assiomi duali degli aperti: l’intersezione di chiusi è chiusa, l’unione finita di chiusi è chiusa. L’intero spazio e l’insieme vuoto appartengono a entrambe le famiglie, perché sono contemporaneamente chiusi e aperti. Si dicono connessi gli spazi topologici dove i soli insiemi aperti e chiusi (o clopen) sono l’intero spazio e l’insieme vuoto. Intuitivamente, quelli connessi sono spazi che non si possono spaccare in due aperti che sono anche chiusi.

I punti limite caratterizzano i morfismi topologici, cioè le trasformazioni che trasformano uno spazio topologici nell’altro (eventualmente in sé stesso) senza introdurre discontinuità, cioè senza “divaricare” punti vicini, che appartengono allo stesso aperto, portandoli in aperti disgiunti. Puoi avvicinarti quanto vuoi a un punto dello spazio trasformato, avvicinandoti quanto è possibile al punto da trasformare. I morfismi topologici sono trasformazioni continue; portano punti vicini di uno spazio in punti vicini di un altro spazio; conservano cioè la vicinanza topologica. Le trasformazioni continue sono vincolate: non solo trasformano i punti di uno spazio nei punti corrispondenti dell’altro, ma conservano le loro prossimità. Intuitivamente, le trasformazioni continue di uno spazio in se stesso non frammentano lo spazio più di quanto non sia già frammentato. La definizione locale di trasformazione continua dice che, dato un punto dello spazio trasformato, per ogni suo intorno esiste almeno un intorno del punto da trasformare in quello, i cui punti sono trasformati nei punti di quell’intorno. Più in generale, si dice che una trasformazione è continua se per ogni aperto dello spazio trasformato, detto codominio della trasformazione, esiste almeno un aperto dello spazio da trasformare, detto dominio della trasformazione, che si trasforma in quell’aperto.

Se poi la trasformazione continua è anche biunivoca, cioè non introduce sovrapposizioni tra punti (o suture), ed è continua anche la trasformazione in senso inverso, si dice che è un omeomorfismo. L’omeomorfismo è una relazione di equivalenza; suddivide la classe degli spazi topologici in classi di spazi equivalenti. Quasi tutti sanno che il pallone da calcio è topologicamente equivalente a quello da rugby e che la tazzina da caffè equivale alla ciambella, ma non al pallone per via del manico.

C’è un’ovvia generalizzazione dei punti limite valida per insiemi infiniti (gli unici che contano d’ora in poi), che potrebbe avere significato psicanalitico. Si chiamano punti di condensazione e si caratterizzano perché un punto di condensazione di un insieme è tale che ogni suo intorno contiene anche infiniti punti dell’insieme. In psicanalisi si potrebbero chiamare punti fallici. Sarebbero i punti di godimento corporeo delle zone erogene e si potrebbero distinguere in punti fallici maschili, che appartengono all’insieme, e punti fallici femminili, che non appartengono all’insieme. Ciò non esclude la possibilità che esistano corpi bisessuati, che possiedono punti fallici sia maschili (che appartengono loro) sia femminili (che non appartengono loro). Gli insiemi chiusi sono certamente maschili, gli aperti sono femminili senza escludere la possibilità che siano in parte maschili. Forse non esiste la femminilità pura e semplice. Forse per questa ragione Freud non propose il simmetrico dell’Edipo femminile come Jung con il complesso di Elettra.

Il modello di rapporto sessuale offerto dalla topologia non è di semplice complementarità tra maschile e femminile; un punto fallico maschile di un corpo maschile può diventare punto fallico del corpo femminile, senza passare di “proprietà” al corpo femminile; analogamente un punto fallico maschile di un corpo femminile diventa punto fallico femminile di un corpo maschile, senza appartenergli necessariamente. I punti fallici femminili di corpi maschili e/o femminili funzionano da contorno alle diverse modalità di rapporto, mettendo in risalto il lato femminile del rapporto, eventualmente omosessuale. Per la topologia, l’omosessualità è originariamente un evento femminile, nel senso che il punto fallico maschile di un partner diventa femminile per l’altro. (Da discutere!).

Introducendo l’infinito, si problematizza la nozione di corpo. Affronto il problema, assumendo che in psicanalisi si abbia sempre a che fare con corpi infiniti. Un’assunzione inattuale e repellente, ma tant’è. Se si vuole passare alla psicanalisi scientifica, bisogna attraversare questo guado. In ogni caso, l’ipotesi di corpo infinito è necessaria per prendere le distanze dalla biologia, senza negarla, come è di moda in un certo lacanismo deteriore. Giusto perché si tratta di infinito topologico, si ammette la continuità tra fisico e morale, tante volte affermata da Darwin. Mi limito a ricordare quanto afferma Darwin nelle prime pagine del III capitolo dell’Origine dell’uomo e la scelta sessuale (1871): “The following proposition seems to me in a high degree probable – namely, that any animal whatever, endowed with well-marked social instincts, would inevitably acquire a moral sense or conscience, as soon as its intellectual powers had become as well developed, or nearly as well developed, as in man”.
L’infinito è difficile da trattare anche per i matematici, non solo per gli animali, che pure lo trattano istintivamente (localmente). Di poco più facile da affrontare è un particolare infinito topologico, che si può trattare in termini finiti. È l’infinito compatto. Cosa si intende?

È una nozione sottile. Intuendone l’importanza, Lacan ha cercato di affrontarla nella prima seduta del Seminario XX, dove parla delle donne di Don Giovanni che, per quanto numerose – in Spagna sono 1003 –, il cavaliere di Siviglia non può non affrontarle se non una alla volta. Il tentativo topologico di Lacan, assolutamente dilettantesco e improprio, è da dimenticare, non dimenticando però di sviluppare in modo appropriato l’abbozzo di intuizione che contiene.
La compattezza si può definire in due modi equivalenti, duali l’uno dell’altro: per via di unioni o per via di intersezioni. Val la pena battere entrambe le vie.
Si dice che una famiglia di aperti è una copertura aperta di un insieme se l’unione degli aperti lo contiene. Allora, se in ogni copertura aperta di uno spazio esiste una sottofamiglia finita di aperti che è già copertura, allora si dice che lo spazio è compatto.
Dualmente, se in ogni famiglia di chiusi con intersezione vuota (cioè nella famiglia non esistono elementi comuni a tutta la famiglia) esiste una sottofamiglia finita che ha già intersezione vuota, allora si dice che lo spazio è compatto.

Intuitivamente, gli insiemi compatti assomigliano agli insiemi chiusi e lo sono effettivamente negli spazi separati di Hausdorff, cioè negli spazi dove, dati due punti dello spazio, esistono due aperti disgiunti (a intersezione vuota), uno che contiene l’uno, l’altro che contiene l’altro punto. Negli spazi euclidei (che sono separati) gli insiemi compatti sono anche insiemi limitati, per esempio sono compatti gli intervalli della retta reale con estremi inclusi, del tipo [0,1], zero e uno compresi.

Come la connessione, la compattezza è un invariante topologico nel senso che, se uno spazio è compatto, la sua applicazione continua su un altro spazio garantisce che anche questo secondo spazio sia compatto (trasmissione della compattezza e della connessione).

La compattezza consente di trattare il corpo con un insieme finito di significanti. Anche se l’inconscio è strutturato come un linguaggio, come suppone Lacan e, quindi, è un insieme infinito di significanti, come suppone Matte Blanco, lo si può analizzare mettendo di volta in volta a fuoco un numero finito di essi. La compattezza del corpo è, dunque, il presupposto per l’analisi finita dell’infinito. Finita – preciso – non terminabile. Terminabile e finito non sono nozioni matematicamente equivalenti: una successione di termini, se termina, è finita, cioè finisce con l’ultimo termine; ma se è finita non si può dire che termina al termine n-esimo; potrebbe terminare a termine n+k-esimo con k indeterminato ed essere praticamente interminabile (infinito potenziale). La terminabilità è una proprietà sfuggente, direbbe Brouwer
Se il corpo è compatto, allora è praticamente chiuso; allora la frontiera esiste e gli appartiene per definizione. Arrivati sin qui, la proposta topologica che avanzo non è mia né molto originale. Risale all’“io-pelle” di Didier Anzieu:
 

il soggetto è la frontiera del corpo,

appunto la sua pelle o, con una metafora meno antropomorfa, la sua membrana cellulare.

A differenza di Anzieu, che formula considerazioni biologiche solo per analogia, posso ora dare una caratterizzazione non immaginaria del soggetto come frontiera del corpo. Purtroppo, devo dare anche qualche definizione topologica in più, ma ne vale la pena, dato che allarga il campo del pensabile.
 

Il soggetto è un insieme raro.

Cosa vuol dire insieme raro? Non vuol dire che il soggetto è un raro talismano magico; vuol più prosaicamente dire che la sua chiusura non ha punti interni. Cosa vuol dire chiusura? La chiusura di un insieme è l’intersezione di tutti i chiusi che lo contengono, cioè è il più piccolo insieme chiuso che lo contiene per intero. In pratica, la chiusura di un insieme è l’insieme di tutti i punti che sono a contatto (o non esterni) all’insieme. Cosa vuol dire punto interno a un insieme? Vuol dire che sta dentro all’insieme, cioè esiste un aperto che contiene quel punto ed è contenuto nell’insieme. Quindi non basta che appartenga all’insieme, perché si possa dire che un punto è interno all’insieme; devono appartenere all’insieme anche suoi punti vicini. Date queste definizioni, un soggetto è un insieme vuoto di punti interni. (Ovviamente, l’insieme vuoto è banalmente soggettivo).
La frontiera di un insieme (di un corpo) è necessariamente un insieme chiuso (dimostrarlo!), quindi coincide con la propria chiusura. Ma una frontiera è necessariamente un insieme raro (dimostrarlo!), cioè non possiede punti interni, quindi la frontiera di un corpo è un soggetto. Può essere interessante notare che un aperto non vuoto non è un soggetto, essendo costituito solo da punti interni (dimostrarlo!). Resta da vedere se esistono soggetti non alla frontiera di un corpo. Sarebbero soggetti zombie, come le frontiere di insiemi non compatti (che non sono corpi) o come il caso notevole dell’insieme di Cantor, che si ottiene rimuovendo dall’intervallo reale chiuso [0,1] l’intervallo medio aperto ]1/3, 2/3[ e successivamente gli intervalli medi aperti degli intervalli così ottenuti. L’insieme di Cantor, detto anche polvere di Cantor, è chiuso (è addirittura perfetto), ma non ha punti interni. Di quale corpo è la pelle un insieme tanto pulverulento (in realtà totalmente disconnesso)? Essendo compatto, è lui stesso il bordo del proprio corpo, che è solo un bordo, un corpo schizofrenico? Oppure è il bordo di un corpo non compatto, un corpo collettivo? Problemi di ricerca.

Ritroviamo per questa via rigorosamente topologica sì qualcosa della topologistica lacaniana dei tagli delle superfici, in quanto i tagli producono frontiere, quindi soggetti, ma ritroviamo soprattutto un aggancio poetico al sublime “ultimo orizzonte”, di cui parla Leopardi nell’idillio “L’infinito”. Il soggetto è l’ultimo orizzonte del corpo. Come commenta Anna Li Vigni sul domenicale del “Sole 24 ore” n. 202 del 24 luglio 2016, p. 27: “Leopardi predilige [rispetto al “celeste confine” della prima stesura] la profondità semantica della parola “orizzonte”, capace di rappresentare per il pensiero sia un preciso limite ostativo [topologico] sia un’apertura spalancata verso infiniti spazi”. (L’articolo della Li Vigni andrebbe postato in appendice al capitolo sull’oggetto scopico del post precedente.)

Ribadisco che l’approccio topologico batte in breccia ogni considerazione antropomorfa. Il soggetto non ha punti interni, quindi non si possono supporre piccoli uomini dentro l’uomo. L’Es di Freud, gli archetipi di Jung, il soggetto nel soggetto di Lacan, semplicemente non esistono. Esistono effetti soggettivi che sono effetti alla frontiera del corpo. Alla frontiera dei corpi si stabiliscono le interazioni tra corpi che costituiscono il soggetto collettivo.
Non sono un giurista e mi muovo male tra codici e pandette. Tuttavia, grazie alla mia formazione topologica, una caratteristica giuridica mi è ben chiara. Una cosa è il diritto e altra cosa il diritto costituzionale; il primo, pubblico o privato, civile o penale che sia, è sempre individuale: regola il comportamento del singolo, anche quando il singolo è una società per azioni; il secondo, fissa i limiti entro cui il precedente ha effetto (avvicinandosi ai limiti senza toccarli, come nel caso dell’interdizione dell’incesto) ed è perciò originariamente collettivo; il diritto costituzionale non stabilisce né commina pene al singolo, anzi ne fa decadere alcune, come fu il caso clamoroso di Cesare Beccaria che 250 anni fa pubblicò “Dei delitti e delle pene” (1766), proponendo l’abolizione della pena di morte. (Lo psicanalista farà bene a leggere e meditare il capitolo IV sull’interpretazione delle leggi).

Arrivati a questo punto, per proseguire il discorso topologico, c’è tutto da inventare. Come pensare le interazioni “superficiali” tra corpi, cioè le interazioni soggettive alla loro superficie? Come distribuire collettivamente la soggettività individuale in quella collettiva delle “membrane corporee”? Come concepire gli “affetti”? Affetto è un termine in voga nella psichiatria e nella psicanalisi tedesche, meno in quella francese. L’affetto, spinozianamente inteso come azione di un corpo sull’altro con conseguente reazione, richiede una topologia. Potrebbe essere, a livello minimale, una tassellatura dello spazio: il caso più semplice è quello di un pavimento a piastrelle esagonali o quadrate. Molto suggestive in proposito sono le tassellature di Penrose, in generale aperiodiche, con due tipi di tasselli: aquilone e freccia (maschile e femminile?), a simmetria pentagonale (o della sezione aurea). Eccone un esempio:

In generale, lo spazio può essere tassellato da automi cellulari, automi che comunicano per contatto reciproco tra le membrane e modificano il proprio stato interno in funzione dello stato degli automi vicini (ancora topologia). Chi conosce il gioco VITA di Conway sa cosa intendo. Intendo soprattutto l’imprevedibilità con cui si passa da semplici interazioni locali a complesse e incalcolabili configurazioni globali. Le formiche, in generale gli insetti eusociali (api, termiti, afidi), costruiscono le loro colonie su principi locali, il riconoscimento di particolari odori (feromoni) sul corpo delle compagne; non conoscono dittatori che li comandano; l’ape regina non governa; deve solo deporre uova. Ma le loro colonie risultano altamente organizzate.
Siamo ai primordi del discorso scientifico in psicanalisi. Dove sarebbe l’inconscio individuale in questo modello? Rispondo con una congettura: l’inconscio è nello stato degli automi topologicamente vicini e nelle loro interazioni con il mio automa, in larga misura fuori dalla portata cognitiva del singolo automa (è il desiderio dell’altro, direbbe Lacan). La rimozione originaria? Nello stato degli automi indefinitamente lontani, che influenzano quelli vicini. Nel complesso esiste solo un vasto inconscio collettivo. La Nachträglichkeit? Nel tempo della trasmissione del segnale interattivo da un automa all’altro. Insomma, con la topologia si può fare un po’ di teoria scientifica della psicanalisi, senza ricorrere a pulsioni, cause, conflitti, censure e rimozioni, ma rimanendo nell’assetto epistemico voluto da Freud, che istituì l’inconscio, la rimozione originaria e la Nachträglichkeit. Ma qui si parla di automi e si pensa subito a un discorso automatico e meccanico. È la vecchia deformazione umanistica che aborre il meccanicismo, che abolirebbe la volontà e il libero arbitrio. Faccio solo osservare che le tassellature di Penrose sono tante quante i numeri reali, cioè non numerabili, quindi essenzialmente indeterministiche. Si può passare dall’una all’altra configurazione con la massima libertà.

La topologia può scendere nel concreto della psicopatologia.
Innanzitutto, una considerazione sulla sessualità. Il sesso non è una caratteristica del soggetto ma del corpo. L’anatomia è il destino. Il detto di Freud va preso con un granellino di sale. Il transessualismo è un delirio. Il soggetto può pensarsi di sesso diverso da quello del suo corpo, ma il suo resta un pensiero. Per Freud il maschio si pensa in termini di castrazione, la femmina di invidia del pene. Ma sia l’una si l’altra sono fantasmagorie soggettive, che hanno solo realtà psichica… nevrotica, magari molto pesante.

La seconda considerazione riguarda l’anoressia. L’unione numerabile di insiemi rari forma un insieme cosiddetto magro. L’errore dell’anoressia, come del transessuale, è di scambiare il soggetto con il corpo. È il soggetto a essere magro (senza niente dentro), non il corpo. L’errore può essere difficile da correggere con strumentazione non adatta, come quella a disposizione delle psicoterapie antropomorfe.
La terza considerazione riguarda i rapporti tra desiderio, corpo e oggetto. Come gioca l’infinito? A un prossimo post.

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