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Anteprima nuovo numero de GLI ARGONAUTI: No, due volte no.

1 Nov 16

Di Barbara.collevecchio
NDR Articolo pubblicato nel numero 150 – 2016 de GLI ARGONAUTI – Carocci Editore

«L'esperienza interiore è il modo in cui si afferma la negazione radicale che non ha                                          più nulla da negare».
                                               G. Bataille
 
                                               «Le non est une représentation qui reste acte, et un acte qui est déjà représentation»
                                               J. Guillaumin
 
                                               “E nulla è, se non ciò che non è”
                                               W. Shakespeare, Macbeth
 
                                               “Le temps ou Ça se passe n'est pas le temps ou Ça se signifie”

                                                A. Green
 
 
Perché due volte no?
L’argomento di questo lavoro ha più origini: alcuni scritti psicoanalitici, le argomentazioni di un filosofo del linguaggio e, non ultimo, le riflessioni su momenti  particolarmente difficili incontrati nel lavoro analitico.
Nella forma ripete il titolo di uno scritto di Pontalis sulla Reazione Terapeutica Negativa, un fenomeno clinico complesso e spesso imprevisto del nostro lavoro – il paradosso di una «relazione di non relazione» (Green) – che porta l’autore ad interrogarsi in profondità su questa impasse, ribaltandone in un certo senso l’interpretazione tradizionale  e riconducendo il senso di questa forma di negativismo ad una dinamica connessa con una dimensione molto fragile della soggettivazione. Per l’autore, infatti, la re-azione negativa si colloca in quell’area in cui il processo analitico tocca una sorta di limite originario dell’esperienza che, con le parole di Bataille, si può identificare in una «negazione radicale» che segna l’orlo di una interiorità del paziente sentita troppo esposta ai fantasmi esproprianti della parola dell’analista a cui si oppone; facendo, cioè, di questa negazione radicale   il gesto di un’appropriazione originaria in una dimensione relazionale caratterizzata dall’attualizzarsi di modalità identitarie confusive.
Sul senso di questa affermazione negativa – manifestazione di un transfert paradossale (Anzieu) – mi soffermerò più estesamente in un secondo momento, limitandomi per adesso a sottolineare con Pontalis come il funzionamento implicato nella relazione della coppia analitica sia un agire simmetrico che ha come esito una grave impasse, se non la rottura della relazione.
Il problema è come trovare una possibile via di uscita e rendere transitabile, trasformabile, questo blocco della relazione analitica che rischia di arenarsi nell’area di un funzionamento narcisistico distruttivo. Come intendere, cioè, ciò che di vitale, di necessario, in questo atto è paradossalmente transfert. Quale risposta da parte dell’analista può sciogliere questo transfert per inversione che ha necessariamente, e sottolineo necessariamente, i tratti del negativo?
La riflessione sulla Reazione Terapeutica Negativa, questa esperienza limite dell’analizzabilità, fa emergere tutta la complessità della relazione analitica vista nella prospettiva dell’appropriazione soggettiva dell’esperienza; complessità che, a livelli e gradi diversi, in qualche momento significativo del processo, emerge e rende  particolarmente problematica la funzione analitica.
Sto proponendo di guardare a quanto si presenta in negativo nella relazione analitica come atto-messaggero di un movimento, di una istanza differenziante necessaria di una soggettività nascente che si attualizza nell’inter-azione con l’oggetto; inter-azione paradossale in cui è da rintracciare, nella situazione regressiva transferale, la matrice dei processi di simbolizzazione nel contesto di una nuova origine storicizzante che implica processi di slegamento e di di-sidentificazione quale condizione di una ri-definizione o persino definizione identitaria narcisistica  nucleare.
Qui intendo, quindi, riproporre la necessità del no, di questo atto/rappresentazione, come lo definisce Guillaumin, in quanto gesto necessario, fondativo, condizione primaria del funzionamento psichico e dell’attività di simbolizzazione in generale, collegandomi, in particolare, alle riflessioni freudiane espresse nel lavoro La Negazione e, più estesamente, alle considerazioni metapsicologiche a cui Green ha dato il nome di lavoro del negativo, uno degli assi su cui fonderà l’elaborazione dei nuovi fondamenti per la clinica contemporanea.
Una necessità che P. Aulagnier ripropone come “diritto al segreto” in quanto condizione essenziale per pensare i propri pensieri.
La riflessione sulla negazione, sui «molti modi di dire no» (Balsamo) che influenzano  e caratterizzano i livelli diversi del funzionamento psichico, nella clinica si intreccia, necessariamente, con la riflessione sulla genesi del pensiero e, più in generale, con le condizioni necessarie alla possibilità di pensare un proprio pensiero.
L’interrogazione sui limiti dell’analizzabilità resa necessaria dagli insuccessi del dispositivo analitico classico nella clinica delle strutture non nevrotiche – la Reazione Terapeutica Negativa è uno di questi eventi particolarmente drammatici – ha portato all’elaborazione di nuovi paradigmi ispirati al modello dell’atto, più idonei del modello del sogno a rendere intelligibili i funzionamenti mentali arcaici e pre-verbali.
Questo tipo di funzionamento essenzialmente identificabile con i movimenti pulsionali – seconda topica freudiana – trova nell’oggetto, nella risposta dell’oggetto, il medium, il supporto necessario di una possibile simbolizzazione primaria. Simbolizzazione che consiste in una sorta di amalgama, materia primaria dello psichico (Freud), iscrizione primaria dell’esperienza «multisensoriale e multisensuale» in cui si condensano confusamente «le percezioni interne ed esterne, il proprio sentito e le risposte complesse e talvolta enigmatiche dell'altro, pulsioni e complessità dei movimenti pulsionali di sé e dell’altro» (Roussillon).
A questo livello di funzionamento non vi è differenziazione interno/esterno, corpo/mente, così come manca la dimensione temporale, essendovi solo attività procedurale; in una parola solo attività esperienziale dell’Io/corpo-in-azione.
Cosa ne è del linguaggio in questo contesto in cui prevale l’agire? Come ascoltarlo e usarlo per rendere pensabile, simbolizzabile, usabile ai fini di una possibile soggettivazione? Come farsi oggetto malleabile (Roussillon) per essere usato come  supporto in cui il paziente possa leggere nei suoi atti quanto di sé non aveva potuto essere rappresentato?
É questo un nodo problematico, il luogo di uno dei possibili gravi fraintendimenti nell’uso della parola che possono far collassare la situazione analizzante. Qui la parola, infatti, perde ogni valenza simbolica, si pietrifica, si oppone ad ogni possibilità di ascolto metaforico, ad ogni possibile interpretazione dal momento che il funzionamento psichico nell’urgenza della situazione transferale si declina o torna a declinarsi sul piano della presenza non tollerando lo scarto che il piano della rappresentazione implica.  È certo questa una situazione limite ma che rende ancora più urgente e necessaria la «cura della parola» a partire da una prospettiva metapsicologica affinché quella analitica non venga confusa con una «conversazione comune» e si esponga in tal modo a ripetere la situazione traumatica originaria.
Il lavoro del negativo, nella proposta di A. Green, porta un contributo considerevole  di intelligibilità e di trattabilità di queste aree perturbate di una “follia primaria” (Green), caratterizzate da transfert paradossali (Anzieu). 
Due volte “no” non vuole indicare, quindi, un atto linguistico che si auto-annulla, la doppia negazione, la negazione della negazione hegeliana, ma il movimento di una doppia cesura nel luogo in cui l’interpsichico è ancora confuso con l’intrapsichico, come atto necessario, fondativo, della differenziazione tra interno ed esterno, me e non-me; limiti necessari perché possa possa aprirsi lo spazio potenziale per una appropriazione soggettiva consapevole.
Luogo paradossale, come seppe vedere Winnicott, vera matrice originaria del pensiero che nella rappresentazione verbale, nella parola, attinge a quel medium necessario, quel supporto che rende leggibili, pensabili, differenziabili il dentro e il fuori e la capacità riflessiva per pensare i processi rappresentativi e pulsionali che insistono nel proprio dentro. Luogo fondante che il no separa e articola, luogo di traduzione, di manifestazione di ciò che la parola porta non potendosi dire. Mi riferisco ai processi inconsci, primari, pulsionali di cui la parola è transfert, movimenti dei quali per la sua stessa natura rappresentativa porta la traccia dell’assenza.
Il NO, questo atto linguistico, mediante il quale «il pensiero si affranca dai limiti della rimozione e si arricchisce di contenuti che gli sono indispensabili per poter funzionare» (Freud)  segna, infatti, una soglia, uno spartiacque in cui «la funzione intellettuale si scinde qui dal processo affettivo». Ma, aggiunge Freud, se essa introduce alla dimensione simbolica della parola, se «è già una revoca della rimozione, non (è) certo però un’accettazione del rimosso».
Il No si inscrive, quindi, in questo taglio originario della rimozione che rende possibile la riflessività e il passaggio, con l’accesso al linguaggio, ai processi secondari. Tuttavia, aggiunge Freud, in un passaggio importante degli scritti sulla Metapsicologia, «il legame con le rappresentazioni verbali non coincide necessariamente ancora con la presa di coscienza». L’accesso al linguaggio, di per sé, non garantisce, quindi, il divenire cosciente, essendo necessario il legame con la rappresentazione di cosa, la rappresentazione inconscia, «cioè l’investimento delle tracce mnestiche derivate dall’oggetto» (Freud).
Forse non occorrerebbe sottolineare che il lavoro analitico trova proprio in questo scarto, in questo taglio, la sua ragione e, al tempo stesso, in quanto talking cure, pone il nodo problematico e complesso della parola come il luogo del manifesto. La talking cure, infatti, come annota Fedida, in quanto cura mediante la parola richiede, come suo fondamento, di una cura della parola in quanto luogo in cui si attualizzano le tracce idiomatiche dell’infans.
La specificità dell’ascolto analitico sta nella possibilità di rintracciare ciò che nella parola si manifesta occultandosi, assentandosi: i derivati dell’inconscio. La verbalizzazione, infatti, porta «la traccia di ciò che non è dicibile»: «la traccia dei derivati pulsionali che presiedono ai processi di legame e di slegamento» (Green).
Non possiamo, quindi, eludere la domanda sul linguaggio, sulla sua problematicità e necessità del suo uso nella pratica clinica.
In Du signe au discours, Psychanalyse et théories du langage, A. Green, lo psicoanalista che forse ha approfondito maggiormente  il problema, riferisce un episodio emblematico per introdurre il problema del linguaggio nella talking cure. L’episodio è l’occasione di una serie di riflessioni chiarificanti che a partire dal linguaggio gettano luce sullo stesso dispositivo analitico.
Si tratta dell’ incontro con il collega Laurent Danon-Boileau, linguista e psicoanalista, di riconosciuta competenza in entrambi i saperi. La domanda che Green pose – a questa che mi è parsa la figura di un doppio, – la domanda decisiva, si riferiva  alla questione dell'uso possibile nella pratica analitica non tanto o non solo della parola ma delle teorie linguistiche; una domanda che contestualizza il problema della parola nella pratica clinica, là dove questo incontro tra saperi si configura come una dimensione particolarmente problematica e persino rischiosa per lo psicoanalista.
È del rischio nell’uso di questi saperi, comprese le teorie psicoanalitiche, che si incarnano nella soggettività dell'analista al lavoro, che  qui intendo parlare.
Parto dalle argomentazioni sviluppate da Green che parte da lontano per mostrare come il problema non stia di per sé nelle teorie, e/o non solo nelle teorie del linguaggio, ma di come queste possono influenzare se non proprio decidere l’ascolto dell’analista nella sua pratica.
Il rischio, la pericolosità, è la deriva della funzione dell’analista per la possibile saturazione del suo funzionamento preconscio da parte dei derivati del suo inconscio con la conseguente ostruzione dell’ascolto di ciò che di imprevisto, di altro, di inconscio, la parola del paziente è transfert. Per usare un’analogia non del tutto adeguata per la differente gravità delle conseguenze, mi ricorda l’errore in cui a volte si incorre nelle traduzioni da una lingua all’altra con i cosiddetti «falsi amici», che, come si sa, ha la spiacevole conseguenza di far prendere lucciole per lanterne.
La parola, il manifesto è in analisi un falso amico che può attrarre l’analista in un gioco di maschere identificatorie dall’esito infausto e non solo per la funzione analitica.
Il problema posto è centrale e riguarda la capacità di ascolto dell’analista,  la sua funzione interpretativa/trasformativa, la capacità di porsi come medium, “oggetto malleabile”, oggetto/soggetto usabile dal paziente per attingere ai processi di simbolizzazione primari e secondari (Roussillon). Processi entrambi – primari e secondari – necessari all’attività interpretativa e all’appropriazione soggettiva di aree non adeguatamente appropriate perché rimosse, ma soprattutto di aree traumatiche precoci esperite e mai simbolizzate che, sotto la spinta della coazione a ripetere, si attualizzano nella relazione transferale/controtransferale con le modalità “regressive”, o meglio, primarie, dell’atto.
Riprendiamo l'interrogativo di Green: «In seduta, hai l'impressione di chiarire quello che intendi usando le teorie linguistiche? Ci pensi qualche volta?» Risposta: «mai». E, dopo un po': «Salvo con i bambini, ma dopo, per ricostruire quello che è accaduto».
L'episodio pone questioni non facilmente dirimibili percorrendo scorciatoie; per esempio, tracciando confini disciplinari: la linguistica da una parte, la psicoanalisi dall'altra. Non che questi confini non esistano, ma il punto  importante è da cercare altrove.
Traendo le conclusioni di questo lavoro sul Linguaggio all'interno della teoria generale della rappresentazione, qualche rigo dopo, scrive: «Linguistica e psicoanalisi si incrociano senza incontrarsi». Frase lapidaria, ma il contesto del discorso chiarisce l'intento di Green: «il problema del linguaggio per lo psicoanalista va collocato – secondo la metapsicologia freudiana –  all'interno di una teoria generale della rappresentazione».
Occorre dire che in questo frammento di dialogo si condensa un intreccio complesso di storie personali, conoscitive e formative che, in parte, risentono di una dimensione transferale sulle stesse teorie, espressione di processi di identificazione spesso inconsci.
Il problema del linguaggio, infatti, rappresenta un caso specifico della complessità del dispositivo stesso in cui si incarna la funzione analitica, dispositivo di cui è parte fondamentale il setting interno dell'analista.
La domanda di Green ha anche un’origine storicamente polemica nei confronti di Lacan, suo ex-maestro, a differenza del quale intende necessario riproporre le ragioni degli affetti e dell’eterogeneità dei modi del rappresentare di cui il significante linguistico é parte significativa ma non esclusiva. Il riferimento polemico, quindi, è la teoria del significante linguistico che, giudicata da Green una deriva riduzionistica, è  stata motivo del suo distacco dal Maestro.
Il rischio che, a suo avviso, questa migrazione/applicazione del paradigma linguistico nella pratica analitica a causa della scarsa o nulla attenzione e, comunque, del tutto secondaria alla dimensione affettiva ed emozionale, è quello dell'intellettualizzazione, una delle difese che maggiormente minacciano la possibilità di fare un’esperienza creativa del proprio mondo interno e, con esso, di quella dimensione identitaria differenziata/ante che si pone come il luogo di un possibile incontro fecondo con l’altro dentro/fuori.
Un rischio indicato implicitamente dallo stesso Freud nel lavoro sulla Negazione, come ha osservato Fachinelli che, commentando il dibattito di Lacan con il filosofo Hyppolite a proposito di questo lavoro freudiano, rintracciava «nella rescissione del legame tra la radice pulsionale e la globalità del funzionamento (psichico), in cui consiste il nucleo vitale della psicoanalisi» il luogo elettivo di un processo di alienazione.
Nel commento di Fachinelli veniva sottolieato il rischio di una deriva che, favorendo il mantenimento dei meccanismi di scissione tra processi intellettivi e dimensione affettivo-pulsionale, falsifica i processi di soggettivazione eludendo, rimuovendo – in qualche modo – la dimensione della storia personale. Una pratica più di assoggettamento, di falsificazione che di emancipazione; il risultato di una collusione sadomasochistica, di una perversione del processo analitico che non farebbe altro che ripetere la struttura difensiva eretta a difesa dell’area traumatica forclusa, impensata e denegata. Non mi sembra ridondante sottolineare come questa evenienza possa avere  a che fare, per quanto riguarda l’analista, con un’identificazione narcisistica con una qualche teoria di elezione o con l’aderire al significato letterale, semantico,  manifesto della comunicazione del paziente, rinunciando così all’ascolto simbolico-metaforizzante, decostruttivo dei processi secondari, necessario per rintracciare i movimenti libidico-pulsionali che tramano le narrazioni nel qui ed ora.
La necessità di ridare agli affetti, al pulsionale, lo statuto di moti in cerca di una forma nell'articolazione dello psichico si ripropone come un tema centrale in tutta l'opera di Green, ponendo il problema del setting, come luogo in cui, attraverso processi regredienti e progredienti, decostruttivi e costruttivi, di slegamento e di ri-legame, si producono quelle trasformazioni dell'attività inconscia che attingono all'attività simbolica (linguaggio).
La domanda di Green, pertanto, se da un lato mira a sottolineare la discontinuità tra le  pratiche –  il linguaggio è l'oggetto di studio del linguista, mentre per lo psicoanalista è il tramite, il mezzo per attingere all’inconscio – ripropone la  vera questione psicoanalitica: di che stoffa è fatta la parola perché possa essere il tramite per l’inconscio?
Cosa accade in seduta? Che ne è della parola in seduta, di questa parole couchée…adressée à un destinataire dérobé? (Green): è questa la domanda a cui non possiamo sottrarci.
Soffermiamoci sulla risposta dell'interlocutore.
Dopo aver posto il problema dell’uso della teoria (sia essa linguistica o psicoanalitica) come un sapere esposto necessariamente all’imprevedibile (inconscio) della dimensione transferale e controtransferale, possiamo osservare come viene delineata una sequenza del farsi del senso: i due tempi dell'elaborazione dell'interpretazione analitica; il senso di ciò che accade  può essere inteso soltanto in un secondo tempo, ed è in questo secondo tempo, après-coup, che le teorie (comprese quelle del liguaggio) possono essere usate per ricostruire l'accaduto.
Con il riferimento al bambino, l’infans, si allude, quindi, ad un funzionamento paradigmatico, alle forme espressive pre-verbali, al registro delle azioni con cui il bambino comunica, delineando la genealogia della funzione simbolizzante che trova nella parola «il punto più alto di una accumulazione silenziosa e implicita» (Merlau-Ponty).
Detta nel linguaggio psicoanalitico, questa «accumulazione silenziosa e implicita» che caratterizza la simbolizzazione primaria dell'infans ha luogo nell'inconscio (rimosso e non): il luogo dinamico di pratiche vitali di cui il linguaggio è l'orlo, la soglia del dicibile, che non annulla i modi espressivo-gestuali-corporei dell'infans ma li traduce conservandoli nel differimento che caratterizza la simbolizzazione secondaria.
«L’originalità del lavoro analitico», afferma Green, «è nel modo in cui il discorso viene slegato e ri-legato… nel setting il linguaggio parla del corpo e del mondo, ma ne parla in un altro modo…(il setting) slega la lingua per far emergere il suo altrove». «L’analista spezza la coerenza del discorso manifesto per liberare la rappresentazione prigioniera del linguaggio» (Green) 
È questo il lavoro necessario perché possa esserci trasformazione e appropriazione soggettiva dell'esperienza.
Sottratto al circuito della ripetizione, dell'azione e della retro-azione concreta, corporea, il soggetto si scopre nel gioco della differenza, essendo la differenza strutturalmente inscritta nella stessa struttura del linguaggio, come ampiamente argomenta Paolo Virno nel Saggio sulla Negazione.
 
Le parole: un transito.
Un transito in cui vibrano le tracce delle molteplici esperienze con l’oggetto, a  partire dall'oggetto primario, il primo medium di infiniti incontri che nel tempo ci hanno consentito di avere un mondo, il nostro mondo.
Ecco lo stacco che la parola segna con la sua pratica definitoria facendoci emergere da quell'attività anonima e polimorfa dell'infans.
Il «rooting reflex» che Spitz aveva rintracciato in modo suggestivo come lo schema d'azione per dire il «sì e il no» nel rapporto dell'infans col seno, è sprofondato nell'arcaico, ma nelle metamorfosi con cui si scandisce l'infinita distanza da quel mondo senza nome, si è fatto gesto-parola e segna ancora l'intervallo tra il «no» e il «si» in cui la vita si tiene sapendosi di essere proprio quella vita che noi siamo.
La parola emerge nel contesto pratico di relazioni affettivo-pulsionali complesse di cui porta l'impronta, ma di questo grumo indifferenziato ha la capacità di definire, per così dire, la partirura, distinguendo il dentro e il fuori, il me dal non me, la cosa dal nome, dando luogo a quello spazio transizionale in cui il soggetto può avvenire riconoscendosi nella sua separatezza,  che è la pre-condizione per potersi dire Io.
Il «sì» e il «no» non stanno più solo fuori, nella risposta dell'altro, ma stanno anche dentro come possibilità non già decisa una volta per tutte, ma da decidere ogni volta.
La parola, «questa piega del sociale», come dice Sini, dicendo le cose per tutti, ci espone allo sguardo dell’estraneo e al gioco infinito del riconoscimento.
Gioco crudele, direbbe Artaud, in cui ogni riconoscimento porta il taglio con cui ogni rappresentazione è in sé gravida del segno del non, del negativo, ritagliata com'è nella nostalgia di un tutto che sempre si sottrae ad ogni presa riflessiva.
Destino dell'Homo Sapiens, suggerisce Virno, che fa del segno «non», “delle sue prerogative e dei suoi usi” la via di accesso ad una indagine antropologica attenta a farci cogliere l'attualità dell'insensatezza cui può esporci il “modo di stare al mondo del primate”.
Dopo aver ampiamente dimostrato come la negazione sia specifica del linguaggio verbale – e della mente logica che con esso emerge -, Virno così sintetizza la portata di questa soglia antropologica:
«Il ‘non’, è un commutatore: applica le relazioni negativo-differenziali tra le parole agli eventi e agli affetti cui le parole si riferiscono; fa valere in un singolo giudizio empirico la non-corrispondenza strutturale tra segni e realtà. Proprio perché converte il modo di (non) essere della lingua in una particolare risorsa comunicativa, la negazione è un asse portante della natura umana. Differire l'appagamento del desiderio, riplasmare le pulsioni, contraddire l'ordine vigente, scandire il tempo in non più e non ancora: tutto questo non sarebbe possibile se la negazione primaria della lingua non si incarnasse in un simbolo a se stante».
Non riprenderò tutte le argomentazioni con cui Virno ci guida a riconoscere le strategie di vita che il liguaggio in quanto dispositivo soggettivante rende possibili, ma anche le sue trappole. Il linguaggio, infatti, non è un medium indifferente ma un dispositivo complesso in cui si stratificano le narrazioni necessarie a quello che Freud ha indicato il Kultural Arbeit, quelle «forme di vita» che si depositano stratificate nel nostro apparato per pensarci e pensare il mondo in cui viviamo.
Il potere invisibile di cui ci parla Sini permea profondamente le forme identitarie.
Devo in parte a loro le suggestioni che hanno ispirato questo scritto.
L'uomo, questo essere della mediazione, scrive la sua auto-bio-grafia tra due cesure, tra due no: il no con cui si stacca da quell'agire indifferenziato di corpi-in-azione, da quell'essere agito da meccanismi neuronali, inconsci, luogo di un transindividuale  originario che precede la costituzione del soggetto, di una socialità primaria che si caratterizza, quindi, per l'assenza della capacità riflessiva che insiste nel linguaggio verbale, e il no che segna, ri-disegna il volto del simile in cui riconoscersi distinguendosi nel contesto di una socialità saputa, secondaria, effetto della retroflessione della pratica linguistica.
«La sfera pubblica», prosegue Virno, «nicchia ecologica delle nostre azioni, è il risultato instabile di una lacerazione e di una sutura, della prima non meno che della seconda». Questa seconda negazione «non ripristina la primitiva sintonia prelinguistica. Sempre di nuovo eluso o neutralizzato, il rischio del non-riconoscimento è però inscritto irreversibilmente nell'interazione sociale».
Come non rinvenire in questa narrazione l'eco del doppio limite in cui, mosse dal gioco tra Eros e Thanatos, tra separazioni e identificazioni, si inscrivono le avventure  e i rischi della soggettivazione di cui facciamo esperienza in analisi? Soggettivazione resa possibile dall’ «apparato di linguaggio» che in forza del lavoro del negativo presiede «alla stessa formazione di ogni singolo segno» e, quindi, di rappresentare ciò che non è nella presenza?
«La lingua», dice Virno, «è la dimora del non-essere». «La negatività concerne innanzi tutto ciò che il linguaggio è, solo in modo derivato ciò che il linguggio esprime».
La parola non è l'oggetto che nomina e, al tempo stesso, dicendo che A non è B, ne afferma l'esistenza come differenti.
Ma qui sono anche le seduzioni, le trappole, che la magia del linguaggio pone all'uomo, il viandante da sempre sulla via di Tebe: non sapere, non poter stare nella differenza, nel sogno di identificare l'immagine con la cosa e il Sé con l’immagine preso dalla vertigine di una fantasia di possesso onnipotente.
Sono le trappole linguistiche di una mente che si vuole solo logica, trappole linguistiche che noi dobbiamo riaprire affinché, come scrive Fedida, tra le connessioni delle lastre del selciato ci sia ancora passaggio per una lucertola e «la parola continui ad andare verso ciò che non è».
No, due volte no”, come ho già detto all’inizio di questo lavoro, è anche il titolo che J.B. Pontalis scelse nell'ottobre del 1979 per una conferenza sulla Reazione Terapeutica Negativa. Un saggio che, a distanza di anni, mantiene interamente il senso di un'interrogazione radicale sui limiti dell'analizzabilità.
Tralascio le complesse articolazioni con cui Pontalis sviluppa questo tema: spettro che sullo sfondo perturba sempre il nostro lavoro.
Qui mi preme sottolineare come l'autore rintracci questo venir meno della relazione analitica, il punto di arresto o di rottura del processo, in un collasso della funzione del linguaggio: non più medium che «apre al respiro», che istituisce uno spazio di transito di un'appropriazione soggettivante, il sito di una situazione analizzante – «sito del linguaggio» per Fedida – ma scontro tra parole-cose, tra azioni e re-azioni , tra forze che si oppongono per essere.
È «la svalutazione del linguaggio, cioè del medium dell'analisi, svalutazione rabbiosa che può arrivare fino all’odio…".
In questa che è detta «re-azione negativa», dizione pressoché assente nelle opere di Freud, prosegue Pontalis, «sono le parole, ma nella loro stessa letteralità, nella loro immobilità di tatuaggio, di marchi sul corpo, a essere iperinvestite con un'intensità uguale a questo rifiuto del linguaggio in ciò che lascia presentire di spostamento e di creazione di senso».
Qui, ci avverte l'autore, siamo nel registro dell'agire (Agieren): «anche il nostro controtransfert si annuncia in forma di Agieren: soltanto il nostro corpo si esprime in una tensione diffusa, mentre l'immobilità psichica si raddoppia in una paralisi del corso del pensiero. L'attenzione non fluttua più: si focalizza, fulminata, colpita come da interdetto». 
«Il fare no’»dice Pontalis – «precede il dire no – ma talvolta giunge troppo tardi. E il no deve precedere il ’».
Il ‘no’ in queste situazioni regressive forse arriva troppo tardi. Arriva dall'immemoriale, noi diciamo, precipita nel qui ed ora col passo della re-azione.  «Il paziente che agisce la ripetizione spesso sembra far corpo con ciò che egli dice; la sua parola è univoca…si indirizza all’analista in persona su cui mira ad agire, ad attivarlo» (Donnet).
Come, dove intendere questa parola-cosa che non si lascia intendere se non nella forma di corpo-in azione (Sini), di “tatuaggio identitario”, che, non tollerando “il lavoro del negativo” inerente al pensiero e al linguaggio, si ri-chiude su se stessa suturando quella fessura che orla ogni dire, annullando ogni movimento symballico, ogni rinvio all'altro, ogni apertura all' a-venire dell'esperienza?
Ma, soprattutto, cosa marca, de-marca questo ‘no’ che si mostra, si presenta come ‘corpo-in-azione’?
«Le parole nella loro letteralità», dice Pontalis, «non rinviano ad un possibile, ad una assenza propria di ogni dire, ma sono esse stesse un fare, fanno corpo con la cosa e con il soggetto, si pietrificano per essere, opponendosi. Paradossi al di qua del principio del piacere in cui il ‘No’ si scrive in maiuscolo perchè metonimia del nome proprio, carne  di un'identità negativa perché costruita sull’impronta di un rifiuto che non è stato mai possibile simbolizzare».
Esperienza limite, certo, il cui senso di un'affermazione pura va indovinato oltre il sordo-mutismo in cui si blocca il movimento della parola ridivenuta atto perché  ripiegata ad istoriare una pelle per una carne ancora troppo esposta vuoi alla violenza di un troppo di presenza che all’ altrettanta violenza di un abbandono. È questo corpo vivente che nella parola-cosa si presenta ri-traendosi nella chiusura narcisistica in cui ognuno viene rinviato a se stesso nell’urgenza improrogabile di un’affermazione nucleare narcisistico-identitaria. È questo movimento del distrutto/trovato che bisogna intendere, allora, affinché la situazione torni ad essere situazione analizzante e possa tramutarsi nel luogo di una nuova origine, di una nuova esperienza di sé. Compito difficile per l’analista convocato in persona a dar senso a questo odio che lo investe in forza di un transfert per inversione; a questa violenza distruttiva che tende ad azzerare la sua capacità di ascolto fluttuante non può sottrarsi essendo convocato a dar prova, nel qui ed ora, di attualità, di verità, di un trauma vissuto e non simbolizzato. (Vedi l’odio nel controtrasfert di Winnicott). É l’analista in persona, dice Winnicott, che deve smentire l’attualizzazione dell’esperienza traumatica; egli «non interpreta il desiderio del paziente, ma si fa oggetto per ricostruire/costruire l’esperienza soggettiva non soggettivata che infiltra il presente percettivo del soggetto» (Roussillon). É nel suo sentire contro-transferale che la parola interpretativa riprende, in après-coup, la capacità di essere messaggera, transfert, di movimenti pulsionali intradotti di un infans a cui l’oggetto/soggetto primario non ha dato risposta o ha dato una risposta difettosa. Nella coazione a ripetere allora può essere colta controtransferalmente anche la speranza di una nuova esperienza. Roussillon, per queste aree, individua nel concetto di “oggetto malleabile” la posizione necessaria dell’analista perché possa essere il medium di una possibile simbolizzazione; una simbolizzazione primaria per essere poi secondarizzata e usata ricostruttivamente nel racconto di eventi della storia personale non trascritti o trascritti nelle impronte impresse nelle identificazioni negative. L’aiuto necessario – continua Roussillon – è quello di differenziare attraverso la re-esternalizzazione (sull’analista) ciò che appartiene al soggetto e ciò che è dipeso dalle peculiarità dell’ambiente originario, favorendo la possibilità di pensare come e perché ha interiorizzato le risposte idiomatiche dell’ambiente primario (l’area delle identificazioni narcisistiche).
Il “No” traghetta questo nodo drammatico di uno spazio soggettivo negato, distrutto.
É nella trasformazione/costruzione/ricostruzione di questo spazio relazionale che la parola, allora, torna ad essere movimento, kìnesis, tramite, medium, “traghetto” per l'inconscio, in una parola: transfert.
Il suo movimento non è più nell'essere eco di un linguaggio anonimo, del linguaggio di tutti e di nessuno, ma nel rinvio-a, a partire da, dall'intendersi  inteso parlante: soggetto, cioè, di un dire che, col dire, dice insieme la speranza di essere inteso e di potersi intendere.
È l'apertura di questo spazio per l'assente che la coppia freudiana (Bollas) si propone di realizzare come il luogo in cui rendere pensabile il manifesto (Urribarri), luogo in cui il linguaggio può tornare ad essere quel gesto vitale di un soggetto incarnato nel divenuto/divenire delle sue pratiche di vita con cui stare in presenza dell’altro, del mondo, sottraendosi ad un destino distruttivo dominato dalla coazione a ripetere identificazioni alienanti  con una parola che non è mai stata la sua.
Sono queste alcune riflessioni di Virno che hanno incrociato fecondamente queste riflessioni sulla pratica analitica.
Delle raffinate argomentazioni con cui l'autore ricostruisce le strategie logico-linguistiche del pensiero alfabetico che procede “congiungendo e separando”, ne ho fatto una sorta di “diplopia” per interrogare la nostra pratica e, nel fare questo, ho omesso molte questioni importanti su cui Virno ci invita a riflettere: la/le grammatiche di forme di vita di cui il linguaggio è transfert civilizzatore e, non ultima, accanto alla capacità di porre in essere la creatività dell'uomo, la deriva falsificante e distruttrice che in esso ugualmente insiste.
L'uomo, questo risolutore di enigmi, permane trasmutando, destinato a dar vita a quell’essere da sempre soggetto al bivio. Wo es war soll ich werden, annuncia Freud. Un monito che ci destina – noi analisti –  ad essere i testimoni nella nostra pratica di un sapere sempre imperfetto, destinati a muoverci tra logos e ananché , tra Eros e Thanatos, affinché sia ancora possibile dire/sognare una parola propria.

 
 
 
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