“Dicibile e indicibile in psicoanalisi”[1]
S. Freud, Consigli al medico per il trattamento psicanalitico, 1912
Ci vuole orecchio,
Enzo Jannacci, dottore in medicina e cantautore.
Tuttavia preferisco mantenere il titolo attuale perché mi consente di non presentarmi nelle vesti dell’avvocato che davanti al giudice pretende promuovere la propria causa smontando il discorso dell’altro. Nella disputata quaestio tra psicoanalisi e psicoterapia il discorso da abbattere sarebbe che la psicanalisi è medicina, addirittura che ogni colloquio è terapeutico, quindi da normare secondo le regole della medicina. Ritengo folle contestare questa “verità” che ormai da più di un secolo è diventata riconosciuta prassi sociale, accettata dall’ordine costituito e popolarmente condivisa. Ritengo più interessante e più fecondo parlare d’altro, per esempio della mia esperienza clinica, avendo di mira la scientificità della “cura” analitica. Mi sento, infatti, nella posizione del chimico che, per dimostrare la scientificità della propria pratica, non ha bisogno di contestare quella dell’alchimista o dell’omeopata.
Non ci possono essere dubbi che, pur così formulato, il mio titolo sia a pieno titolo freudiano. Nella sua recente relazione al Convegno del 26 Novembre 2016 su “La cura relazionale – Turbolenze socioculturali e risonanze cliniche”, organizzato dalla Rivista Gli Argonauti, Fausto Petrella sostiene che “l'azione terapeutica in psicoanalisi” (questo è il bel titolo della sua relazione) esordisce all’interno del modello medico di trattamento. Non lo discuto ma neppure dico che debba necessariamente concludersi all’interno dello stesso modello e con le modalità terapeutiche della medicina. Per esempio, una psicoanalisi condotta a buon fine può non arrivare alla restituzione dello stato pre-morboso, in particolare pre-nevrotico. E ciò sarebbe in conformità al secondo principio della termodinamica, secondo cui i processi naturali si sviluppano “in modo tale che un ritorno del mondo a uno stato precedentemente occupato sia impossibile (Max Planck).”
Benché tardivamente, nel III capitolo di Costruzioni in analisi (1937), lo stesso Freud lo ammette. “La via che parte dalla costruzione [dall’intuizione] dell’analista, dovrebbe arrivare al ricordo dell’analizzato; non sempre giunge a tanto. Abbastanza spesso non si riesce a portare il paziente a ricordare il rimosso. Al suo posto la corretta direzione dell’analisi lo conduce al sicuro convincimento della verità della costruzione, la quale produce lo stesso effetto terapeutico del ricordo recuperato”.[2]
Ma è un’eccezione. Tutta l’argomentazione che nella Questione dell’analisi laica (1926) Freud sviluppa davanti all’Imparziale (un funzionario ministeriale), si svolge, infatti, all’interno del modello medico di terapia, si badi bene, anche se la cura analitica è condotta da non medici. Per Freud la psicoanalisi è in linea di principio una pratica medica, anche se di fatto gli operatori della psicanalisi possono essere non medici. Per Freud tutti gli psicanalisti, siano essi medici o non medici, devono portare l’analizzato [sic] allo stato precedente alla rimozione, rinforzando l’Io difronte alle pretese pulsionali, cioè devono operare in modo medico, per togliere la causa patogena e restituire lo stadio pre-morboso. Anche quando nel poscritto allo stesso testo aggiunge la richiesta che la “terapia non uccida la scienza”, Freud parla da medico. Come in seguito egli stesso riconobbe, la sua argomentazione fu un buco nell’acqua. Oggi in Italia lo psicoanalista non medico può essere accusato di esercizio abusivo della professione di psicologo (leggi “medico”), se fa psicoanalisi a pagamento senza essere iscritto all’albo degli psicoterapeuti. Era questo che voleva Freud, quando spese la propria autorità per difendere dall’equivalente accusa Th. Reik?
“Reik fu assolto a Vienna; in Italia gli psicoanalisti free lance sono condannati. Senza entrare in polemica con i fautori dell’ordine e degli ordini, ci basta riconoscere il dato strutturale permanente tra ieri e oggi. In effetti, quello che ci interessa prendere in considerazione è che medicina e psicoterapia, in quanto trattamenti di restaurazione dello stato fisiologico – in senso ampio – vanno considerate come pratiche essenzialmente equivalenti”.[3]
Ma non equivalenti alla psicanalisi. Il meno che si possa dire è che la difesa di Freud fu intrinsecamente debole, per non dire autolesionista. Forse difese lo psicanalista Reik; certo non difese la psicanalisi. Per dirla tutta, Freud non difese la psicoanalisi dall’usucapione medicale, già avanzata nel 1927 e oggi definitiva. Oggi la psicoanalisi, definitivamente medicalizzata, è arrivata al capolinea; non evolve più – non abbiamo più le grandi scissioni eretiche, come l’ultima lacaniana vecchia ormai di mezzo secolo (1964). La psicoanalisi non evolve, perché langue ingabbiata nella medicina. La medicina a sua volta non evolve, essendo una tecnica acquisita da millenni. In verità, la medicina non ha cambiato uno iota del proprio statuto ontologico, che è rimasto come ai tempi di Ippocrate, nonostante l’imponente e pesante bardatura tecnologica attualmente acquisita. Diagnosi, prognosi e terapia si fanno tuttora come duemila e cinquecento anni fa sulla base del principio di causalità. Che Ippocrate formula così: “Dobbiamo in verità ritenere che la causa di ogni singola malattia consista di quei fattori che, se presenti, ne determinano l’insorgere necessariamente e in un modo ben preciso, se invece trasmutano in un’altra combin azione, ne consentono la cessazione”.[4]
Come salvare Freud dal suo ippocraticismo, che pone le cause pulsionali alla base dell’accadere psichico in nome di un “imperioso bisogno di causalità”,[5] ossia del bisogno di certezze metafisiche?[6] Da più di vent’anni la mia proposta è tanto semplice quanto impopolare (incomprensibile?), perché mette in secondo piano l’ossessione delle certezze eziologiche e si rivolge alle congetture scientifiche. Dal 1991 tento di sganciare la cura analitica dal discorso medico agganciandola al discorso scientifico; pretendo darle uno statuto di “cura” diverso da quello di “terapia”, meno deterministico ma più effettivo.
Il rischio minore associato alla mia operazione è di passare per antifreudiano, “di essere cattivo con Freud”, come mi sono sentito dire da un filosofo (non dico chi, non dico in che occasione). Ma si sa: medicina e filosofia hanno molte affinità. Le due discipline hanno in comune parecchi principi, a cominciare da quello di causa ed effetto. Obiettare alla medicina significa obiettare alla filosofia dominante. (La filosofia è sempre l’ancella del discorso del padrone, mi insegnava il mio maestro). Perciò obiettare alla medicina è pericoloso: si va incontro alla proscrizione. Ma si dimentica volentieri che la scienza moderna ha deviato dalla medicina, lasciando decadere proprio il principio di ragion sufficiente, sin dai tempi in cui Galilei si divertiva a far rotolare palline di bronzo lungo piani inclinati e batteva i tempi di percorrenza con una bacchetta, come gli aveva insegnato il padre musicista. Galilei era indifferente alle cause del moto; si interessava solo alla relazione matematica tra spazio e tempo.
La fallacia freudiana è oltre modo diffusa. La condivide anche il mio vicino di casa che lavora al CNR. In tutte le librerie i libri di medicina sono negli scaffali accanto ai libri di scienza. Così, come molti ancora oggi, Freud riteneva che la medicina fosse una scienza. Perché? perché, come per Aristotele, per lui scienza significava scire per causas. Poiché la medicina studia le cause delle malattie e le cura con antidoti, che sono delle controcause, per il discorso corrente la medicina è una scienza. Invece, no; la medicina è una tecnica, forse è un’arte (téchne in greco), perché applica ritrovati escogitati altrove da altre scienze: fisica, chimica, biologia. Manca alla medicina la dimensione congetturale e sperimentale della scienza galileiana (Freud non cita mai Galilei); le manca cioè la dimensione dell’ipotesi e della conseguente verifica o confutazione; così la medicina mostra un assetto epistemico più da dottrina (giuridica?[7]) che da scienza. Oggi i medici, in quanto funzionari della sanità, sono tenuti a rispettare le direttive ministeriali. Non possono sperimentare sulla pelle del malato, per fortuna. “L’esperimento è malcerto”,[8] diceva Ippocrate nel suo primo aforisma, sconsigliando al medico di sperimentare sul paziente nuove terapie a rischio. Primum non nocere, dice l’adagio. L’applicazione dei principi consolidati è in medicina tassativa, anche quando sono il portato di tradizioni consolidate ma non verificate. La ricetta medica è una “prescrizione”, cioè detta legge. La medicina è a suo modo rigorosa; ma non basta il rigore per farne una scienza. Anche l’astrologia è rigorosa. È al rigore dell’astrologia che aspira la psicanalisi medica?
Poi come potrebbe essere rigorosa l’azione terapeutica in psicanalisi, di cui parla Petrella, se è un’azione all’interno di una relazione? La lezione di questo grande della psicanalisi è freudiana classica, quindi discutibile anche da parte di freudiani che amano Freud come il sottoscritto: l’azione terapeutica è rigorosa quando l’analista è “non trasparente” (undurchsichtig, in tedesco), cioè funziona da oggetto causa del desiderio, direbbe il lacaniano, mentre l’analizzato è trasparente, cioè funziona da analizzante, direbbe lo stesso lacaniano.
Nulla da eccepire. La mia riformulazione del freudismo, tuttavia, è un po’ diversa da quella ortodossa di Petrella, pur non cessando di essere freudiana. Il mio punto debole è che utilizzo un Freud poco gettonato dalle scuole freudiane ortodosse (comprese le scuole lacaniane che ho attraversato) e si capisce facilmente perché. Una cura scientificamente psicanalitica sarebbe un tentativo terapeutico, quindi non sarebbe una terapia in senso ippocratico stretto perché rischiosa. Gli ortodossi non sono propensi al rischio. Come può un tentativo “malcerto” diventare una pratica ortodossa, se l’ortodossia pretende costituirsi all’insegna della certezza?
Therapeutischer Versuch, “tentativo terapeutico”, è un hapax nel corpus freudiano. Freud lo usa nel Disagio nella civiltà (1930) a proposito dell’etica.[9] L’etica sarebbe una prova collettiva, mirante a riequilibrare – “curare” – i rapporti conflittuali tra soggetto individuale e soggetto collettivo. I nostri mali provengono per lo più dall’altro e principalmente da quell’altro che noi stessi siamo per noi. La relazione del soggetto con l’altro e con se stesso si chiama etica. Allora, quasi alla Cartesio, che parlava di morale par provision, perché non esiste la natura umana precostituita in modo definitivo, Freud propone l’etica come tentativo terapeutico mirante a modificare, attraverso il “lavoro della civiltà” (Kulturarbeit),[10] gli assurdi e stupidi comandamenti superegoici, come finora la civiltà stessa non è riuscita a fare. Il tentativo, però, può riuscire o può fallire.
Insomma, Freud non prospetta nessuna consolazione (keiner Trost), ma anche nessuna disperazione (keine Verzweiflung). Per lui si tratta di lavorare alla civiltà. Così – questo è il mio assunto freudiano – anche la cura analitica sarebbe il tentativo terapeutico di riportare alla civiltà del soggetto collettivo il soggetto individuale grazie al lavoro psicanalitico (die psychoanalytische Arbeit). Sarebbe un tentativo del tutto sperimentale, basato su ipotesi di lavoro prima che su principi ideali di adattamento. Mira a trovare, rischiando di non trovarla, la norma soggettiva, prima ancora di applicare qualche norma oggettiva, universalmente codificata.
Se è vero che la cura psicoanalitica rientra nei tentativi etici di ristrutturazione della civiltà, è praticamente certo che non si possano professionalizzare più di tanto coloro che li sperimentano. La Direzione della cura di cui parla Lacan nel 1958 non è certamente una pratica direttiva sull’altra persona, collettivamente convalidata. Se è vero che al suo esordio la direzione della cura consiste nel consegnare all’analizzante – è lui, non l’analista che deve lavorare – la regola analitica fondamentale (alles mitzuteilen, “comunicare tutto”), più avanti è giusto chiedersi come tale direzione si configuri, se non esistono codici prestabiliti da qualche psicopatologia generale e propugnati da qualche scuola di psicanalisi (che, tra parentesi, ha tutti gli interessi a vendere cara la cura analitica in formato medico, vero Petrella?). Allora – cito il mio maestro e concludo – Lacan ci spalanca un campo di operatività etica dove:
1. La parola ha tutti i poteri, i poteri speciali della cura.
2. Si è ben lungi di regola dal dirigere il soggetto verso la parola piena o verso il discorso coerente, pur lasciandolo libero di provarci.
3. Questa libertà è quella che il soggetto tollera peggio.
4. La domanda è propriamente ciò che è messo tra parentesi nell’analisi, essendo escluso che l’analista ne soddisfi alcuna.
5. Nessun ostacolo è posto alla confessione del desiderio, verso cui il soggetto è diretto e addirittura [la]canalizzato.
6. In ultima analisi la resistenza a tale confessione non dipende da altro che dall’incompatibilità del desiderio con la parola.[11]
Insomma, non c’è molto di medico nella cura analitica. Caro Petrella, sarai d’accordo anche tu. Anche la commissione per il premio Nobel opinerebbe come me. Quale medico porgerebbe l’orecchio all’incompatibilità del desiderio con la parola? Quale medico accetterebbe tanto masochisticamente di porsi in posizione di oggetto, affinché il soggetto elabori la propria posizione nei confronti del desiderio? In psicoanalisi non c’è analizzato (Analysierte) perché c’è analizzante; non c’è conformismo deontologico, perché c’è innovazione etica, che tenta di governare la condotta morale con la parola ben detta; non c’è terapia perché c’è cura (in tedesco Sorge).
Con un gioco di parole, che sarebbe piaciuto al mio maestro e che si potrebbe sfruttare per qualche pertinente crittografia mnemonica, in psicoanalisi lo psicanalista è solo “di dire direttore”. Lo psicanalista si prende cura del dire, cioè delle parole dell’analizzante, forse più della sua persona e dei connessi vissuti tramite quel factotum mercantile che è l’empatia, che è al fondo una paranoia di segno rovesciato. Talvolta l’analista cura, aprendogli nuovi orizzonti di vita, anche il soggetto che parla. È questa la sola guarigione possibile in psicoanalisi. Ma è raro che lo psicanalista arrivi a tanto come scopo prefissato; se ci riesce, è per lo più per sbaglio, non per comandamento, come pretende il filosofo di simpatie kantiane Sloterdijk che, come farebbe il medico che mira alla prevenzione delle malattie, ti ordina: “Devi cambiar vita”.[12] In psicoanalisi le cose vanno come nella scienza, dove i fallimenti superano di gran lunga i successi, ma spesso gli errori sono molto felici. Darwin, Einstein, Bell… stavo dimenticando Freud.
del 1932. Bisogna concepire “la cura psicoanalitica come freudiano lavoro della civiltà”, C.-D. Rath, Der Rede Wert. Psychoanalyse als Kulturarbeit, Turia + Kant, Wien-Berlin 2013, p. 157.
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