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Seconda giornata – Giovedì 12 maggio

28 Nov 12

Di FRANCESCO BOLLORINO

 

II Sessione

V. Volterra: "Aspetti clinici e psichiatrico-forensi nel discontrollo degli impulsi: il Disturbo Esplosivo Intermittente"

Il relatore, Professore Ordinario di Psichiatria dell'Università di Bologna, parte dalla definizione di impulsività intesa come l'impossibilità a resistere a spinte, tentazioni dannose per sè o per gli altri, impetuosa e senza spontaneità. Può avere carattere improvviso e transitorio, oppure insorgere gradualmente per poi esplodere. Una volta data tale definizione, passa ad analizzare la nosografia del discontrollo degli impulsi, soffermandosi quindi sulla fenomenologia delle pulsioni, individuandone tre tipi: pulsioni primarie, che non hanno un fine e si scaricano su di un oggetto qualsiasi; pulsioni istintive, con un fine inconscio, che sono alla ricerca di un oggetto; pulsioni volontarie, nelle quali esiste la consapevolezza del fine e si stabilisce l'oggetto voluto sul quale scaricarsi. La coscienza della libera volontà si scontra in patologia con volontà contrapposte, volontà inconsce, assenza di volontà.

Nell'ottica psicoanalitica, in tutte le situazioni di "acting out" esiste una difficoltà del controllo ed una scarsa capacità d'inibizione. Vi è una confusività fra impulsi e compulsioni: solo atti dissociali ad essi strettamente legati assumono il valore di malattia. Può esserci una sovrapposizione di aspetti ossessivi e di discontrollo degli impulsi, ma l'incoercibilità patologica degli atti-reati non ha nulla a che fare con la "forza irresistibile". Comportamenti dissociali talora legati a discontrollo degli impulsi sono per esempio i seguenti: piromania, cleptomani, poriomania, stati passionali-emotivi, potomania, stalking, parafilie di vario tipo, stupro; più di frequente legati al mancato controllo dell'impulsività sono, invece, attacchi rabbioso-ostili, furore pantoclastico, aggressività indifferenziata, violenza mirata, omicidi sporadici o seriali, infanticidi e i cosiddetti "mass murder".

La valutazione della giurisprudenza a tal proposito è estremamente discorde. Va detto che in tutte le persone vi è una quotidiana oscillazione fra l'estrinsecare propri impulsi ed il tenerli sotto controllo. Si può parlare di discontrolli sintomatici di patologie quali i disturbi di personalità borderline, passivo-aggressivo ed antisociale, gli episodi maniacali, i disturbi psicotici e molti altri; si può rilevare, inoltre, una comorbidità con disturbi d'ansia, disturbi dell'umore, disturbi del comportamento alimentare, intossicazione da sostanze, disturbo da deficit dell'attenzione, disturbi neurologici, disturbi fittizi.

Connotati per la valutazione medico legale del Disturbo Esplosivo Intermittente sono i seguenti: lo stato di coscienza (crepuscolare), la memoria (amnesia antero-retrograda), il senso di colpa (che può mancare), il tempo e la modalità d'espressione (corto circuito, raptus, etc), l'aspetto reattivo (stress, trauma), la presenza/assenza di abuso di sostanze, una malattia organica concomitante incidente.

Presenta, quindi, una serie di sentenze di cassazione relative a casi di discontrollo degli impulsivi, delle quali una piuttosto recente, del giorno 8/03/2005, nella quale il Disturbo Borderline di Personalità è stato individuato alla base del comportamento di tipo esplosivo.

Conclude con una rassegna di spezzoni cinematografici da lui intitolata "Controllati e Discontrollati" , nei quali mostra esempi significativi di "acting out": le crisi pantoclastiche, con tratti ossessivi e depressivi, del protagonista di "Ubriaco d'amore", i momenti di esplosività del sottoufficiale della marina "Antoine Fisher", fino al mirabile esmpio di "Un giorno di ordinaria follia" dell'impiegato Michael Douglas.

M. Casacchia: "Il comportamento aggressivo-impulsivo nelle strutture di ricovero per acuti: correlati neuropsicologici"

M. Casacchia, Professore Ordinario di Psichiatria dell'Università degli Studi dell'Aquila, inizia il proprio intervento presentando lo studio PERSEO, uno studio osservazionale di un anno condotto sui pazienti ricoverati nei SPDC, i cui obiettivi consistevano principalmente nella descrizione socio-demografica della casistica afferente e nella valutazione clinica standardizzata del quadro psicopatologico, della condizione occupazionale, delle abitudini di vita (40% alcolici, 20% stupefacienti), delle modalità di ricovero (85% volontaria, 15% con la necessità dell'intervento delle forze dell'ordine, ma solo una piccola percentuale di questi ha poi comportato un TSO). Oltre alla BPRS, è stata utilizzata la scala MOAS, la quale registra la comparsa di episodi di aggressività e la loro gravità nel corso di 24 ore, analizzando 4 differenti domini: l'autoaggressività, l'eteroaggressività, l'aggressività verbale e quella rivolta contro le cose. A conclusioni dello studio PERSEO si rilevava una relativa brevità delle degenze, un frequente utilizzo da parte dei pazienti di sostanze alcoliche e la presenza nel 37% dei pazienti di aggressività di tipo verbale, come dati più significativi. Restavano, però, aperte due questioni: la relazione fra aggressività e tratti impulsivi e la relazione tra funzioni neurocognitive, aggressività ed impulsività, psicopatologia.

Il relatore sottolinea come l'impulsività possa essere, a seconda dei casi, un tratto temperamentale o un aspetto "di stato", funzionale ad una malattia o situazionale.

A questo punto, stante il fatto che l'impulsività spesso accompagna i comportamenti aggressivi, nuovo obiettivo di studio è stato quello di valutare i tratti impulsivi dei soggetti. Il metodo di lavoro si è avvalso di una maggiore varietà di scale valutative: BPRS e MOAS; BIS-11 (Barrat Impulsiveness Scale-11), scala autocompilata che valuta l'impulsività intesa come "agire senza pensare", mancanza di controllo sui pensieri, la quale è composta da 30 items valutati con un punteggio da 1 a 4, con un punteggio totale che va da 30 a 120; ToL (Test della Torre di Londra); WCST (Wisconsin Card Sorting Test); Fluenza verbale per categorie fenomeniche. Per teoria della mente il relatore intende quel meccanismo mentale mediante il quale le persone si rappresentano lo stato del mondo e gli stati mentali degli altri: il lavoro suo e dei suoi colleghi, "Theory of mind in schizophrenia", è stato citato all'inizio del 2005 sullo "Schizophrenia Bullettin".

Alla dimissione il punteggio della BPRS risultava essere dimezzato rispetto a quello al momento del ricovero, nonchè migliorava o scompariva l'aggressività riscontrata in alcuni pazienti mediante la MOAS. Dato piuttosto significativo è il rilievo dell'impulsività nei pazienti dimostratisi aggressivi: sono stati creati due campioni, un gruppo con alto livello di impulsività (AI) ed uno con basso livello d'impulsività (BI), che differivano significativamente nei punteggi della MOAS. Alla dimissione solo i pazienti impulsivi erano ancora aggressivi; in base alla valutazione neuropsicologica, risultavano essere dotati di una scarsa capacità di pianificazione e programmazione delle azioni, nonchè di una incompetenza sul piano relazionale (ToL piccola).La valutazione dell'impulsività attraverso la BIS-11, infine, ha evidenziato come i tratti impulsivi correlino con le dimensioni dell'aggressività e come siano associati a peggiori prestazioni neuropsicologiche, in particolare nelle funzioni esecutive e nella cognizione sociale.

G. Bersani: "Il discontrollo dell'impulso nelle madri che uccidono i bambini: tra psicopatologia, psicobiologia e trattamento preventivo"

La relazione del prof. Bersani affronta un tema spesso portato alla ribalta dalle cronache dei nostri quotidiani: l'infanticidio. Parlare di infanticidio necessita forse di una distinzione, non prevista dal codice penale italiano, ma forse meritevole di una precisazione in questa sede. Infatti si propone una distinzione tra neonaticidio, ovvero l'uccisione da parte della madre del bambino appena nato, ed infanticidio vero e proprio. La differenza, oltre che temporale, si può scorgere nella relazione madre-bambino.Il neonaticidio, infatti, avviene prima che si stabilisca questa relazione, la madre rifiuta l'esistenza del proprio figlio. La motivazione di tale gesto viene più spesso ricercata in ambito sociale e la madre neonaticida quasi mai appare affetta da una psicopatologia di rilievo. Al contrario l'infanticidio avviene una volta che la relazione con il bambino si è creata, ma appare evidentemente di difficile prosecuzione. La madre in questo caso appare più spesso affetta da una psicopatologia definita.

Quale psicopatologia appare allora alla base dell'infanticidio? Schematicamente si può riconoscere un infanticidio commesso da una madre con una definita psicopatologia (che a sua volta può essere distinta secondo una base delirante oppure una depressiva) ed uno commesso da una madre non affetta da alcuna definita psicopatologia.

Per quello che riguarda il primo caso, esistono naturalmente modelli biologici, per quanto generici in realtà, che individuano questi due poli psicopatologici. Manca però un chiaro indice biologico che sia specifico per giustificare la condotta omicida.

Nel secondo caso, invece,è ancor più evidente la difficoltà diagnostica, incrementata dall'impossibilità di tracciare un profilo dellamadre infanticida: i dati di cui disponiamo sono estrapolazioni da single cases.

Negli esempi riportati nel suo intervento il Prof. Bersani ci sottolinea alcuni elementi comuni, che possono essere indicati come "modello di successione degli eventi": l'apparente benessere psichico della donna, i vissuti di solitudine attribuiti all'assenza, vera o percepita come tale, del compagno, l'impulsività dell'azione omicida,l'assenza della pianificazione del gesto, la presenza di un ricordo mai nitido, ma di tipo oniroide. In sintesi, in una situazione apparentemente non estrema la donna si troverebbe ad esperire vissuti abbandonici da parte del compagno, che si fanno poi di solitudine fino alla rabbia. Su questa base l'intervento di un fattore acuto scatenante, di minore importanza tanto più inveterati sono i presupposti prima descritti, porta al discontrollo, alla dissociazione e da questi al fatto delittuoso. Si può allora tracciare un profilo delle mamme "a rischio"? Non fino ad oggi, se si esclude l'individuazione nei soggetti descritti di una frequenza maggiore dei tratti di personalità appartenenti al cluster B: proprio quelli che maggiormente predispongono al discontrollo. Questo elemento, insieme alla tendenza alla dissociazione, è da mettere in maggior rilievo nella costellazione di condizioni di base coinvolte nella determinazione di comportamenti così drammatici come quelli infanticidi. Questi "elementi di base" sono sì condizioni necessarie, ma di certo non sufficienti a determinare il comportamento patologico. Si sommano ad essi, in una complessa interazione di cause, ulteriori fattori: stress ambientali, fattori culturali, relazioni familiari. In conclusione è necessario porsi il quesito di come poter prevenire eventi tanto funesti. La chiave della difficoltà sta prorpio nell'apparente "normalità" in cui le mamme omicide si trovano prima del tragico dispiegarsi dei fatti. Solo l'allargamento della rete di attenzione può tentare di arginare e riconoscere situazioni potenzialmente esplosive. Una volta individuate, poi, la conoscenza del dato biologico di una disfunzione a carico dei sistemi NA-5-HT e/o DA-5-HT pone le basi per un efficace intervento farmacologico.

E. Aguglia, G. Austoni: "Aspetti impulsivi e ossessivo-compulsivi nel gioco d'azzardo patologico (GAP)"

L'intervento del prof. Aguglia, Professore Ordinario di Psichiatria presso l'Università di Trieste, affronta una problematica, quella del gioco d'azzardo, di cui già nel 3600 a.C. i Sumeri e gli Egizi erano a conoscenza. Oggi, con il moltiplicarsi delle modalità e delle occasioni di gioco d'azzardo, assistiamo ad una espansione piuttosto importante di questo fenomeno.

La questione centrale, su cui si impernia la relazione del prof. Aguglia, e' la definizione del nucleo clinico-fisiopatologico di ciò che chiamiamo gioco d'azzardo patologico (GAP). Si può in effetti osservare una spettro che dalle caratteristiche ossessivo-compulsive ci porta fino a quelle addittive. Volendo inquadrare in GAP come pertinente allo spettro ossessivo-compulsivo, si può allora parlare di disturbo mentale, con possibilità di intervento terapeutico farmacologico (prevalentemente SSRI), individuarne la presa in carico da parte dei servizi di salute mentale. Se però poniamo in maggior rilievo lo spettro addittivo il GAP si sposta nell'ambito della dipendenza comportamentale, come tale si gioverà maggiormente di un intervento psicoterapico e la struttura che possiamo immaginare essere maggiormente chiamata in causa la struttura territoriale dei SerT. E' però immaginabile piuttosto uno spettro, un continuum da un estremo "compulsivo", legato all'iperfrontalità, all'iperfunzionalità serotoninergica carratterizzato da comportamenti di harm avoidance fino all'estremo opposto, quello impulsivo, dove troviamo una ipofunzione del sistema 5-HT ergico, coportamenti tipo novelty seeking, con tratti di personalità più vicine a quelli borderline.

Per schematizzare, se cerchiamo delle analogie tra questi due poli possiamo riconoscere : – la ripetitività dei comportamenti (Lindner, 1950); – la presenza di ricorrenti pensieri polarizzati sul gioco; – l'efficacia di terapie con antidepressivi; – l'alta comorbidità con il DOC (fino al 20%).

Esistono naturalmente anche degli elementi in opposizione al riconoscimento di tali analogie, in particolare: – la scarsa quantità di dati ad oggi presenti sul GAP; – l'assenza nei gamblers di caratteristiche di eccessivo dubbio, presente in vece nel DOC; – l'assenza nei soggetti giocatori di comportamento evitante, di avversione al rischio e di ansia anticipatoria; – l'idea del gioco, infine, appare quasi costantemente egosintonica.

Per indagare sul GAM esistono oggi studi controllati in corso, di diversi ambiti: neurpsicologico, con utilizzo, tra gli altri, dell'Iowa gambling test, di neuroimaging, con reperti di alterazione all'EEG tipo deficit temporale (non a caso riscontrato anche nel DOC) ed immagini PET che evidenziano una differenza significativa di arousal cortiicale, simile, questo, a dati ottenuti su pazienti alcolisti.

L'importanza di confrontare il GAP con il DOC appare cruciale per definire dei criteri di diagnosi più precisi, per definirne la posizione tra l'addiction e l'mpulse control disorder. Oltre alle caratteristiche personologiche dei soggetti affetti da GAP vale la pena evidenziare anche alcuni aspetti biologici di tale disturbo. Si è infatti addirittura parlato di "markers" biologici: la presenza di bassi livelli di MAO-B piastriniche, il coinvolgimento del network dopaminergico sarebbero in relazione con il fenomeno delsensation seeking; la carenza di recettori 5-HT-ergici, l'eterozigosi per il gene DRD4 favorirebbero invece la messa in atto di comportameenti a rischio, limitando la possibilità di interromperli da parte del soggetto. A questi merkers biologici va aggiunta l'osservazione di alcune rilevanti associazioni del GAP con : l'abuso di sostanze (alcol, tabagismo), il disturbo bipolare, il disturbo d'ansia, il DOC ed il disturbo da deficit di attenzione e iperattivià. Quest'ultimo in particoare pare interessante, sul piano della "prevenzione" del GAP, in quanto tipicamente diagnosticato in età giovanile. Addirittura esistono evidenze per cui soggetti con diagnosi di ADHD, o solamente portatori di alcuni tratti di personalità a questo connessi (quali l'impulsività), più frequentemente vanno soggetti a GAP in età adulta.

In un recente studio, svolto proprio dal prof. Aguglia e dai suoi collaboratori, ha evidenziato come all'interno del GAP è poi possibile distinguere due sottotipi di giocatore: quello attivo,che ricerca ne gioco l'effetto euforizzante, e quello passivo, in cui il gioco sembra esercitare un effetto anestetizzante.

Appare a questo punto evidente la difficoltà a trovare un inquadramento definitivo del GAP. Forse smbra più probabile che ci troviamo di fronte ad un disturbo multiforme, per affrontare il quale dobbiamo muoverci in un modello multidimensionale.

L'ultimo quesito riguarda infine il "che fare"? Se appare cruciale il coinvolgimento sempre maggiore dei medici di medicina generale, più facilmente a contatto con soggetti che lo specialista psichiatra incontra in fase assai più tarda, resta per lo psichiatra la necessità di definire una presa in carico di tali pazienti: definire un assessment di personalità ed un più preciso inquadramento diagnostico appare urgente per valutare la prognosi e tracciare un indirizzo terapeutico stabile. appare scontato, infine, che per la natura stessa del GAP anche l'approccio terapeutico sarà necessariamente di tipo integrato multimodale, unendo farmacoterapia, psicoterapia con un adeguato intervento sociale.

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Una delle caratteristiche più peculiari di questi VI Incontri Ascolani è l'attenzione che gli organizzatori hanno voluto dare alla formazione dei Medici di Medicina Generale e degli Infermieri ed Educatori Psichiatrici.

E' la prima volta che un Congresso Specialistico apre sessioni specifiche indirizzate a queste categorie di operatori della Sanità: ci pare un elemento molto significativo che come rivista ci è parso importante sottolineare.

I MMG rappresentano il front-end privilegiato e quasi sempre l'iniziale contatto per il paziente affetto da disturbi mentale della più varia gravità e gli Operatori Psichiatrici non Medici rappresentano il cardine fondamentale dell'equipe curante, in questo attica la Formazione continua in campo psichiatrico risulta essere un elemento fondante per un buon lavoro territoriale integrato e al passo con le esigenze.

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Sessione per Infermieri ed Educatori Professionali

"Assistenza Infermieristica alla persona con disagio psichico: evoluzione nella formazione e nelle responsabilità"

L. Passaretti, Responsabile dell'ufficio di formazione ed aggiornamento del DSM ZT13 ASUR delle Marche, apre il proprio intervento con un excursus storico di quella che è stata la concezione della malattia mentale a partire dal mondo greco pre-ippocratico, in cui la perdita della ragione equivaleva ad una punizione divina, attraverso i vari secoli, soffermandosi in particolar modo sul periodo della Santa Inquisizione, in cui i malati psichici venivano trattati al pari degli eretici. Foucault fa risalire l'internamento al 1657, nell'Hopital de Paris: nel 1881 in Italia esistevano 39 manicomi pubblici che contavano 16665 "folli". La legge n°36 del 1904 investiva il direttore dei manicomi di un potere straordinario e vedeva l'alienato come una persona dalla quale la società andava difesa.

Per quanto concerne la figura professionale dell'infermiere, fino alla prima metà del XX secolo essa fu investita di compiti essenzialmente di custodia e di cura; fu solo l'avvento dei farmaci e l'evoluzione della terapia a modificarne il ruolo ed a privilegiare l'aspetto relazionale dell'assistenza. La legge 180 del 1978 – i cui obiettivi consistevano nel superamento del manicomio, nella creazione di servizi alternativi sul territorio, nella costituzione dei SPDC, con la conseguente cessazione della funzione di custodia da parte degli infermieri – ha posto le basi per il rinnovamento dell'assistenza. Nel 1976 era stata cancellata la scuola per l'infermiere psichiatrico e creata la figura dell'infermiere unico e polivalente, mentre nel 1994 è nata la specializzazione infermieristica in psichiatria.

Esplorando, invece, il panorama attuale relativo alla domanda d'assistenza psichiatrica, che interessa circa 6,3 soggetti per 1000 abitanti nei paesi industrializzati, sottolinea come il sistema di offerta debba porsi gli obiettivi del superamento della custodia, fornendo assistenza sul territorio, ricostruendo una rete sociale, valorizzando le risorse e favorendo l'integrazione fra i vari operatori.

L'assistenza infermieristica al paziente con disagio psichico deve considerare attentamente quelli che sono i suoi bisogni, di un ambiente sicuro, di interazione e comunicazione, e comporta delle responsabilità ben precise, che sono quella generale di assistenza, e non custodia, e quella di vigilanza sui comportamenti autolesivi e suicidari del paziente, tenendo ben presenti i concetti di prevedibilità e di prevenibilità. In tal senso vanno interpretati provvedimenti come i mezzi di contenzione fisica ed il TSO, da adottarsi nell'interesse terapeutico del paziente, "nel rispetto della dignità delle persone e dei diritti civili e politici garantiti dalla costituzione".

"La gestione del paziente con discontrollo degli impulsi in SPDC: cenni storici ed esperienze vissute dal paziente prima e durante il ricovero"

A. Luzi, IP del DSM di Ascoli Piceno, si occupa dell'introduzione di tipo storico che costituisce la prima parte di questo intervento, sulla base di quanto appreso nella visita al Museo della Mente sito a Roma all'interno di un ex manicomio. La stigmatizzazione del paziente psichiatrico esiste da sempre: se nel Medio Evo la malattia era considerata causata da spiriti maligni ed i malati venivano percossi per far uscire da loro il demonio, successivamente si sono alternate diverse fasi, caritatevoli e non, vedi la reclusione, l'incatenamento, le condizioni di vita ed igieniche precarie. Con l'avvento dell'Illuminismo si assiste alla chiusura degli istituti di segregazione ed all'apertura dei manicomi, con obblighi di legge di custodia. La Legge Giolitti del 1904 prevedeva un periodo di osservazione del soggetto, che raramente si concludeva con le dimissioni, mentre più frequentemente portava all'internamento con la perdita dei diritti civili. In tal senso la relatrice definisce il manicomio come la distruzione dell'identità personale. L'infermiere era una figura fondamentale, poichè seguiva tutto ciò che riguardava il paziente, svolgendo al tempo stesso la funzione di vittima, in quanto sottoposto a regole ferree, quali l'obbligo di risiedere nelle vicinanze ed addirittura fino agli anni '30 per le donne il divieto di sposarsi, pena la perdita dell'impiego, e di carnefice, dovendo a sua volta far rispettare le disposizioni manicomiali.

La Legge Mariotti del 1968 ha introdotto il concetto di equipe multiprofessionale, mentre la Legge 180, con la chiusura dei manicomi e la volontarietà al trattamento, ha liberato gli infermieri stessi insieme ai pazienti.

Viene, quindi, proiettato un toccante filmato-intervista ad Alberto e Nicola, due ex pazienti manicomiali che da 15 anni vivono in una casa famiglia, che si conclude con la frase di Primo Levi "E' accaduto e quindi può accadere".

Interviene poi il collega G. Pompili, che illustra i dati riguardanti gli episodi di discontrollo avvenuti nell'ambito del SPDC nel corso del biennio 2003-2004, identificati seguendo come criteri clinici la necessità di coercizione dei pazienti per agitazione non accompagnata da stato confusionale e gli atti aggressivi. Su 533 pazienti, dei quali solo 57 ricoverati in regime di TSO, 111 hanno presentato discontrollo dell'impulsività e di essi 46 erano in TSO. Per quanto concerne la diagnosi, nel 43% dei casi si trattava di disturbi ideativi psicotici, nel 17% di disturbi dell'umore, nel 40% di disturbi di personalità; nel 28% si è trattato di pazienti con doppia diagnosi per abuso di sostanze alcoliche o di stupefacienti. Si può pertanto identificare un legame fra la sofferenza fisica e la perdita del controllo.

La durata media delle degenze è di circa 15 giorni. Esistono ovviamente delle regole da rispettare, che di per se stesse, poichè vanno tollerate dal paziente, possono portarlo al discontrollo; per prevenire questo sono state create delle aree ricreative, ma non sempre tale misura è sufficiente. Le disposizioni di reparto vengono seguite, ma certi operatori sono più rigidi nel mantenerle, altri mantengono un atteggiamento più elastico: l'obiettivo da perseguire è di far sì che il personale adotti un comportamento univoco. La preparazione del congresso ha permesso, in tal senso, agli infermieri di confrontarsi fra loro ed individuare quelle che sono le differenze nell'approccio adottato da diversi turni e da singoli operatori.

La perdita di controllo si manifesta spesso con l'aggressività, che non rappresenta solo un sintomo, ma è di per se stessa una richiesta d'aiuto. Bisogna saper ascoltare il paziente, essere in grado di relazionarsi con lui. Per arrivare a conoscere un paziente è opportuno saper lavorare in un'ottica dipartimentale, al fine di comprenderlo nel suo modo di pensare e di rispettarlo nel suo modo di essere. Nel momento in cui si identifica la possibilità che un paziente vada incontro alla perdita del controllo, bisogna far sì che questi non si senta minacciato dal personale e da suoi eventuali atteggiamenti di sfida, è necessario, invece, stabilire un contatto verbale, con tono pacato. Ma non sempre è facile prevenire o impedire tali esplosioni, nel qual caso è bene saper intervenire prontamente, anche con misure di coercizione fisica, volte al controllo momentaneo dell'episodio, nell'interesse del benessere del paziente stesso.

L'intervento si conclude con la proiezione di un cortometraggio ispirato alla storia di Francesco, un paziente del SPDC, vista attraverso i suoi occhi ed il suo vissuto.

"I comportamenti auto/eterolesivi nel paziente con disabilità intellettiva"

L. Fontana, AFD del DSM di Ancona, ritiene che l'aggressività possa essere intesa come espressione dell'affermazione di sè e dell'ostilità verso gli altri, e che, al di là di un sintomo, sia segno di un bisogno, di una richiesta d'aiuto. Si tratta di una situazione difficile da prevedere, gestire e digerire, che richiede interventi ben articolati, quali curare la formazione del personale, discutere i casi clinici con l'equipe, simulare le situazioni critiche. La valutazione del rischio va fatta attraverso l'anamnesi, che deve prendere in considerazione la globalità del paziente, un'attenta osservazione ed il colloquio, al fine di poter pianificare degli interventi assistenziali specifici per il singolo paziente. Bisogna evitare la presenza nella stessa stanza di altri ospiti con caratteristiche simili, concordare con lui che avverta il personale qualora abbia la sensazione che la situazione stia per sfuggirgli di mano, di modo che senta di non essere solo e superi la propria solitudine. E' indispensabile offrire la disponibilità al colloquio, stimolare la cura del sè, promuovere la relazione con persone "utili", nonchè controllare che assuma regolarmente la terapia, custodirne gli oggetti personali potenzialmente pericolosi, verificare la presenza di fantasie di morte e di "segnali" importanti.

La comunicazione è fondamentale per creare una stretta relazione fra paziente ed infermieri. Bisognerebbe avvalersi di tecniche precise, adeguate alle fasi della crisi, che tengano in considerazione le molteplici variabili, al fine di aiutare il paziente a raggiungere un adeguato livello di autostima e di benessere. Saperlo ascoltare e meritarne la fiducia, senza fingere, mantenendo un atteggiamento attivo ed evitando invece di essere troppo accondiscendenti e di minimizzare la situazione anche nei momenti di apparente miglioramento, aiuta il paziente ad aumentare il controllo dell'interazione comunicativa, permettendogli di riconquistare o di mantenere una favorevole situazione di fiducia ed indipendenza.

Che cosa si può fare se il paziente "esplode"? Si possono attivare letecniche di "Talk Down", mirate al contenimento progressivo del paziente ed al riconoscimento delle sue istanze; col decrescere dello stato di agitazione, bisogna porre limiti crescenti, sino a calmare il paziente. Nel caso del verificarsi di un gesto violento, bisogna innanzitutto bloccare la manovra che il paziente sta mettendo in atto, avvisare il medico e se necessario il rianimatore del 118, adottare le procedure salvavita d'emergenza, mantenere sempre la calma ed il contatto verbale per ridurre la tensione, allontanare le altre persone, procedere alla contenzione seguendo il protocollo, nei casi estremi avviare il protocollo di decesso.

Conclude domandandosi se il verificarsi di determinati episodi sia da imputare alla loro imprevedibilità o all'impulsività del paziente oppure ad un anello debole nell'iter terapeutico-assistenziale. E' dell'avviso che, indipendentemente dai risvolti giudiziari, non si debbano lasciare all'interno dell'equipe "fili appesi", vale a dire questioni non affrontate, ma che sia comunque di fondamentale importanza discutere dell'accaduto con tutto il gruppo degli operatori.

A questo punto viene invitato a portare la propria testimonianza, seppur non previsto nel programma, il Prof. Calvi, che per prima cosa si compiace con i precedenti relatori per la partecipazione e l'intensità emotiva con la quale hanno portato avanti un eccezionale lavoro di gruppo, con interventi innovativi e ricchi. Racconta come all'inizio della propria carriera di medico ospedaliero in un reparto di neurologia, al primo impiego presso l'Ospedale Civile di Sondrio nel 1959, due anni dopo l'avvento rivoluzionario dei primi psicofarmaci – Largactil, Fargan e Resepina, seguiti nel 1960 dal Tofranil – si sia trovato a vivere un periodo di sostanziale cambiamento nell'operare psichiatrico, che coinvolgeva in primis gli infermieri, abituati a relazionarsi con pazienti neurologici. Gradualmente ma velocemente, con ritmo incalzante, si poteva ricoverare in reparto un numero sempre crescente di pazienti altrimenti destinati all'ospedale psichiatrico; dal suo ingresso nel reparto al momento in cui si è trasferito, i posti letto sono passati da 9 a 90 unità. Suo compito è stato anche quello di aiutare il corpo infermieristico ad affrontare una routine diversa da quella passata, a lavorare con naturalezza e tranquillità. Nel rapporto infermiere-malato si deve considerare l'aspetto psichico e organico, da viversi con spontaneità, senza sospetto o insofferenza, e l'aspetto corporale, vale a dire quel manifestarsi delle persone attraverso il corpo, quell'aspetto comunicativo che si esprime con la fisionomia, le movenze ed i gesti, rispetto al quale bisogna saper tenere la debita distanza, essere di fronte, piuttosto che stare di lato o dare le spalle al malato. Gli infermieri, a fronte di questi cambiamenti, cercavano un minimo di acculturazione rispetto alla nuova realtà prospettatasi: come a loro suggeriva spesso libri e film, così oggi consiglia a chiunque voglia avvicinarsi e comprendere un minimo il mondo del disagio mentale la visione di un film piuttosto recente, dal titolo "Parla con lei".

"L'emergenza psichiatrica tra gestione della crisi e vissuti degli operatori: dieci anni di esperienza del Servizio Territoriale del DSM di Ascoli Piceno"

A. Capriotti ed L. Marcucci, attualmente impiegati presso il CSM, apportano la propria esperienza pluridecennale in ambito psichiatrico nella veste di Infermieri. Per lavorare bene in questo campo è a loro parere fondamentale ricordarsi sempre che dall'altra parte c'è una persona, che per di più è sofferente. Con la legge 180, che ha modificato la concezione del malato da quella di "soggetto pericoloso da isolare" a quella di "soggetto da curare", è cambiato anche il fine dell'operare: dal contenere la persona in un ambiente chiuso manicomiale si è dovuti passare all'entrare in relazione con lei nell'ambiente in cui vive, pertanto il lavoro con i pazienti psichiatrici si è spostato sul territorio. Negli ultimi 10 anni sono aumentati gli accessi domiciliari da parte degli infermieri, parallelamente il numero di TSO risulta, invece, essere diminuito. Ciò non ha valore assoluto e statistico: vuole solo essere la fotografia della loro realtà territoriale.

Momento determinante per tutto il CSM è la cosiddetta "Riunione del mercoledì". E' impensabile che possa essere rinviata o addirittura saltata: è uno spazio lavorativo e ricreativo al tempo stesso, che consente all'equipe di sentirsi viva ed unita nell'impegno comune. Ed è proprio dal lavoro di gruppo, dalle emozioni espresse da ogni singolo operatore, che è nato il lavoro del quale si trovano ad essere i portavoce. Si è voluto dar voce agli operatori, per esplorarne gli stati d'animo nei diversi momenti del lavoro e nelle situazioni di crisi, mediante la creazione di un questionario autosomministrato, composto da 10 domande a risposta libera. L'analisi dei risultati ha portato alla luce il vissuto comune di essere "soggetti accanto ai pazienti", con i quali attuano un'esplorazione delicata e non invadente. Gli operatori sentono la necessità del comunicare fra di loro e dello scoprire nell'altro le stesse emozioni, con un forte bisogno di condivisione. Nel momento della crisi o del pericolo, si può avvertire un sentimento di fragilità o di impotenza, ed anche successivamente si deve affrontare un delicato passaggio, alla ricerca della precedente relazione terapeutica, che si vuole ristabilire col paziente, elaborandone il dolore. A far questo, nell'opinione degli operatori, aiuta da una parte la propria identità professionale, che consente di gestire la relazione mantenendo il proprio ruolo, dall'altra il senso di appartenenza al gruppo, che fa sentire tutelati grazie alla fiducia nei confronti dei colleghi e del servizio del quale ci si sente parte integrante.

 

III SESSIONE

L. Ferrannini – La gestione dei comportamenti aggressivi in ospedale: aspetti clinici, organizzativi ed etico deotologici.

Il Prof. Ferrannini colloca il suo intervento nell'ambito gestionale del "fare".

I pazienti in questi anni sono cvambiati, sono più "complessi" con "richieste" altrettanto complesse, in un intreccio tra soma e psiche che vede la malattia mentale sempre più come una "malattia sistemica".

Perché il paziente si ricovera?

Per fare "diagnosi", per problemi socio-ambientali, per una acuzie,a volteper fattori legati alla qualità dell'assistenza territoriale.

Il ricovero porta con sé dei rischi: lo stigma, la rottura dei normali ritmi di vita, l'interruzione del rapporto con l'equipe curante sul territorio.

L'intervento psichiatrico di urgenza si incentra:

 

 

 

 

 

 

  • sul "problema" che ha determinato il ricovero
  • sulla centralità delal persona
  • sulla negoziazione con la commitenza che di volta in volta è la famiglia, il Servizio, la Forza Pubblica.

Passando ad esaminare la gestione dei comportamenti aggressivi, il primo problema è l'imquadramento diagnostico e la competenza "specifica" dello psichiatra di fronte alla "violenza".

Esistono anche qui fattori di rischio:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  • la bassa compliance di fronte alla terapia
  • la prima fase del ricovero ospedaliero
  • il contatto dopo una lunga interruzione
  • crisi familiare e deriva sociale
  • reati recenti
  • eventi negativi di vita sconosciuti ai curanti.

La percezione della violenza da parte degli psichiatri secondo Catanesi (2004) è caratterizzata da : incertezza diagnostica, sentimenti di paura, impotenza, rabbia, difficoltà ad elaborare il controtransfert, sensazione di "crescita" del problema.

A fronte di ciò occorre lavorare sul gruppo di lavoro attorno al tema della violenza, per superare la "solitudine" dell'operatore di fronte a problematiche di tal fatta.

Il tema della contenzione è paradigmatico in questo contesto: la "contenzione del corpo" è un trattamento sanitario? È un "trattamento psichiatrico specifico"?

Lo può essere solo se "NECESSARIA" all'interno di un progetto terapeutico, senza essere una misura "autonoma" deafferentata dal piano terapeutico, in una logica in cui il suo "uso" diventi una "routine" senza un attento controllo.

Occorrono dei protocolli per la gestione della "violenza" e della contenzione, perché ogni intervento abbia un senso e un obiettivo terapeutico, all'interno di uan trasparenza delle praitiche psichiatriche.

A. Berti – Giochi pericolosi. Passioni di sempre, patologie attuali.

La dott.ssa Berti affronta il tema dei giochi pericolosi visti come comportamenti con "valenze predittive" per lo psichiatra.

Viene presa in esame la figura di Dostoevskij e dei suoi personaggi di Delitto e castigo e Il Giocatore..

Dietro i giochi pericolosi ci sono le pulsioni e il loro dis-controllo, che può manifestarsi anche in situazioni di comportamento normali, che però nascondono il rischio di sfociare nella psicopatologia.

Martini – P. Iacopini – Impulsività e DCA

Gli autori partono dal concetto di "impulsività", concetto non inivocamente definito: è una predisposizione all'agito.

All'interno di questo claster si inseriscono i DCA, che spesso sono associati ad altri disturbi in una dimensione di comorbilità.

Viene presentato un caso clinico di bulimia, in cui il tratto rappresentato dal disturbo del controllo degli impulsi fa da substrato costante all'insorgere intermittente della bulimia.

Viene infine presentato un modello di intervento integrato per i DCA con diversi servizi coinvolti nel trattamento.

M. Rossi Monti – La rabbia borderline: rendere l'altro ostile.

Attanagliata come sembra essere nella diade maniaco-depressiva la Clinica Psichiatrica sembra aver tagliato via molte altre emozioni importanti.

La rabbia è considerata spesso un elemento di "disturbo", ma che cosa è la rabbia?

La rabbia è "relazionale".

Nello schizofrenico è un processo interno, nel paziente borderline vi è il rapporto con l'altro, un altro che, coinvolto, "si arrabbia" anche se si tratta del terapeuta.

Il paziente borderline "si nutre" di relazioni patologiche, spesso "rabbiose" in maniera circolare, con il gruppo terapeutico spesso coinvolto emotivamente in maniera massiccia.

Il paziente borderline dapprima si lega con alcuni membri dello staff vissuti come "salvatori", la ovvia conseguente delusione ingenera rabbia nei confronti del gruppo terapeutico.

Il gruppo terapeutico può entrare in crisi, possono essere messi in atto "acting outs", ma al tempo stesso la ripetitività di queste situazioni con questa tipologia di pazienti può consentire al gruppo di lavoro di divenire terapeutico.

I pazienti border usano massicciamente la proiezione nella relazione patologica, la rabbia proiettata non è "realistica" ed è associata al bisogno di renderla "congrua" con la realtà.

Cosa deve fare il terapeuta?

NON FARE IL SAN SEBASTIANO!!! Non presentandosi come "tutto e solo buono".

NON NEGARE LA PROPRIA RABBIA che il paziente genera in lui.

PRENDERE COSCIENZA DEL PROPRIO CONTROTRANSFERT per non agirlo.

Occorre mettere in atto una funzione MITIGATRICE, prima di tutto "capendo" ciò che accade nella relazione con il paziente onde evitare il rischio più grande che è l'abbandono della terapia da parte del paziente o da parte dei terapeuti.

Il terapeuta deve proporsi come un oggetto "durevole" che sa tenere la sua posizione, anche stando al gioco ed esplicitando la rabbia senza agirla, portando in questo modo la proiezione a livelli "accettabili".

Questo atteggiamento avvicina il paziente al terapeuta evitando l'interruzione o la sterilizzazione della terapia in qualcosa di non autentico e per ciò stesso non terapeutico.

Evento speciale rivolto ai Medici di Medicina Generale: workshop "Farmacologia Clinica degli antidepressivi".

Prof. P.L. Scapicchio: Concetti di farmacologia clinica degli antidepressivi.

La relazione del Prof. Scapicchio offre una panoramica storica e clinica sulle terapie antidepressive oggi disponibili. In ragione della specificità del ruolo del medico di medicina generale nella gestione di pazienti con patologia psichiatrica, depressiva in particolare, associata frequentemente ad altre problematiche cliniche di vario genere ed entità, l'intervento odierno vuole mettere l'accento sul razionale di scelta di un farmaco piuttosto di un altro. Vengono pertanto presi in esame l'efficacia clinica specifica, l'incisività verso diversi aspetti del quadro depressivo delle diverse classi di AD, in particolare i TCA e gli SSRI.

La conoscenza dello spettro di azione del farmaco deve naturalmente unirsi ad un'attenta valutazione degli effetti collaterali, spesso misconosciuti o sottostimati.

Nei pazienti anziani la difficoltà si accentua per la frequente presenza di patologie somatiche, per la contemporanea presenza di altre terapie farmacologiche che diinuiscono la soglia di sicurezza nella somministrazione di farmaci quali, ad esempio, i TCA. Per questi l'insorgenza di effetti collaterali legati all'azione anticolinergica appare spesso un limite importante all'applicazione di tali composti.

Di maggior maneggevolezza appaiono gli SSRI, i cui effetti collaterali non sono "scontati", certi come per i TCA e sono nella quasi totalità, dose-dipendenti.

Sempre in riferimento al paziente anziano, occorre sottolineare l'impatto di terapie con effetto anticolinergico sulla sfera cognitiva.

Un altro elemento dirimente nella decisione terapeutica è senz'altro la tossicità da sovradosaggio: anche qui TCA insieme a IMAO presentano livelli di rischio significativamente maggiori rispetto agli SSRI.

Analizzando la conduzione della terapia farmacologica, si deve poi sottolineare l'importanza del raggiungimento di dosi terapeutiche piene, fino al raggiungimento della remissione sintomatologica e per il periodo di mantenimento.

L'aspettativa di guarigione può, infine, essere stimata osservando la presenza di sintomi residui. Questi sono in particolare eventi quali ansia, dolore, alterazioni del sonno: la persistenza di sintomi residui è un'indice prognostico negativo sulla riuscita terapeutica.

Dott. A. Testa: Utilizzo degli SSRI nella terapia delle sindromi depressive

Anche la relazione del dott. Testa, riprendendo il precedente intervento, vuole fornire elementi utili al medico di medicina generale per effettuare una scelta ragionata di una terapia antidepressiva.

L'accento è qui posto sulla necessità di personalizzare l'iter terapeutico, considerando le caratteristiche cliniche di ciascun singolo. Gli errori terapeutici, che esitano poi in uno scarso isultato clinico, si possono schematicamente attribuire a diversi fattori : – l'uso di dosaggi inadeguati; – la sospensione precoce del farmaco (per effetti collaterali o per scorretta pianificazione terapeutica); – la presenza di modificazioni precoci; – lo scarso monitoraggio e informazione del paziente; – la scarsa compliance e l'errata assunzione del farmaco; – problemi legati alla farmacocinetica (per interazione con altri farmaci, comorbilità, alterazioni nell'assorbimento). Appare importante pertanto l'acquisizione da parte dei medici di medicina generale di adeguate informazioni per una corretta gestione di tali terapie.

In ragione delle caratteristiche analizzate dal prof. Scapicchio, appare evidente come sempre più spesso la scelta di una terapia AD cada su farmaci della classe SSRI. Naturalmente i vantaggi che indubbiamente essi portano rispetto ai TCA non devono far dimenticare che nemmeno i serotoninergici sono farmaci "perfetti". Tuttavia la loro efficacia si disturbi d'ansia e dell'umore, l'assenza di una tossicità letale (slavo, s'intende, associazioni con altre sostanze), la possibilità di gestire eventuali effetti collaterali senza che si renda imperativa la sospensione del farmaco, la maggior versatilità all'uso in politerapie

Dott. I. Paolini: Gestione degli stati depressivi in Medicina Generale

La relazione del dott. Paolini, medico di medicina generale in San Benedetto del Tronto, affronta la delicata questione del ruolo giocato dai MMG nel riconoscimento, nella diagnosi e nella gestione terapeutica dei pazienti con disturbi psichiatrici al di fuori del contesto specialistico.

E' nozione comune di quanto pesi, in termini quantitativi e qualitativi, la patologia psichiatrica sull'operato dei MMG: a seconda delle casistiche esaminate, la percentuale dei pazienti affetti da patologia psichiatrica che si presenta al MMG va dall' 11 al 34%. La maggior parte dei disturbi psichiatrici, infatti, non solo viene identificata negli ambulatori dei medici di medicina generale, ma qui trova anche la propria gestione terapeutica. Inoltre si può affermare che generalmente i pazienti che entrano nel "circuito" specialistico non coincidono con quelli che vengono gestiti sul territorio dal medico di base.

Emerge pertanto in modo indiscutibile la centralità della figura del MMG; occorre però sviluppare migliori strategie per far sì che il medico di base non si trovi "in mezzo" alle figure dei diversi specialisti, con il rischio di esserne isolato.

Quali possono essere dunque le difficoltà principali cui va incontro il MMG nella diagnosi del disturbo psichiatrico? Sicuramente si deve considerare l'eccesso di carico di pazienti cui è sottoposto quotidianamente il MMG. Le modalità di presentazione della patologia psichica frequentemente avviene attraverso sintomi somatici: la preoccupazione di non sottostimare la possibilità di una causa organica per tali sintomi, quando anche non esista già una comorbilità somatica, può rallentare se non fuorviare il processo diagnostico. Esiste infine una certa difficoltà da parte del paziente ad accettare l'ipotesi di una diagnosi in ambito psichiatrico. Va notato tuttavia che i MMG hanno nella proprie mani un prezioso strumento dato dall'osservazione longitudinale dei propri pazienti: se la singola consultazione si limita spesso ad una manciata di minuti, non sufficienti senz'altro per un momento diagnostico esaustivo, il MMG può costruire il percorso di diagnosi attraverso momenti successivi di incontro con il medesimo paziente.

Un cenno merita infine la proposta di portare la modalità di collaborazione tra MMG e specialisti dal modello attuale, che si muove attraverso l'invio per consulenza, ad una comune presa in carico del paziente in cui il MMG conduce il trattamento, anche specialistico, sotto la supervisione del medico specialista.

(a cura di E. L. Fiscella e P. C. Rossi)

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