Mi affretto a cancellare l’impressione di astrusità che in molti utenti di questo blog immagino abbia prodotto il mio precedente post sulla necessità di pensare la variabilità per pensare il soggetto collettivo. Allora scenderò a livelli di senso comune più umani e più condivisibili.
Per introdurre l’argomento riporto il dialoghetto che ho recentemente avuto su fb nel gruppo omonimo: IL SOGGETTO COLLETTIVO, ancora da me con qualche difficoltà orchestrato.
Egidio T. Errico il 9 febbraio alle ore 13.11 ha scritto:
“Vorrei chiedere ad Antonello Sciacchitano di chiarirmi un aspetto che non riesco a capire, e cioè in che cosa, e se, questo concetto di soggetto collettivo sia qualcosa di diverso da ciò cui rimanda Lacan con la nota affermazione che ‘l'inconscio è il discorso dell’Altro’. Vale a dire, non è già la teoria del Soggetto di Lacan, se così posso esprimermi, di un soggetto cioè che è diviso, barrato, in quanto ‘preso’ dal discorso dell'Altro a farne un soggetto anche ‘collettivo’? Il significante non è forse il ‘timbro’ presso il soggetto del collettivo sociale, culturale e di linguaggio in cui è immerso, tranne per quel resto che vi sfugge e che sembra essere infatti ciò che di singolare-proprio ecceda questa presa dell’altro, vale a dire ciò che di particolare e singolare si può sempre cogliere in questo soggetto collettivo? Pongo la questione, forse ingenuamente, ma davvero senza alcuna polemica: è un punto su cui vorrei essere chiarito, perché mi sfugge in questo senso cosa di diverso, o di più, apporterebbe il soggetto collettivo al soggetto lacaniano. Grazie.”
Ho risposto un po’ frettolosamente, come si usa su fb, così:
“Hai capito tutto e mi hai sgamato, caro Egidio. Il mio soggetto collettivo non è altro che il soggetto lacaniano. Lo dice Lacan stesso all'ultima riga del suo saggio sul tempo logico: ‘Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale’. Il mio intento è immergere l'intuizione lacaniana in una teoria meno logocentrica, cioè meno strettamente dipendente dalla logica del significante”.
Alle 15.05 ha rincarato la dose Roberto Pozzetti:
“Cari Egidio e Antonello, in fondo il soggetto collettivo è il soggetto freudiano, allora. La frase di conclusione dello scritto sul tempo logico altro non è che la frase di apertura della Massenpsychologie. Ritorno a Freud?”
Ho subito precisato, rispondendo alla domanda retorica:
“Direi di no, almeno nel mio caso. Da parte mia non c’è nessun ritorno a Freud, perché non mi sono mai staccato da Freud, anche quando ne ho fortemente criticato il freudismo: la metapsicologia pulsionale, la mitologia dell’Edipo e della castrazione, e i freudismi vari (soprattutto il suo gebieterisches Kausalbedürfnis, il suo ‘bisogno coatto di spiegazione causale’ – sono parole freudiane in L’uomo Mosè e il monoteismo).”
Tanto per restare in tema, e magari per precisare differenze e congruenze tra soggetto lacaniano e soggetto collettivo, potrei ripartire dal sofisma lacaniano dei tre prigionieri, ben noto nel piccolo mondo delle scuole lacaniane, da cui da tempo ho preso le distanze. (Mi interessa Lacan, non il lacanismo, tantomeno la sua pervasiva langue de bois). Comincio intendendo “sofisma” in senso proprio, cioè come abile esercizio epistemico, paradossale, quando non capzioso.
Ripeto la storiella per chi non la sapesse già. Il direttore vuole sfoltire il carcere. Convoca tre prigionieri e mostra loro tre dischi bianchi e due neri. Poi appunta sulle loro spalle tre dischi, promettendo la liberazione a chi avrebbe potuto dimostrare il colore del proprio disco con argomenti puramente logici. I tre rimangono interdetti; nessuno si muove verso la porta della libertà, perché a prima vista nessuno sa dire il colore del proprio disco.
Improvvisamente, però, a un certo momento la situazione si sblocca; un prigioniero fa un passo avanti, prende la parola e dice al direttore:
– Io sono bianco.
– Come lo sai? gli chiede il direttore.
– Dato che i miei compagni sono bianchi, ho ragionato per assurdo. Se io fossi nero, ciascuno degli altri due, avrebbe potuto ragionare così: “Se io fossi nero, un altro vedrebbe due neri e dedurrebbe che è bianco e verrebbe a dirlo a lei. Ma nessuno deduce questo; tutti stanno fermi, quindi deduco di non essere nero”.
Il direttore lo libera. Anzi libera tutti e tre i prigionieri, perché tutti e tre ragionano sincronicamente allo stesso modo e si presentano contemporaneamente alla porta della libertà.
Lacan intitola il saggio in cui presenta il rompicapo: Il tempo logico. Propongo una piccola variante al titolo. Si tratta di tempo epistemico, cioè del tempo in cui si esercita un sapere. È lo stesso Lacan a suggerirmi la rettifica con la sua fine analisi fenomenologica di questo tempo non cronologico; ne articola la dialettica in tre momenti: tempo di vedere, (o constatazione di ignoranza), tempo di comprendere (o registrazione dell’incertezza collettiva) e tempo di concludere (o affermazione della certezza individuale). Non entro nei dettagli quasi diabolici dell’argomentazione lacaniana. Mi limito a riconoscere che il tempo di sapere evolve dall’ignoranza, si sviluppa in congetture e alla fine – caso per altro raro in generale – ne dimostra la verità.
Quel che di questo discorso attiene al soggetto collettivo è presto detto. L’ignoranza è collettiva. Tutti e tre i soggetti individuali partono condividendo lo stesso non sapere. Sono avvolti dallo stesso “velo d’ignoranza”, direbbe John Rawls nella sua ripresa del concetto di contratto sociale secondo Rousseau. Nessuno può presumere cosa vuole l’altro, neppure se l’altro è lui stesso. C’è incertezza nel costituirsi di ogni collettività, perché non si sa cosa vuole l’altro – vuole la mia morte? Lì, nell’incertezza originaria del collettivo si radica l’inconscio con la sua freudiana rimozione originaria. C’è un po’ di inconscio collettivo alla Jung anche in questo modello ipersemplificato di collettività dei tre prigionieri.
Ma proprio questo è il punto: l’indecisione collettiva, con il suo effetto di contesto, permette a tutti e a ciascuno di decidere in senso etico, quindi di diventare soggetti individuali, che assumono eticamente il proprio essere: l’essere bianco o l’essere nero. Il ragionamento logico include necessariamente la logica dell’altro e permette di decidere collettivamente sull’indecisione altrui: non si è quel che si è da soli. Il soggetto collettivo prima incerto sulla propria sorte può ora decidere e decidono “tutti insieme appassionatamente”. Come giustamente (ma anche un po’ cripticamente) scriveva Lacan: “Il collettivo è il soggetto dell’individuale”.
Arrivato sin qui, mi volto indietro al mio precedente post e riconosco che non era del tutto astruso. Anche nel caso dei tre prigionieri c’è una variabilità: è la distribuzione uniforme dell’ignoranza; tutti sono “democraticamente” uguali in quanto ugualmente ignoranti. E anche in questo caso emerge la simmetria, cioè la struttura: ogni prigioniero è sostituibile all’altro e proprio questa sostituibilità – cioè questa simmetria – garantisce la correttezza del ragionamento conclusivo che è lo stesso per tutti, senza che nessuno – maestro o Führer – l’imponga a qualcuno.
Non la faccio lunga neppure io e mi precipito a concludere, in nome della tanto elogiata da Lacan funzione della fretta – è la fretta dell’orgasmo. Bisogna fare in fretta nelle questioni soggettive. Acutamente osservava il mio maestro che, se tornasse sui suoi passi, dubitando della certezza raggiunta, il soggetto la perderebbe irreversibilmente, come sa bene chi pratica il dubbio ossessivo.
La conclusione è lineare: il soggetto collettivo, se esiste, è un soggetto epistemico. Opera con un sapere diffuso tra tutti i membri del collettivo; elabora l’incertezza di tutti, trasformandola in certezza del singolo. Nella vita quotidiana, tuttavia, non si arriva mai alla certezza assoluta, come nel caso dei tre prigionieri. È raro, ma talvolta capita in matematica, che si arrivi fortunosamente o alla conferma o alla confutazione della congettura. Ma non è tanto la certezza assoluta che importa in questi casi; per la sopravvivenza del soggetto collettivo l’importante è la transizione epistemica dalla maggiore alla minore incertezza, cioè da una congettura più falsa a una meno falsa; è questo “lavoro analitico”, come lo chiama Freud, la caratteristica di quello che io designo come “legame sociale epistemico”. Se c’è transizione epistemica dal più falso al meno falso, allora c’è soggetto collettivo, grazie al lavoro collettivo sull’incertezza; se c’è lavoro del soggetto collettivo, si produce anche “un po’” di soggetto individuale.
(Tra parentesi, la nozione di falso, non intesa come antitesi ontologica del vero ma come ciò che si sa meno – o è incerto – risale a Cartesio e Spinoza; in particolare per Cartesio tutto il verosimile è falso. In epoca più vicina a noi tale concezione fu ripresa e sviluppata dall’intuizionismo di Brouwer. Ho scritto un libretto sul valore del falso epistemico, dimostrando che la nozione intuizionista di verità potrebbe servire in psicanalisi. Si intitola: Il tempo di sapere. Saggio sull’inconscio freudiano, Mimesis, Milano-Udine, 2013).
Non è un buon risultato? Chi l’avrebbe mai detto che dall’astrusità matematica sulla variabilità si poteva cavare qualcosa di buono?
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