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Omicidio di Emmanuel Chidi Namdi: gabbie per “scimmie”

18 Lug 16

A cura di Sarantis Thanopulos


Dell’omicidio di Emmanuel Chidi Namdi, il 36enne nigeriano ucciso a Fermo, non è chiara l’intenzionalità. Chiarissima è, invece, l’intenzionalità dell’insulto “scimmia” rivolto alla compagna di Emmanuel dall’omicida, che è stato la causa del litigio fatale. Per quanto un insulto non possa essere paragonato a un omicidio dal punto di vista delle conseguenze legali, è un errore grave sottovalutare le sue implicazioni etiche e il suo impatto sulla vita sociale (oltre che sulle relazioni intime e private).
L’insulto può avere conseguenze molto negative anche quando è solo una reazione aggressiva occasionale, soprattutto in mancanza di dispositivi contenitivi che ne attutiscano la violenza. Sicuramente la ripetitività delle offese e degli atteggiamenti insultanti, che spesso sono oggetto di una tolleranza impropria, ha un effetto molto logorante sulla qualità della nostra vita relazionale. Dove è richiesto il rispetto reciproco con gli altri, la ripetuta lacerazione dell’educazione formale ferisce la sostanza della nostra umanità.
La situazione è terribilmente più distruttiva se l’insulto fa parte di un’intenzionalità di discriminazione dell’altro, di un’affermazione della propria superiorità nei suoi confronti assoluta e immodificabile, che elude uno specifico campo di confronto (in cui la competizione può essere ammissibile e stimolante). L’insulto discriminante è un’azione intenzionale con cui il soggetto razzista pretende di oggettivare il suo narcisismo negativo, mortifero. L’altro è trattato come oggetto subumano, privo di una vera e propria soggettività, sul quale è proiettato in modo permanente, come marchio di costitutiva inferiorità, il profondo senso di inadeguatezza del soggetto discriminante. Grazie alla proiezione, esso copre la sua incompiutezza con un illusorio senso di superiorità.   
Alla base della disposizione all’agire discriminante, si trova una radicale inibizione dell’intensità e della profondità della componente femminile del godimento. Il godimento femminile richiede condizioni favorevoli all’attraversamento della destabilizzazione che lo caratterizza e una fiducia in sé e nell’altro, che non è scontata. Trova un equilibrio nella maggiore stabilità del godimento maschile, che però può ripiegare in un assetto contratto, difensivo. Quando il legami di desiderio  vanno in crisi (perché viene meno la reciprocità che li sostiene), il godimento femminile è disinvestito e quello maschile irrigidito (in entrambi i sessi). Il soggetto che più disinveste, perché più si aggrappa alle certezze, si sente incompiuto, menomato nell’interazione con l’altro (che produce solo frustrazione). Attribuisce a lui la compiutezza che gli è preclusa. Costringerlo all’inferiorità, nell’ambito di un dogma totalitario, incontestabile, gli appare l’unica via d’uscita possibile.  
Il razzismo ha una qualità ironica: la pretesa di negare lo statuto umano all’altro discriminato, disumanizza il razzista. Dando consistenza alla sua paura più inconfessabile: che la “scimmia”, l’essere disprezzato, sia un essere umano più vero e più vivo di lui. La disumanizzazione preterintenzionale del razzista è ciò che rende la sua violenza intenzionale estremamente distruttiva. La radice alienante preterintenzionale del razzismo si incastra con la nostra sottovalutazione, altrettanto preterintenzionale, dei fenomeni che l’agevolano. Di questo incastro è necessario che ci sentiamo responsabili. Il fatto che l’insulto di Calderoli a Kyenge sia stato condonato, invece di essere sanzionato con un’espulsione irrevocabile, è responsabilità ommessa del parlamento italiano.

 

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1 commento

  1. rodrigo_laura

    Grazie per questo articolo.
    Grazie per questo articolo. .mancano purtroppo tante voci come questa.

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