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I giovani del ’68 e la lunga marcia attraverso le istituzioni in Italia

18 Apr 17

A cura di dinange

Quasi alla fine di un lungo saggio[1] pubblicato in Italia proprio nel '68 Rudi Dutschke, il leader del '68 berlinese, diceva fra l'altro:
 
"Non dobbiamo fare un feticcio della nostra limitazione, storicamente corretta, al lavoro universitario. Una dialettica rivoluzionaria dei giusti passaggi deve concepire la "lunga marcia attraverso le istituzioni" come un'attività critico-pratica in tutti i campi sociali; essa ha per meta l'approfondimento critico-sovversivo delle contraddizioni, che è divenuto possibile in tutte le istituzioni interessate all'organizzazione della vita quotidiana."
 
Una lunga marcia composta, aggiungeva Dutschke, da "avanguardie autonominate" tenute insieme "non da una astratta teoria della storia, bensì dalla nausea esistenziale verso una società che chiacchiera di libertà e reprime sottilmente e brutalmente gli interessi e i bisogni immediati degli individui e dei popoli in lotta per la loro emancipazione economico-sociale.
Questa dialettica radicale – perché concernente l'uomo intero, di sentimento e di emozione (Marcuse) ove la teoria rappresenta l'espressione divenuta cosciente di questa dialettica – ci tiene oggi insieme più fortemente che mai contro questa società autoritaria statalizzata, e rende possibile una radicale unità di azione degli antiautoritari, senza programmi di partito e pretese di monopolizzazione."
 
Appartengo alla generazione del '68 ed ogni volta che ripenso a a ciò che per me ha rappresentato quella stagione mi ritornano a mente queste parole di Rudi Dutschke che a mio avviso rappresentano quasi un presentimento di ciò che nel bene e nel male sarà la direzione di 'marcia' che prenderà poi la mia generazione.
Ovviamente la lunga marcia cui Dutschke stava pensando allorché scrisse queste righe era da lui immaginata all'interno di un quadro palingenetico che vedeva le avanguardie studentesche delle metropoli occidentali – come lui dice nelle ultime parole del suo saggio, e come anche noi a Trento auspicavamo – impegnate a "rendere rivoluzionari i rivoluzionari per rendere rivoluzionarie le masse". Cioè a fare da detonatore di un processo rivoluzionario.
Le cose, come sappiamo, poi non andarono così. Ma a ben vedere quella esortazione alla lunga marcia attraverso le istituzioni, così come i suoi moniti a non farsi monopolizzare da alcun attore politico che non fosse direttamente coinvolto nella lotta anti-istituzionale, contengono nello stesso tempo una profezia e un monito.
La profezia è diventata, almeno per noi, quella lunga marcia all'interno della prescuola e della scuola, dell'accademia, della psichiatria, della sanità … così come della stessa fabbrica, della famiglia e dei rapporti di genere, che poi ha profondamente inciso sulle trasformazioni avvenute nella società italiana.
Il monito, purtroppo poi inascoltato, quello a rivisitare i vecchi, ma anche i nuovi idoli della sinistra, a non imbalsamarli e non rinunciare ad una azione fondata su una critica-pratica legata alle contraddizioni del presente. Su questo piano la nascita poco tempo dopo dei gruppi della cosiddetta sinistra rivoluzionaria rappresenta un arretramento e, nello stesso tempo, una chiusura che a volte (non solo nei gruppi armati) assume tratti autistici.
Per cui ciò che si determinerà negli anni a seguire sarà come uno sdoppiamento, che a mio avviso, soprattutto in una prima fase è facile ritrovare all'interno di ciascuno degli stessi giovani di allora: da una parte una adesione feticistica ai vecchi idoli del passato, e contemporaneamente una prassi nei luoghi di lavoro impregnata per una lunga stagione delle ragioni e dei principi più vitali del '68. È stata questa la nostra lunga marcia attraverso le istituzioni.
Lunga marcia che, come abbiamo visto ha attraversato tutti i gangli della società, e che, in base alla nascita tardiva del welfare nostrano[2], in Italia è coincisa con la nascita stessa del welfare. L'ex studente sessantottino che entrava nel mondo del lavoro portava lì le idee e le prassi che aveva maturato e appreso all'interno delle università e delle 'superiori', incontrava i nuovi operai, i nuovi impiegati, così come i vecchi rappresentanti delle istituzioni entrati in crisi per simpatia, i nuovi genitori che inviavano i propri figli a scuola, etc. e insieme intraprendevano quella lunga marcia italiana attraverso le istituzioni che ha sconvolto lo stato di cose allora presente e ricomposto fra mille resistenze un nuovo tessuto sociale, una nuova società che in fin dei conti, anche se attaccata in questi ultimi decenni dal neoliberismo imperante, è l'eredità che noi stiamo lasciando ai nostri figli e ai nostri nipoti.
Fra mille resistenze, dicevo. Comprese, com'è ovvio, le nostre, che provengono dalla parte più settaria e meno creativa di noi, che non è morta, ma si è come incistata dentro di noi. Parte che spesso tende a camuffarsi, ma che a ben guardare è sempre possibile riconoscere, e si cela in certi altrimenti inspiegabili irrigidimenti; così come al contrario in certe opportunistiche sterzate; in certe silenziose e solo apparenti capitolazioni. O più platealmente assume i contorni di una vera e propria dipendenza che spesso conduce ad un impegno purché sia.

 

 
 
 
 
 



[1] Rudi Dutschke, in: Rudi Dutschke et al., Le contraddizioni del tardo capitalismo, gli studenti antiautoritari e il loro rapporto con il Terzo mondo, in: La ribellione degli studenti, Feltrinelli, Milano, 1968, pp.49\134
[2] cfr: Stato centrale e welfare locale reggiano ieri ed oggi: previsioni, opportunità e realizzazioni, apparso anche in "L. Angelini, Quando saremo a Reggio Emilia, Gli psicologi, il welfare e le trasformazioni della società reggiana dal dopoguerra ai giorni nostri, Psiconline, 2014
 

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