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KUM! FESTIVAL 2017: L’enigma della follia e l’enigma della ragione

12 Mar 19

Di gilbertodipetta e francololli
Il testo che segue è la trascrizione del dialogo a due voci tra Gilberto Di Petta e Franco Lolli, svoltosi l’11 Novembre 2017 nell’ambito del KUM! Festival con la direzione di Massimo Recalcati e il coordinamento scientifico di Federico Leoni. In una gremitissima Sala Boxe all’interno della cornice della Mole Vanvitelliana, Di Petta e Lolli, due delle figure più interessanti della psichiatria e della psicanalisi italiane, come riportato dal programma del Festival,  hanno dialogato sulla follia non come sintomo da cancellare ma come enigma soggettivo da decifrare, dando voce, avvolti in un’atmosfera inconsueta per la platea anconetana, ad una appassionata Sonata d’Autunno a quattro mani, di bergmaniana memoria. L’ingovernabile assoluto della follia ha visto risuonare i suoi echi storici in una partitura alternantesi in una variazione fenomenologica e psicoanalitica sul tema. Il laboratorio basagliano a quarant’anni dalla sua fondazione appare ancor più oggi in bilico fra uno tentativo di restaurazione da parte di certi apparati burocratico-istituzionali e un senso di smarrimento generalizzato di fronte alla diffusione indiscriminata della follia stessa, spesso sotto mentite spoglie, nella realtà ipermoderma. Di Petta e Lolli, tra i massimi esperti in ambito istituzionale nella cura del mondo tossicomane l’uno e del mondo dei debili mentali l’altro, suggeriscono in questo dialogo, tanto inaspettato, quanto auspicato, la possibilità che i propri  linguaggi, psicoanalitico e fenomenologico, e ancor più in una declinazione lacaniana e binswangeriana, convergano su un punto preciso: ovvero che la follia rappresenta l’enigma dell’umano, e in tal senso, che la follia evoca piuttosto un viaggio oltre e di là dal mondo per un verso e un disperato tentativo di soggettivazione prima di essere io dall’altro. In entrambi i casi al centro in-siste, seppur nella lacerante sofferenza, in taluni casi immersa in aura di genialità, e di extra-ordinarietà, l’uomo stesso con il suo enigma. (DANILO TITTARELLI)

 
Gilberto Di Petta: Buona sera a tutti e benvenuti, non pensavamo che questo fosse un argomento di tanto interesse. E’ un argomento, quello che vede contrapposte follia e ragione, antico quanto il mondo, attraverso il quale, fondamentalmente, l’uomo si domanda qualcosa sull’enigma della vita; la follia e la ragione, termini così apparentemente antipodici,  sottendono il termine vita. Che li comprende entrambe. Non so se noi due, qui, stasera, facciamo la parte dei cattivi o dei buoni, entrambi siamo due professionisti della psiche, siamo figure istituzionali, con l’obiettivo della governabilità della follia. La mia professione, certo, non è nata per dare cittadinanza alla follia. Questa sarà allora una conversazione tra di noi. Vorrei cominciare citando un filosofo danese, padre della filosofia dell’angoscia e mi riferisco a Kierkeegard, che disse: “Voglio entrare in un manicomio per capire se la profondità della follia mi può spiegare l’enigma della vita”.
Entrai come medico volontario (ero ancora studente di medicina) presso il manicomio di Napoli, presso una sezione femminile, la quinta donne, ed ebbi un impatto con esistenze chiuse come delle farfalle nell’ambra e cominciai ad interessarmi a questa strana cosa che è la follia- Il mio percorso poi è proseguito dalla neurologia sino alla psichiatria fenomenologica. La follia è sempre esistita prima della psichiatria. Di fatto senza gli psichiatri o prima dell’arrivo degli psichiatri sulla scena, circa 200 anni fa con Pinel, medico rivoluzionario che liberò dalle catene gli alienati di Bicetre e della Salpetriere e fondò asili dove le persone potevano riequilibrare la ragione smarrita oppure riequilibrare un eccesso di passione che perturbava la ragione. La società prima di PInel aveva codici culturali tradizionali di lettura della follia: la follia  come manifestazione del demonio, del divino, del magico. Il matto trovava un suo spazio di contenimento senza dare troppo fastidio all’altro, una sorta di salvacondotto che gli dava la possibilità di evitare le incombenze che toccavano agli altri. La ragione, poi, con il suo trionfo illuministico, decide di incatenare la follia in realtà governabili. Erasmo da Rotterdam, nell’ Elogio della follia”, ne parla come di una vagabonda ingovernabile, e anche come sede di spiriti creativi che si sottraggono alla quotidianità. Già l’iconografia di Bosch indica le navi dei folli lasciate alla deriva sul Reno. Nel Rinascimento si comincia a perdere la possibilità di dialogo con i folli e dopo la rivoluzione industriale il folle è colui che non sta più alle regole sociali: Pinel dice che i folli non vanno incarcerati ma curati perché affetti da uno squilibrio delle passioni;la follia non è ancora, in Pinel, il contrario della ragione ma è in contrapposizione dialettica con la ragione; i due enigmi, quello della ragione e quello della follia, sono in dialogo ma ciò si perde con Griesinger e Kraepelin che pensano invece che la follia sia una malattia d’organo, mentre per i Francesi è una turba dell’organismo che interessa tutto l’uomo. Nel corso dell’ 800, i Tedeschi diventano sistematici, la follia diventa dementia praecox, o psicosi maniaco-depressiva o paranoia, e il folle internato scompare dalla società civile. Arrivano Minkoswki, Jaspers e Binswanger che incontrano Husserl e la fenomenologia, e si fa avanti l’idea che il folle esprime delle cose che il senso comune non comprende. Una corrente minoritaria in parallelo con la corrente della psicoanalisi fino ad arrivare ai giorni nostri in cui il paradigma medico diventa schiacciante e la psichiatria diventa biologica, farmaci e molecole, e perde gli aspetti sociali psicodinamici e psicopatologici. Nel momento in cui la follia è ridotta a silenzio chimico, escono pagine come “Per le antiche scale” e  “Nel manicomio di Pechino” di Mario Tobino, dove si descrive la follia furiosa che entra nel mondo del silenzio a seguito degli internamenti della chimicizzazione generalizzata. Oggi la follia è ridotta al silenzio, ad una chemioterapia massiccia che trasforma pazienti definiti produttivi, allucinati e deliranti, in pazienti silenziosi e spenti; la psichiatria ha mancato in questo senso l’incontro con la follia. La follia torna così a circolare all’interno della normalità. E nel momento in cui la ragione perde come sua interlocutrice la follia, ha estinto la follia e non sa più essa stessa che cosa sia, e la vendetta della follia è quella di infiltrarsi nella normalità quotidianità rendendosi indiagnosticabile e molto resiliente.
 
Franco Lolli: La conclusione del discorso di Gilberto mi offre la possibilità di affrontare la questione della follia proprio a partire dalla suo carattere di ‘quotidiana ordinarietà’. Il termine ‘follia’, in effetti, non è un termine medico: non si fa diagnosi di follia. In nessuna cartella clinica troveremo mai scritto che il paziente è folle. Noi psicoanalisti, ad esempio, siamo soliti utilizzare, come categorie diagnostiche fondamentali, le tre grandi configurazioni cliniche di cui ci ha parlato Freud: nevrosi, psicosi e perversione. La follia non è compresa tra queste. Eppure, follia resta un significante centrale, sia in campo psichiatrico che in quello psicoanalitico. Che cosa è, allora, la follia? Possiamo affermare che è un significante che attraversa le strutture, presente, cioè, nelle varie tipologie psicopatologiche come potenziale condizione dell’umano, che prescinde, pertanto, dall’eventuale definizione diagnostica. È importante sottolineare questo punto: la follia non è prerogativa esclusiva di una sola delle strutture di personalità. Non c’è coincidenza, ad esempio, tra il concetto di follia e quello di psicosi. Sappiamo con certezza che esistono psicotici assolutamente normotici, integrati nel discorso sociale, tanto da inventare – com’è successo spesso nella storia dell’umanità – nuovi paradigmi di pensiero, in campo matematico, scientifico o filosofico. Parlare di follia non equivale a parlare di psicosi: follia e psicosi non sono concetti completamente sovrapponibili. Si può essere psicotici e non essere folli e, viceversa, si può essere folli e non essere psicotici, Si riscontrano, in effetti, tratti di follia anche in soggetti nevrotici: nelle gravi nevrosi isteriche, ad esempio, la ricerca di affermazione della propria soggettività può condurre il soggetto a posture di rivendicazione e rancore tali da acquisire un vero carattere di follia (sebbene – è necessario specificare – conservino, a differenza della follia psicotica, la possibilità della reversibilità e del pieno rientro nella normalità). Follie transitorie, potremmo dire, ma pur sempre follie. La follia, dunque, è un significante che – per così dire – ‘circola’ all’interno dell’esperienza umana: esso mette in luce possibilità di vita bizzarre, stravaganti, extra-ordinarie, originali, insolite. In essa, si assiste allo sganciamento del soggetto dal discorso comune (o, più frequentemente, al suo mancato aggancio) e all’impossibilità (che, ripeto, riguarda, potenzialmente, ogni essere umano) di non includersi (o di non riuscire ad includersi) nel codice condiviso. In questo senso, il folle rappresenta il limite stesso del discorso. La sua esistenza smentisce che il discorso sociale e il sembiante siano in grado di ‘contenere’ l’intera esperienza umana: le sue manifestazioni, infatti, mettono in crisi le convenzioni, rappresentano una minaccia al senso comune. In altri termini, la follia rivela che nel sembiante c’è una lacuna, un  buco, c’è qualcosa che non funziona: ciò che il discorso sociale si illude di coprire con le sue narrazioni è svelato in maniera brutale dalla follia. Il re è nudo. Il sapere è incompleto: non c’è modo di dare un senso compiuto alla vita. La vita è alla deriva – come dice Lacan – e la deriva a cui faceva riferimento Gilberto parlando della nave dei folli è la deriva potenziale della vita stessa. La follia testimonia questa possibilità che concerne ogni essere umano: la possibilità di perdere gli ormeggi, di sganciarsi, di svincolarsi, di perdersi. Le insuperabili descrizioni di Primo Levi e di Bruno  Bettlheim sui campi di concentramento sottolineano esattamente questa circostanza speciale: persone che, prima della deportazione, erano saldamente inserite in un contesto psicologico e sociale stabile e consolidato, a contatto con l’orrore della detenzione, diventavano progressivamente apatici, passivi, inerti, sganciati dalla realtà, chiusi in un mondo altro: i ‘mussulmani. Quando il simbolico vacilla, in effetti, l’equilibrio psichico è messo in crisi: non c’è garanzia per nessuno. Ed è proprio questo effetto di rispecchiamento che il folle esercita sul cosiddetto normale, questo effetto speculare, inquietante e impressionante, che è all’origine delle reazioni di rifiuto che la follia ha da sempre scatenato nell’umanità (preoccupata di essere in qualche modo ‘contaminata’ da quello strano modo di stare al mondo). Il folle segnala il limite della ragione con il quale ognuno deve fare i conti. Il rigetto sociale della follia scaturisce dallo spavento provocato dalla sua intima contiguità con la normalità. L’effetto perturbante – come direbbe Freud – è causato dalla percezione che nell’apparente diversità del folle alberga un’intima somiglianza, una consonanza intollerabile, un’affinità che si preferisce ignorare. La follia, in tal senso, si configura come una delle forme più eclatanti dell’ingovernabile, la cui potenza e la cui forza, non trattata dal potere pacificante del simbolico, minaccia l’essere umano e il suo presunto equilibrio. Quando prende il sopravvento, conduce il soggetto in un’altra dimensione, lo  ‘sgancia’ dalla giostra nella quale tutti gli altri – senza rendersene conto – girano, lo priva – per usare una metafora a mio avviso efficace – della possibilità di prendere lo skilift, costringendolo a rimanere a guardare tutti quelli che – pur se inconsapevoli dell’alienazione dell’andar su e giù sulla stessa pista – felicemente sciano. La follia frattura la presunta consistenza del simbolico e ne dichiara l’assoluta infondatezza. A questo proposito, particolarmente evocative risultano le riflessioni di Freud sulla lucidità del folle, sul suo denunciare l’assenza di garanzia, l’arbitrarietà della vita, la sua mancanza di fondamento. È questo buco nel (e del) sapere – che il folle vede e mostra senza riserve – il punto che la psicoanalisi interroga. Il suo compito è esattamente questo: fare spazio (attraverso la parola) a questa esperienza estrema dell’umano, ascoltarla, dargli un posto, far sì che essa trovi un luogo di elaborazione grazie al quale entrare in uno scambio con l’altro, anziché restare confinata nella solitudine che la sensazione di un’irriducibile diversità procura.
 
Gilberto Di Petta: ringrazio Lolli per questo affondo. Tento di ribaltarlo: un grande psichiatra francese tra quelli che hanno scritto un trattato da solo, e si chiamava Henry EY,  dice che la follia è la malattia della libertà. Quelle persone dentro le quali il senso comune si inceppa e si incaglia, sono persone che perdono la libertà, ma mi sentirei di dire che la follia è anche la nostra ultima garanzia di libertà umana. L’uomo è l’unico essere vivente che può impazzire quindi è un essere libero. Per quanto tutti i ricercatori si sforzino di replicare la follia in ambito sperimentale, non riescono a crearla e replicarlo in nessun essere vivente. I folli smascherano l’inautenticità, mentre il senso comune è fatto di inautenticità, gli schizofrenici sono coloro che più si avvicinano alla follia e si pongono domande metafisiche, che concernono il bene il male, l’esistenza di Dio, la trasmigrazione dell’anima, che cosa c’è dentro e intorno alle cose, e cristallizzano l’intera vita intorno a queste domande che ci tutti ci facciamo da bambini, che diventano intense in adolescenza e scivolano in un dimenticatoio nella quotidianità, nel corso della vita. E domande metafisiche con il tempo smettono di avere rilevanza e se ne occupano solo, a vario titolo, i talenti, i poeti con i versi, i filosofi che ne fanno sistemi di pensiero, gli artisti che ne fanno opere d’arte, noi no, noi uomini del senso comune viviamo sino alla morte facendo come se questa fosse la realtà, distinguendo tra buio e luce, tra sonno e veglia, tra fantasia e realtà, tra ragione e passione, moltiplicando questi algoritmi; il folle non lo fa. Visto che tra poco corrono i quarant’anni dalla legge 180, che ha donato al nostro Paese la normativa sulla follia più civile e umana del mondo, noi dovremmo tutti, non solo tecnici, ma cittadini e essere umani, garantire oggi più che mai ai folli condizioni più umane, a coloro che, malgrè soi, sono folli senza sceglierlo- Per ragioni assolutamente enigmatiche si apre uno squarcio e un’esistenza viene risucchiata, e anche riportandola a galla, le forniamo delle carte provvisorie per stare in mezzo a noi. Ma essa rimane sempre anche altrove, e per questo noi dobbiamo amarli, i folli. Esistenza deriva da Ex-sistere, l’etimologia rimanda al fuori e allo stare, termine paradossale enigmatico e contradditorio. Chi è l’uomo? L’uomo è l’essere che sta, ma si protende anche al di là, oltre e fuori da sé. In questa posizione precaria l’uomo è, in definitiva, un essere senza patria. Sicuramente la terra è più la patria del cane, del piccione, degli animali in genere, degli oceani, e di tutte le creature viventi. Ma essa è transitoria per l’uomo, che lo voglia o no. Che sia folle o meno. Certo, il folle è costretto a  stare altrove perché la botola delle sue fondamenta si è aperta ed egli precipita. Mi viene da pensare a quanto la nostra ragione deragli ultimamente, internet è piena di siti complottisti, ci sono forum che negano costantemente la realtà di conclamati fatti storici, e ci sono una serie di persone che sono pronte a giurare che questo o quell’altro non è vero. Io non mi permetterei di mettere in dubbio ciò che questi siti sostengono, così come non contraddico il contenuto del pensiero in un delirio, ma rifletterei molto di una ragione che si consente dei deragliamenti collettivi fuori dai limiti che la ragione stessa si è posta. Ovvero una ragione che nega la ragione storica, o la ragione scientifica. Forse proprio perché abbiamo messo un silenziatore alla follia,   ormai tutto è gesto di follia, per dire come la follia che cerchiamo di silenziare farmacologicamente. Con tutta l’importanza dei farmaci, non possiamo curare la follia solo con i farmaci come se fosse un cancro perchè questa circola oltre se stessa: persone che si inducono viaggi deliranti senza ritorno, con le sostanze stupefacenti; persone che fanno agiti criminali non inscritti in personalità francamente patologiche o persone che fanno agiti comportamentali che non siamo preparati a trattare, mentre noi ci illudiamo di aver ingabbiato al follia classica, e la nostra ragione deve molto interrogarsi su questo. La posizione dello psichiatra è quella di potere nei confronti del folle e di dovere nei confronti della società, occorre lavorare sull’equipe affinchè si faccia il possibile e nel rispetto del paziente. 
 
Franco Lolli: Credo che la psicoanalisi lacaniana abbia commesso in passato un errore grave. Un errore che Franco Basaglia aveva denunciato chiaramente nei suoi ultimi scritti, quando invitava i suoi lettori a non trasformare i risultati della sua azione ‘rivoluzionaria’ in una nuova ideologia, quando, cioè, cercava di promuovere, proprio all’apice del successo della sua visione sulla cura della malattia mentale, il processo dialettico del mettere in discussione le tesi affermate e verificate e di sottoporle ad una continua critica per evitare che il pensiero (una volta raggiunto i suoi obbiettivi) si arrestasse e si traducesse in dottrina. Ebbene, negli anni 60-70 del secolo scorso, in certi ambienti psicoanalitici francesi, si è fatta strada l’idea che la follia fosse la sola possibile rappresentazione della libertà umana, il suo punto più alto: una sorta di elogio della follia, una postura ideologica maturata in seguito all’inclusione del paziente psicotico all’interno della cura analitica (che Freud – bisogna ricordarlo – aveva considerato impossibile). La follia veniva vista, improvvisamente,  come unica chance di liberazione dai vincoli repressivi della società. Una visione a dir poco ingenua, che non teneva conto della dimensione di ‘prigionia’ nella quale il folle vive, alienato, come realmente è, al discorso dell’altro, ‘parlato dall’altro’ – sosteneva Lacan. Il folle, in effetti, è abitato da un discorso non suo, dal quale non riesce, il più delle volte, ad emanciparsi. E se questa condizione di alienazione – come sappiamo – riguarda ogni essere umano, la condizione del folle ne sottolinea l’assoluta drammaticità. Altro che libertà: il folle è schiavo di parole non sue, che non ha scelto, che ripete senza sapere di ripetere, che lo invadono, lo tramortiscono, lo perseguitano. C’è una dimensione di asservimento insuperabile che il folle vive e che rende assolutamente improponibile l’idea di una sua presunta libertà. La follia è, alla sua radice, sofferenza. E se è vero che, in qualche caso, della follia si riesce a farne qualcosa (penso ad artisti, scrittori, scienziati che dalla loro condizione psicopatologica hanno estratto un inestimabile materiale creativo), è altrettanto vero che nella stragrande maggioranza – questa, perlomeno è la mia esperienza clinica – le persone cosiddette folli risultano sprovviste dello strumento sublimatorio e restano vittime di parole che non sono le proprie, così che il discorso dell’altro continua a parassitare la loro psiche. Che fare allora di questo discorso che invade il folle, costringendolo, il più delle volte, a soluzioni tanto grossolane e problematiche, quanto inefficaci? Se non c’è un dispositivo simbolico capace di ‘trattare’ questi vissuti così estremi e radicali, se non c’è un apparato di cura fondato sulla parola in grado di fare spazio all’indicibile di queste esistenze ‘di frontiera’, se non si crea un luogo di ascolto, di accoglimento, di contenimento di un materiale così tossico e incandescente, ebbene, se tutto questo non trova un posto di elaborazione simbolica, ciò che non entra nel discorso riappare nell’atto, nei passaggi all’atto. Il compito della psicoanalisi è strutturare un setting speciale che possa provocare l’elaborazione di questo materiale che avvelena letteralmente il soggetto, che lo inviti a farci un discorso intorno, un giro sempre più stretto, che circumnavighi il nucleo ribollente che, sebbene non potrà esser detto tutto, si raffredderà e stempererà nella misura in cui al soggetto sarà data la facoltà di parlarne. È un’esperienza accertata: ascoltare il delirio, non smentirlo, non contrastarlo, non opporvi la presunta ragione, ha un effetto di riduzione dell’intensità del delirio stesso. Il folle soffre perché nessuno gli crede: nessuno, cioè, crede a quello che per lui è l’unico modo di trovare una consistenza – per quanto fuori dalla convenzione sociale – alla propria esistenza. La neo realtà che egli costruisce per ‘rammendare’ (così si esprime Freud) lo strappo che si è prodotto nella sua psiche è l’unica realtà nella quale egli può vivere. Si tratta di rendersi conto di questo dato. Per quanto problematico (e compromettente) per il suo rapporto con la realtà. Il delirio – occorre sempre ricordarlo – rappresenta l’unico modo per riparare la frattura, la scissione dell’io, l’Ichspaltung, la ferita sanguinante che bisogna, in qualsiasi modo, cicatrizzare, suturare. Le manifestazioni della follia, che noi riteniamo il problema, sono per il folle, la soluzione alla sua vita minacciata, alla sua sopravvivenza sempre a rischio. Ciò che noi consideriamo patologico è ciò che è vitale per il folle. Questa discrepanza rappresenta una vera questione. Come sintonizzare la bizzarria del folle – che gli è necessaria – con la richiesta di conformismo che la società pretende? Come armonizzare la sua particolarità stravagante – e, assai spesso, socialmente fastidiosa – con la domanda di omogeneizzarsi al senso comune? Come può accordarsi il diritto del folle ad utilizzare quella che è la sua unica stampella per tenersi in qualche modo in piedi (una stampella che, come sappiamo, appare come deforme e inaccettabile per i consueti criteri di convivenza) con il diritto della società di difendersi da quanto la mette profondamente in discussione? Si tratta di una serie di interrogativi che è bene porsi, pur in assenza di una risposta definitiva. La mia idea che una buona politica di riduzione del danno (politica che, un tempo, si applicava alla cura della tossicodipendenza), possa essere un modo per fare i conti con la stravaganza della follia e per trovare forme inedite di equilibrio tra istanze diverse e di pari dignità.
 
Gilberto Di Petta: visti tempi e le condizioni attuali c’è bisogno di un tentativo disperato e necessario che come umanità noi dobbiamo fare per intavolare un dialogo con il folle. Certo non c’è via di uscita dalla follia esaltando la follia, né c’è via di uscita dalla normalità esaltando la normalità, e se c’è una cosa che la follia ci può insegnare è prendere ancora contatto con gli affetti, lo spazio, il tempo, la relazione, l’incontro. Oggi  ognuno sembra non avere più tempo per la passione e la parola: ma l’umanità è arrivata ad una corsa tecnocratica e tecnomorfa che aliena elementi a forte connotazione umana. Quando lavoriamo con i pazienti è la gioia di prendere tempo, di prolungare l’ascolto, di parlare quando è il momento, come senti il corpo, come ti muovi nello spazio come percepisci il tempo e che senso ha, precipita verso il futuro, è rimasto piombo nel fondo del passato o è una corda su cui puoi precipitare. La follia ha molto da insegnarci in quanto umanità che avrebbe voluto ridere, sognare, amare. La follia, se la assumiamo come una possibilià dell’umano, come la possibilità più vera dell’umanità, ci consente di mettere un correttivo ad una corsa iniziata due secoli fa, che rischia di non portarci da nessuna parte. Se c’è un tentativo che abbiamo il dovere di fare come operatori, è quello di fare una mediazione. Il  sociale ci dice che è affare nostro, che dobbiamo avere a che fare noi con questi pazienti, e così quotidianamente noi veniamo aggrediti e noi combattiamo la lotta. Non lasciateci soli, queste persone, i cosiddetti folli, hanno molto da dire, a tutti. Il  loro è un discorso antico, ma l’uomo ha un origine che non è mai antiquata, riconosciamo che nelle accelerazioni estreme e nelle mutazioni antropologiche vengono decapitati i nostri sogni, e rischiamo, come umanità, di fare come Icaro andando verso il sole con le sue ali di cera. Il folle, in fondo, ci ricorda che l’umanità ha un limite e solo incontrando e interrogando  quel limite possiamo scoprire le nostre basi  autentiche. Un altro esempio di come la follia e la creatività si sono interfacciate è quello del genio e della follia. Da sempre le figure del genio e della follia si sono scambiate le parti; in una visione romantica le menti geniali non possono che aver qualcosa di folle. La follia, tuttavia, quella vera e non estetica, produce visioni che non si può fermare con un’ipotetica macchina fotografica. La follia vera, infatti, distrugge anche il dispositivo, ed è difficile farsi fare resoconti precisi delle cose che i folli hanno visto o sentito, perchè sono fatte di dolore immenso e non sanno neanche più raccontarle perché sono accadute in una zona dove non c’è più il linguaggio. Su ciò che concerne la creatività e la follia mi attengo a Jaspers che ha scritto su Van Gogh e Strindberg, i quali  hanno avuto percorsi folli e hanno prodotto opere di caratura artistica: noi ci domandiamo perché mai la perla nasce dal difetto della conchiglia, ma noi dobbiamo pensare che la perla nasce nonostante il difetto della conchiglia.

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2 Commenti

  1. dr.ceparano

    A Danilo Tittarelli il merito
    A Danilo Tittarelli il merito di aver raccolto questa sonata a quattro mani di bergmaniana memoria, consegnandoci lo spartito ma soprattutto l’atmosferico che quel profondo ed intenso dialogo ha prodotto, dove l’enigma della follia e l’enigma della ragione hanno trovato nell’uomo in quanto tale il vero enigma. Ho cercato, nel leggere, di immaginare lo scenario in cui quelle parole sono state proferite e di come il senso del limite sia stato varcato proprio per poter cogliere quel limite in cui la follia e la regione si declina. Il limite della ragione che vira (o potrebbe) verso il negare sé stessa; il limite della follia che vira (o potrebbe), nell’affermarsi, verso l’autentica genialità. L’enigmatico ed il liminare si incontrano nell’umano: la ragione potrebbe tendere, nell’incontrare il limite, alla follia; la follia potrebbe tendere, nell’incontrare il limite, alla ragione geniale. Il lato oscuro dell’umano va sempre accolto in un dispositivo simbolico, nel linguaggio di Lolli. La possibilità di un lato oscuro va compresa attraverso l’umano essere che sta nel mondo, nelle visioni di Di Petta.
    Sono questi incontri-dialoghi, per noi che operiamo all’ombra enigmatica dell’uomo, sviluppatori di senso che ci portano inesorabilmente sul pezzo. Un discorso che non andrebbe mai interrotto sull’ingovernabile che domina. Concluderei ringraziando Di Petta e Lolli con le parole di Recalcati: “Il governo giusto non è quello che persegue lo scopo di annullare l’ingovernabile, ma quello che lo sa ospitare”.

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  2. admin

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