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LA LENTE PSICOTRAUMATOLOGICA: alcuni assunti epistemologici

24 Giu 18

A cura di areaweb

di Raffaele Avico, psicologo psicoterapeuta, socio AISTED
 

COS'É L'EPISTEMOLOGIA?


Nel suo libro “Il mondo nella mente”, il filosofo ed epistemologo Mario Galzigna esegue un'analisi accurata di ciò che dal suo punto di vista rappresenta l'humus epistemologico dal quale si sviluppa la psichiatria moderna, partendo da un'analisi storico-filosofica della psichiatria per come la conosciamo. Epistemologia, l'autore ci insegna, è l'insieme degli assunti su cui si fonda un determinato sapere, e nessun ambito scientifico ne è esente, in particolar modo laddove si utilizzi, come metodo conoscitivo, il metodo ipotetico induttivo (partendo cioè da evidenze fino ad arrivare ad assiomi postulati in base al ricorrere di queste stesse evidenze, metodo mai perfetto, per sua natura, su cui si fondano le attuali scienze umane, medicina compresa).

Compiere un lavoro di analisi epistemologica a riguardo della salute mentale, obbliga chi la esegue a uno sforzo duplice: da un lato gli chiede di mettere in luce il percorso storico (la genealogia) che portò al formarsi di alcune convinzioni, dall'altro lo obbliga ad ammettere come ogni sapere debba contestualizzarsi entro un determinato scenario: l'etnopsichiatria e l'etnopsicoanalisi sono esempi lampanti di come, in culture diverse, germoglino forme diverse di sofferenza mentale. Già solo considerare come in qualsiasi stato dell'Africa centrale, la malattia mentale non abbia né le fattezze, né la rappresentazione sociale che ne abbiamo in Occidente, dovrebbe interrogare il clinico, secondo Galzigna, su come esistano assunti epistemologici e trame concettuali formatesi storicamente assolutamente, indiscutibilmente contestuali, non assolute.

Eseguire un lavoro sull'epistemologia, è tuttavia necessario affinché non ci si formalizzi entro percorsi concettuali rigidi, che rischierebbero di oscurare il campo di osservazione nei confronti della malattia mentale, fenomeno complesso e cangiante insieme alla cultura che lo ospita. In questo senso, l'autore cita alcuni studiosi di antropologia clinica e medica impegnati a smascherare le sotto-trame epistemologiche dei sistemi di cura del mondo occidentale, come Tanya Luhrmann, che per 6 anni (dal 1989 al 1995) eseguì un lavoro di osservazione antropologica sul campo immergendosi nei luoghi di cura psichiatrica degli Stati Uniti, per arrivare alla stesura del suo volume Of Two Minds, nel quale rifletté sulla distanza apparentemente inconciliabile tra l'approccio neurobiologico e il mondo della psicoanalisi/psicoterapia in ambito di salute mentale. Un lavoro come quello dell'etnografo clinico, prosegue Galzigna, consente di operare quella che definisce un'ascesi epistemologica: imparare quali sono gli assunti sui quali si ragiona in termini clinici, al fine di superarli, per andare oltre.

In questo senso, negli ultimi anni si è osservata una certa tendenza a movimenti convergenti di discipline che alla radice sembravano inconciliabili (per esempio la neuroscienza e la psicoanalisi, oggi conferite nella nuova -ma già auspicata da Freud- neuropsicoanalisi), che hanno trovato la loro giustificazione nelle scoperte relative a come l'ambiente possa modellare l'espressione genica (gli studi per esempio sull'apprendimento, o sull'ansia o la paura appresa). L'autore si augura, in questo senso, che sempre di più ci si possa muovere verso un approccio integrato.

LA LENTE PSICOTRAUMATOLOGIA: ASPETTI CLINICI

Osservare la realtà clinica portata dai pazienti attraverso una lente psicotraumatologica significa fare i conti con una serie di assunti di base derivati da letture, spunti intellettuali e di ricerca, uniti ad inevitabili osservazioni personali. Credo che le problematiche trattate, il funzionamento della psiche, la realtà fenomenologica della coscienza e dei sintomi, le ripercussioni psicosomatiche del malessere psicologico, etc., siano problemi troppo complessi e a tratti inconoscibili, per non richiedere una o più chiavi di lettura o modelli teorici da utilizzare nel tentativo di semplificare il problema e poi affrontarlo, o almeno provarci. Credo quindi utile riassumere alcune convinzioni che mi pare di aver maturato nel corso del lavoro con i pazienti gravi, che hanno sostanzialmente la funzione di fornire a chi voglia approcciare questo tipo di problemi, una serie di spunti e riflessioni che lo possano aiutare nell’esplorazione della problematica portata dalla persona e i suoi sintomi.

Avere una griglia di lettura vuol dire anche avere un’idea di come possa funzionare la psicologia umana, o almeno avere alcuni “proto-schemi”/intuizioni (un'epistemologia della psicologia) su come possa comportarsi la psiche di un esser umano in alcune condizioni contestuali. Questo insieme di convinzioni è per me una rete di salvataggio, molto personale, nel mare della complessità della psicopatologia: sono anche consapevole di come qualunque “verità” concernente la psiche e la mente umana, sia sempre stata storicamente transitoria e soggetta a critica (essendo che la scienza psicologica lavora su modelli della mente, e non sulla mente stessa, non esplorabile in vivo come si potrebbe fare, per esempio, con un organo del corpo); è facile rendersi conto, allo stesso tempo, che non fornirsi di linee-guida teoriche, o anche solo di un modello di riferimento, sarebbe un suicidio intellettuale.

Ho derivato questi assunti epistemologici dalla letteratura recente in ambito di psicoterapia cognitiva (le opere per esempio di Liotti, di Van Der Kolk, gli scritti sui disturbi gravi di personalità di Semerari) e di psicotraumatologia clinica che mi è parsa più plausibile per come osservi e tenti di spiegare le diverse forme della psicopatologia, e più potente nel descrivere ciò che quotidianamente osservavo nel lavoro con la difficoltà dei pazienti. Provando a sintetizzare alcuni di questi assunti:
 

  1.  É possibile che le più comuni diagnosi psicopatologiche inerenti i disturbi di asse II (per usare una terminologia ormai desueta, ma famigliare), spesso inquadrate nei due macro-ambiti dei disturbi d’ansia e disturbi dell’umore, andrebbero ripensate alla luce delle più recenti ricerche in ambito psicotraumatologico, con particolare riferimento al concetto di Stress Post Traumatico Complesso e a tutto ciò che concerne il “dopo-trauma”. Credo che alcune sindromi genericamente etichettate come disturbi dell’umore, o disturbi d’ansia generalizzata, sarebbero da ri-pensare come secondarie a un disturbo da stress post-traumatico primario. Questo è in linea con il lavoro teorico e clinico di molti autori, in Italia soprattutto Gianni Liotti, vero luminare nell’ambito. Il tentativo da parte del paziente di adattarsi ai sintomi post-traumatici produce, secondo questa lettura, una cascata di sintomi secondari che nel tempo si configurano in sindromi di forma altra, poi diagnosticate e ricondotte a problemi di diversa natura, che non hanno più nulla a che fare con il problema a monte. L’adattamento a un disturbo post-traumatico è, in quest'ottica, l’inizio di molte forme di disturbi di ansia e di disturbi depressivi: il problema sostanziale rimane tuttavia la gestione di uno stress di tipo post-traumatico, appunto, originario.

  2. I sintomi di natura post-traumatica irrompono nella vita del paziente sotto forma di pensieri intrusivi e ossessivi, sintomi fobici e conseguenti evitamenti di tutti i possibili trigger (un trigger è uno stimolo che ri-attiva le memorie traumatiche, che può arrivare dall'esterno o dall'interno a sè), insieme a pesanti ripercussioni somatiche: far fronte a queste problematiche significa andare ad indagare la percezione di controllo che il paziente senta di avere sulle sue stesse difficoltà. Aiutare il paziente significa restituirgli quote di libertà percepita attraverso un senso di aumentato controllo sul suo stesso problema. Il trauma purtroppo è accaduto e sarà sempre, centralmente presente nella memoria (implicita o esplicita) del paziente: si tratta di capire come gestirlo e come vivere bene, pur in compagnia della sua memoria.

  3. L’irrompere dei sintomi post-traumatici incide sulla continuità e sulla coesione della coscienza e del sé: crescere traumatizzati da abusi cumulativi (traumi chiamati informalmente traumi con la “t” minuscola), o sopravvivere a un trauma maggiore (traumi con la “T” maiuscola), produce la sensazione di essere “interrotti”: esiste un prima e un dopo, la vita sembra cambiare direzione/corso. Credo che una ricostruzione narrativa degli eventi aumenti il senso di coesione del sé e il senso di controllo sui propri sintomi: ci troviamo lontani dunque da visioni prettamente comportamentistiche o troppo prescrittive. Occorre fornire al paziente lo spazio per un lavoro di rielaborazione dei propri vissuti, insieme ad alcune indicazioni teoriche applicate a riguardo dei propri sintomi e della loro gestione.

  4. É facile notare, nel lavoro con i pazienti gravi, grosse problematiche sul piano di quella che in psicoterapia cognitiva viene definita “funzione di regolazione emotiva”: la capacità di modulare le reazioni alle forti emozioni esperite nel corso di un vissuto post-traumatico. Aiutare un paziente significa anche aiutarlo nel tentativo di regolare la portata delle sue emozioni, spesso veementi. La gestione di un’emotività troppo intensa restituisce subito un senso di controllo e di conseguenza un senso di benessere.

  5. Credo che la psicoterapia andrebbe pensata, in senso allargato, come un approccio multidirezionale alla sintomatologia del paziente. Nel momento in cui sia necessario passare attraverso il lavoro con le cognizioni per modulare i vissuti emozionali e diminuire le ricadute corporee (direzione top-down), sarà la psicoterapia comunemente intesa a essere preferibile; quando invece sarà necessario passare dal corpo per arrivare “in cima” (direzione bottom-up), saranno altre strade a essere battute, più applicate. Questo assunto proviene dall'ulteriore convinzione di base su una completa interdipendenza di mente e corpo. Intervenire sul corpo vuol dire intervenire sulla mente e viceversa, come d’altronde avallato dalla ricerca in ambito neuroscientifico (pensiamo per esempio agli studi relativi alla nascente e avanguardistica branca psico-neuroendocrinoimmunologica).

  6. Lavorare con la sintomatologia portata dal paziente vuol dire avere a che fare con due aspetti di ciò che il paziente porta: i contenuti e i processi. La psicoterapia cognitiva non si occupa tanto dei contenuti, ma si concentra sui processi. Credo che che i contenuti possano essere pensati come figli (in buona o cattiva salute) dei processi mentali -più o meno integri. Quando parliamo di processi mentali intendiamo i processi mediati dalle funzioni meta-cognitive (la capacità di integrare i contenuti inerenti parti di sé diverse, di distinguere un pensiero dall’altro, di distinguere la realtà dal pensiero, di sentire di essere all’interno del proprio corpo, di proiettarsi nella mente dell’altro, ecc.): tutto ciò in altre parole che concerne le cosiddette funzioni mentali superiori (per usare una metafora, non tanto le parole che si usano, ma l’organizzazione del discorso, la sua coerenza interna, la punteggiatura, etc.). In alcuni frangenti del lavoro clinico, è opportuno che la psicoterapia si focalizzi su questi aspetti, più inerenti i “processi”.

Visti questi assunti, è chiaro che ipotizzare la lettura della realtà clinica di un paziente filtrata da una lente psicotraumatologica, significa andare a cercare uno stress post-traumatico al di là delle più usuali categorie diagnostiche spesso portate come “biglietto da visita” sia dal paziente che dai suoi -altri- curanti. Dal mio punto di vista, tuttavia, la sua presenza è più frequente di quanto normalmente si pensi.

Osservare le persone, cercare di fare diagnosi a partire da una lente psicotraumatologica, significa infine considerare l’animale uomo come potenzialmente “sano dalla nascita”, ovvero sano e integro -psichicamente, ovviamente al di fuori di quelle che sono le complicanze inerenti il neurosviluppo e le questioni più strettamente neuropsichiatriche- per nascita, e successivamente “toccato” dalla portata dei traumi da esso soggettivamente sperimentati. Spesso le persone sono come alberi cresciuti intorno a un pilastro centrale, a cui si sono inevitabilmente adattati: questo pilastro è l’insieme dei traumi, la flessibilità e l’adattabilità dei rami di questo albero, rappresenta la potenzialità e la positiva capacità di adattamento al trauma stesso.

 

BIBLIOGRAFIA e approfondimenti:

Liotti, G., Farina B. (2011). Sviluppi Traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa. Milano: Cortina Editore
 

Van der Hart, O., Nijenhuis, E.R.S., Steel, K. (2011). Fantasmi nel sé. Trauma e trattamento della dissociazione strutturale. Raffaello Cortina Editore, Milano.

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