Virginia Raggi, sindaco di Roma, ha sfrattato, lei donna, la “Casa delle donne”. Il suo gesto, per nulla solidale, ci dà due insegnamenti. È inutile appellarsi a sesso di Raggi se lei non agisce a partire dal suo essere donna (ed è, di fatto, ostaggio è complice di un potere politico maschile). La solidarietà tra le donne è nella particolarità condivisa del loro modo di essere. La particolarità è legata alla libera espressione del loro corpo erotico e non all’appartenenza a un sesso biologico o, peggio ancora, al “genere” in cui le racchiude la tassonomia sociale.
Il corpo erotico delle donne, quando è nella condizione di esprimersi compiutamente, vede e pensa il mondo con il suo sentire, trasforma ciò con cui stabilisce un rapporto per via della propria trasformazione. Gode la vita, esponendosi ad essa, in modo più intenso e profondo del corpo dei maschi. È meno incline all’agire e al calcolo delle conseguenze, misura con l’apertura del proprio coinvolgimento la profondità dell’esperienza. Non si fa ingannare dalle falsificazioni, ama ciò che è vivo e rifiuta ciò che è morto.
La presenza nella città di una “Casa delle donne”, a spese dell’amministrazione pubblica, ha un fondamento importante -mentre una “Casa degli uomini” appare del tutto impropria- che non è quello dell’occupazione degli spazi pubblici da associazioni costruite dai maschi a loro immagine e somiglianza. Non può essere ridotta alla prospettiva delle “quote rosa”. Ha, invece, la funzione, arricchente sul piano culturale e politico, di rappresentare, realmente e simbolicamente, la femminilità della Polis che la rende casa di tutti: l’intimità delle relazioni tra i cittadini, il loro essere costruite su basi conviviali, fraterne, amicali, erotiche.
La cultura femminile, condizione necessaria perché la democrazia possa risolvere la sua contraddizione (il conflitto tra inclusione ed esclusione), evita la tradizionale divisione tra privato (in cui erano confinate le donne) e pubblico (in cui dialogavano gli uomini) e, al tempo stesso, il dissolversi attuale dei loro confini che riduce gli esseri umani in monadi neutrali sul piano sessuale, incapaci di relazionarsi veramente tra di loro.
La solidarietà tra le donne (senza la quale nessuno “scambio di doni” con gli uomini e davvero possibile) non avrà un grande futuro se il movimento della loro emancipazione continuerà a subire il dirottamento maschile verso rivendicazioni difensive modellate sui recinti della “riserva indiana” o sulla protezione di un oggetto aggraziato ma fragile. Se la costituzione delle donne come soggetti politici (a partire dal fondamentale seppure tardivo riconoscimento del diritto al voto) seguirà la strada del miglioramento delle loro condizioni materiali: il diritto a una maternità di puro accudimento (che camuffa il suo essere, tuttora, un obbligo sociale), il diritto alla carriera nel campo della produzione, il diritto a essere vive e sane sul piano biologico (la logica che sottende oggi la lotta contro il femminicidio).
Avanza una società di uomini eiaculatori e di donne frigide, di cui è scandaloso parlare, che genera violenza tutte le volte che le donne vogliono restare vive eroticamente e libere. Produce una spaccatura tra donne competitive con gli uomini sul piano economico e politico, al prezzo della rinuncia alla loro identità, e donne che restano sole con se stesse. La spaccatura complica molto la storica separazione tra donne emancipate e donne sessualmente e/o economicamente subalterne.
La particolarità del modo femminile di essere è la casa della civiltà delle donne e degli uomini. Dimenticarlo è suicida.
0 commenti