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La psiche è estesa, di ciò non sa nulla” (Freud, postumo)

6 Gen 19

A cura di antonello.sciacchi16

Scienza chiusa, scienza aperta

Non mi stupisce che alcuni colleghi lacaniani nutrano diffidenza, non dico ostilità, nei confronti della scienza moderna. Non è un loro partito preso; è un atteggiamento diffuso e ben radicato nei fondamentalismi correnti – una sorta di disagio nella civiltà – risalente agli albori della scienza moderna, quando la Curia Romana perseguitava Galilei (1633). Secondo Pascal Bruckner, non da oggi esiste un odio generalizzato per il sapere che premia l’incompetenza.[1] Da lacaniano mi stupisce, invece, un tratto specifico del lacanismo, la paradossale volontà d’ignoranza, che dichiara paranoica una scienza avvertita come persecutoria. Freud parlerebbe di proiezione all’esterno di contenuti psichici interni. La paranoia riuscita sarebbe perseguitata da una paranoia?

La science et la vérité (1965) di Lacan contiene un passo ambiguo che può far pensare alla scienza come paranoia. È alla pagina 874 degli Écrits. Riporto la versione di G. Contri: “Tuttavia, se si riesce a cogliere che una paranoia riuscita apparirebbe anche come la chiusura della scienza, se fosse la psicoanalisi a esser chiamata a rappresentare tale funzione, – e d’altra parte se si riconosce che la psicoanalisi è essenzialmente ciò che reintroduce nella considerazione scientifica il Nome-del-Padre, incontriamo ancora la stessa apparente impasse, ma con la sensazione che grazie a questa stessa impasse si progredisce, e che da qualche parte si può veder sciogliersi il chiasma che sembra fare ostacolo. […] Bisognerà certo che indichi che l’incidenza della verità come causa nella scienza va riconosciuta sotto l’aspetto di causa formale”[2]

A giustificazione del mio maestro devo però precisare che probabilmente, parlando di causa, Lacan non si riferiva alla moderna scienza galileiana, che non è eziologica, perché non è empirica ma basata su esperimenti mentali,[3] cioè su modelli immaginari; probabilmente Lacan pensava alla scienza antica, in versione hegeliana, fortemente determinista, prodotta e sigillata dalla causa formale aristotelica, riproposta da Hegel come Sapere Assoluto. In proposito va giustamente riconosciuto che la “paranoia riuscita”[4] chiude la scienza antica – l’aristotelico scire per causas; è vero che tale scienza si ripiega su sé stessa e non progredisce, una volta approdata alla verità ultima del Sapere Assoluto, che è anche la Causa Prima dell’intera evoluzione dello Spirito. Il dogma conclude la scienza antica; la impacchetta in una dottrina strutturata come delirio paranoico, con ricadute totalitarie sul soggetto collettivo: fascismi, nazismi, comunismi e populismi sono l’eredità hegeliana.

La scienza moderna, invece, non ha approdi ultimi e definitivi; non sa di chiusure; non pensa paranoie; non pratica ismi.

Da dove origina l’atteggiamento “oscurantista” verso una divinità come quella scientifica ritenuta “falsa e bugiarda”? direbbe oggi il Virgilio dantesco.[5] Sta proprio lì la fallacia: nel ritenere la scienza la dea di una nuova religione con nuove certezze. Preti e filosofi temono la nuova scienza come messaggera di nuove verità concorrenti delle loro? Ovviamente è un abbaglio: la scienza galileiana è affatto umana; è tanto poco divina quanto poco sa di verità assolute o certezze incontrovertibili; è essenzialmente incerta; conosce solo congetture, formula modelli irrealistici, intuisce approssimazioni al reale, che reggono finché reggono. Esiste infatti il progresso scientifico da una congettura all’altra, da un paradigma all’altro, direbbe Kuhn; non esiste progresso religioso o filosofico da un dogma metafisico all’altro. Il movimento filosofico è per lo più regressivo: il nostro Severino torna a Parmenide. Religione e filosofia vivono fuori dal tempo attuale, ancorate a verità o rivelate o trascendentali, che nessun risultato empirico può inficiare, essendo sempre e comunque confermate, proprio perché sono loro a configurare l’empiria che le conferma. Perché gli psicoanalisti dovrebbero pensarla da preti o da filosofi? Perché possiedono verità assolute e incontrovertibili, che la scienza smantellerebbe?

Si aprirebbe qui una faticosa, forse inutile, digressione su una caratteristica della metapsicologia di Freud e di altre teorie psicoanalitiche, presentate come “organiche” in opposizione alle “meccaniche”, cosiddette riduzioniste, della fisica o della neurobiologia. Mi riferisco al loro vitalismo, espressione concreta della più astratta ontologia. Per intenderci riporto la definizione di vitalismo, data da Kant nel § 66 della Critica del giudizio (1790): “È un prodotto organico della natura quello in cui tutto è reciprocamente scopo e mezzo”.[6]

Senza approfondire l’argomento mi limito a ricordare che la presa vitalistica sulle culture europee è improntata all’idealismo tedesco. In particolare in biologia l’idealismo porta al prevalere della morfologia (studio dell’evoluzione di forme ideali) e dell’etologia (o “storia naturale”) contro il meccanicismo di Darwin, ispirato alla lezione ecologica (prematura) di Alexander von Humboldt. Nei seminari sul transfert[7] e sull’identificazione[8] Lacan citò i padri fondatori dell’etologia: von Uexküll e Lorenz, dei quali acutamente riconobbe la classica “nostalgia” per la sfera, l’Umwelt, come figura base (parmenidea) della cultura vitalista. Tuttavia, non seppe contrappore loro nient’altro che una generica asfera. Kant, invece, inventò la retroazione cibernetica dell’effetto sulla causa ben prima di Wiener, sotto il titolo aristotelico di causa finale generalizzata, riciclata come intenzionalità dai fenomenologi. Stiamo ancora oggi censendo i guasti intellettuali dell’aristotelismo, la filosofia più servile che conosca, funzionale al potere, già confluita nel senso comune e in parte nell’analitico.

In effetti, il freudismo è pervaso da un’oscura idea di vita; alimenta mitiche forze costanti che non sono istinti materiali ma spinte immateriali: le pulsioni. Sono cause efficienti e finali, che fanno passare dalla potenzialità psichica (la dunamis) all’atto psichico (l’enérgheia) grazie all’energia libidica. Il vitalismo freudiano è di marca aristotelica, tratto di peso dal De anima, nel cui incipit leggo: “L’anima sussiste quale principio degli esseri viventi”.[9] Wikipedia commenta: “Per Aristotele l’anima non è solo causa formale e motrice del vivente ma anche causa finale e quindi condizione primaria del finalismo immanente del mondo della vita”. Freud espliciterà questo vitalismo in termini empedoclei di conflitto tra Eros e Ananke.

Per Bachelard, l’epistemologo dell’immaginazione, il principale intralcio epistemologico all’avanzamento della razionalità scientifica è l’ostacolo animista,[10] che pone l’anima come feticcio capofila degli idola tribus collettivi. È il vitalismo animista a blindare la teoria e la pratica psicoanalitiche da irruzioni di scientificità, considerata nemica della vita dell’anima (das Seelenleben). Allora la psicoanalisi si trincera dietro varie narrazioni, vere e proprie eterne Sacre Scritture, che sono edipiche in Freud, archetipiche in Jung, significanti in Lacan.

Ai nostri giorni e nei nostri studi il “pericolo animista” – pericolo mortale per la psicoanalisi – si camuffa in un modo non facile da riconoscere. Si maschera dietro la rilevanza eccessiva e sistematica attribuita alla singolarità del soggetto individuale; alla fine del percorso analitico, una volta ricostruita storicamente la propria biografia, il soggetto deve conquistare la propria specificità esistenziale – la cosiddetta “singolarità incarnata” – riconquistando il proprio “spazio vitale” (il Lebensraum di infausta memoria), opposto in modo prometeico al resto del mondo.[11]

Sta qui la ragione scientifica per cui non aderisco al programma vitalistico. Non ne condivido l’orientamento individualistico, per una ragione politica prima che scientifica; infatti riduce la psicologia sociale a psicologia di massa, alla Massenpsychologie di Freud, dove non esistono interazioni tra individui ma tutti sono identificati a un unico Führer, a cui sono funzionali, come le api operaie alla loro regina.
Certo, nell’immaginario collettivo l’approccio scientifico, inevitabilmente generalizzante e astraente, può essere vissuto come minaccia per la concreta singolarità dell’essere parlante, che vive nell’unicità dei propri enunciati linguistici (dentro e fuori dal divano), autonomi rispetto all’esterno. Si aggiunga una ragione collettiva; la scientificità biologica, in particolare darwiniana, è indeterministica; data l’alta componente di contingenza e aleatorietà delle interazioni tra individuo e ambiente, tra locale e globale, è inidonea a fare previsioni anche socialmente utili, per esempio sullo sfruttamento della natura. Così, “ragioni” individuali e collettive confluiscono nel difendersi dalla scienza.

Per completezza cito una forma debole di vitalismo in psicoanalisi, che correla la pratica psicoanalitica all’artistica, in particolare poetica. Personalmente sto dalla parte del Freud non vitalista il quale, pur riconoscendo alla letteratura il merito di anticipare certe verità psicoanalitiche, preferiva suonare corde etiche alle estetiche.

Non mi sembra, tuttavia, il caso di imboccare questa strada, neppure per contestarla, perché scatenerebbe solo sterili polemiche. Lascio il vitalismo ai vitalisti nelle loro nebbie intellettuali.[12] Mi limito a chieder loro come si possa dopo Darwin pensare ancora nei termini ilozoisti di un paio di millenni fa. Come poteva Freud pensare con Empedocle? chiedo agli psicoanalisti.
Mi dedico, allora, a un più modesto approccio scientifico, che ha l’etica alle spalle, se è vero che il rinnovamento etico prepara la nuova scienza, come sostenne Lacan nel prologo di Kant con Sade (1963).[13] La nuova etica non categorica, per esempio, quella cartesiana par provision, inaugura una nuova scienza, radicalmente diversa dall’antica: è la scienza non apodittica (indeterministica), congetturale, aperta e non chiusa, basata su confutazioni di ipotesi, non su conferme di dogmi, poco o tanto deliranti.

Colgo qui l’occasione per precisare che il mio interesse scientifico in psicoanalisi non è né autonomo né primario, ma consegue all’orientamento etico, essenzialmente freudiano, della mia pratica psicoanalitica, mirante a decostruire i castelli moralistici dove si arrocca il Super-Io.

A questo punto cambio discorso e convoco una volta di più la topologia. Lo faccio a ragion veduta. Mi affido, infatti, alla topologia come a quel deposito di sapere collettivo sullo spazio (sugli spazi), che iniziò a coagularsi dal XVII secolo in poi con i contributi di diversi autori (non esiste il Gran Maestro in matematica). Esordì come res extensa, trattata in modo algebrico da Cartesio, e si configurò come analysis situs con Leibniz. Oggi, il sapere topologico è uno dei due poli, l’altro è il sapere algebrico, attorno a cui ruota la pratica matematica. Dal XX secolo, dopo Henri Poincaré si fa addirittura della topologia algebrica sul tema di vitale interesse in fisica teorica delle varietà differenziabili.
 
L’ABC della topologia generale

Parafrasando Aristotele, che ho studiato bene per dimenticarlo meglio, anche la topologia come l’essere “si può dire in molti modi” (pollakòs léghetai), ma di certo non in modo analogico come lo Stagirita articolò l’essere. La ragione è che la topologia non mira all’essere ma al sapere, in particolare al sapere sullo spazio: considera l’estensione come luogo di prossimità o vicinanza tra punti e loro insiemi.[14] L’approccio qui presentato è cartesiano, dove il sapere del cogito, non necessariamente cogitato del tutto, precede l’essere del sum, che perciò resta in parte mancante.[15]

In generale, i modi di presentare una topologia sono due: o locale o globale; il modo locale procede dal piccolo verso il grande, il globale dal grande verso il piccolo. L’abbinamento dei due modi è una novità rispetto all’episteme antica. Per presentare la sua geometria Euclide disponeva solo del modo locale. Non concepiva la retta in toto ma solo un segmento da prolungare a piacere con riga e compasso. Analogo discorso per l’infinito che era solo potenziale, senza enérgeia: una quantità che si poteva ingrandire o rimpicciolire a piacere, mai data per intero. (Non essendo intero non era un concetto[16]). Di conseguenza l’antico non conosceva l’uso delle variabili; non adottava cioè nomi collettivi (collettivizzanti, direbbe Bourbaki) che riunissero più valori, anche infiniti, sotto un riferimento unico. Solo con l’invenzione del calcolo infinitesimale di Leibniz e Newton, il locale e il globale cominciarono a giocare insieme su variabili “fluenti”, come le chiamava Newton: il locale dalla parte del calcolo delle tangenti (derivate di una funzione) e il globale dalla parte del calcolo delle aree sottostanti a una curva (integrali), due algoritmi inversi l’uno dell’altro.

Cos’hanno in comune i due modi? Li accomuna presentare lo spazio topologico come coppia ordinata: (X,T). Il primo elemento della coppia, X, è l’insieme sostegno della topologia T; X è un insieme non ancora strutturato come spazio. Il secondo elemento, la topologia T, è una famiglia di sottoinsiemi di X; sono loro che, soddisfacendo certi assiomi, strutturano lo spazio in modo topologico o estensionale.

Gli spazi topologici possono differire a due livelli: o per i differenti insiemi di sostegno o per le diverse famiglie di loro sottoinsiemi. Sullo stesso insieme di sostegno si possono definire diverse topologie differenti; ne risultano differenti spazi topologici. Il loro numero è enorme: è dell’ordine di grandezza di 2 elevato a 2 elevato alla cardinalità dell’insieme sostegno (esponenziale doppio). Come si vede siamo ben lontani dal kantismo, che presupponeva un unico spazio trascendentale, definito dalla metrica euclidea in base al teorema di Pitagora.[17] Date due topologie T1 e T2 sullo stesso insieme X, si dice che la prima è più fine della seconda sse[18] tutti gli insiemi della seconda sono insiemi della prima. Se ognuna delle due topologie è più fine dell’altra, si dice che sono equivalenti.

In topologia i due modi locale e globale portano a definizioni diverse ma equivalenti della stessa topologia . Il modo locale si differenzia dal globale perché è puntuale: per ogni punto x di X determina uno o più sottoinsiemi di X cui appartiene x; dati certi assiomi di “vicinanza”, che qui non riporto, si parla della famiglia U di intorni U (da Umgebung) del punto x. Ogni punto x di X ha la propria famiglia di intorni  U(x). Questa attribuzione locale trasforma il sostegno senza struttura in spazio strutturato.
Il modo globale, invece, seleziona nel sostegno X una famiglia di sottoinsiemi privilegiati A, detti aperti, a prescindere dai singoli punti di X. Oggi in teoria delle categorie si fa topologia pointless, solo con insiemi e applicazioni tra di essi (v. avanti). I due modi si equivalgono: i teoremi del primo si dimostrano anche nel secondo e quelli del secondo nel primo. La differenza è metatopologica: l’approccio globale si presta più facilmente a generalizzazioni, perché più astratto, prescindendo dai singoli individui.

La definizione di intorno consente una prima distinzione tra punti interni e punti di frontiera di un sottoinsieme dello spazio topologico.

Un punto p dell’insieme Y si dice interno a Y sse esiste un intorno U di p interamente contenuto in Y. L’insieme dei punti interni all’insieme Y si dice l’interno di Y e si indica con Y°. Anche i punti esterni all’insieme Y sono topologicamente dei punti interni, nel senso che sono interni all’insieme CY, il complementare di Y, cioè l’insieme dei punti non appartenenti a Y. La distinzione psicoanalitica tra dentro e fuori, tra proiezione e introiezione, tra incorporazione ed espulsione, tra tipi psicologici introversi ed estroversi, non ha molto senso topologico. Lasciarla decadere è il primo passo per formulare una teoria del soggetto collettivo che includa l’individuale.

Un punto p dell’insieme X si dice di frontiera di Y sse ogni intorno U di p interseca sia Y sia CY. Equivalentemente, un punto è alla frontiera di Y se NON è interno né a Y né a CY. Si noti la simmetria tra le definizioni: il punto interno dipende dal quantificatore esistenziale, il punto di frontiera dall’universale.

L’insieme dei punti di frontiera di Y forma la frontiera di Y, indicata talvolta con F(Y). La natura bifronte (o divisa) della frontiera consiste nel fatto che un insieme e il suo complementare hanno la stessa frontiera. La topologia indebolisce il principio del terzo escluso. La frontiera funziona da terzo. Un punto p dello spazio o è all’interno di Y, in , o è all’interno del complementare, in (CY)°, o è alla frontiera comune F(Y). Gli insiemi , (CY)° e F(Y) costituiscono una tripartizione dello spazio topologico che contiene l’insieme X. Si deduce che la frontiera della frontiera è la frontiera; in simboli F(F(Y) = F(Y). Se la coscienza fosse la frontiera tra l’Io e il mondo, per la topologia la coscienza della coscienza, cioè l’autocoscienza, non sarebbe nulla di diverso dalla coscienza. Se fosse una filosofia, la topologia non sarebbe idealistica.

Riassumendo, definire in modo locale uno spazio topologico nell’insieme X stabilisce un criterio per cui, per ogni sottoinsieme Y di X, si possa dire quali siano i punti interni, i punti interni al complementare, per consuetudine detti esterni, e i punti di frontiera.

In quanto segue preferisco adottare l’approccio globale, perché di poco più semplice, secondo l’opinione di Bourbaki, Kelley e mia, nonché dotato di un’autoreferenzialità che potrebbe interessare chi abbia velleità filosofiche, essendo un modo di presentare la topologia come insiemistica applicata a sé stessa, quasi una metateoria degli insiemi.

Perché si dia spazio topologico, gli aperti A della topologia devono soddisfare due assiomi insiemistici:

1. l’unione di aperti è un aperto;
2. l’intersezione di due aperti è un aperto.

Il primo assioma consente l’unione infinita, il secondo solo le intersezioni di un numero finito di aperti. Si dice anche che la famiglia degli aperti è chiusa rispetto alle operazioni di unione e di intersezione finita.
Viceversa, ogni aperto si può scrivere o come unione di aperti o come intersezione di due aperti. Si dice base di uno spazio topologico X una famiglia di aperti A non vuoti di X tale che ogni aperto di X sia unione degli aperti di base. Per esempio, la famiglia degli intervalli aperti è una base della topologia della retta euclidea dei numeri reali, che è stata il punto di partenza di tutta la riflessione topologica ed è tuttora il cardine attorno a cui ruota la topologia delle varietà differenziali, di cui determina i sistemi di coordinate.
 L’insieme sostegno e l’insieme vuoto, cioè l’insieme privo di elementi, sono per definizione aperti, potendo ogni aperto scriversi o come intersezione con l’insieme sostegno o come unione con l’insieme vuoto. In termini locali un insieme è aperto sse è un intorno di tutti i suoi punti, cioè tutti i suoi punti sono interni.
Per giustificare questo teorema introduco il trait d’union dal modo locale al globale dicendo che un intorno U del punto p è un insieme che contiene un aperto A contenente il punto p. L’approccio locale dice quali sono i punti vicini al singolo punto p: sono i punti di un suo intorno. L’approccio globale dà una versione qualitativa della nozione di vicinanza (distanza) tra due punti p e q dello spazio. Due punti p e q di uno spazio topologico si dicono vicini (o meglio, non lontani) se appartengono allo stesso aperto A; in questo senso tutti i punti sono vicini, perché appartengono allo stesso spazio, che è aperto. Per la precisione, due punti sono tanto più vicini, quanto più “piccolo” è l’aperto che li contiene. Per questa via la topologia formalizza la nozione di approssimazione.

In questo ordine di idee si definiscono i punti di aderenza e di accumulazione (o limite) di un insieme e i punti isolati.

Un punto p si dice aderente all’insieme Y sse ogni suo intorno contiene un elemento di Y.

Un punto p si dice di accumulazione dell’insieme Y sse ogni suo intorno contiene un punto p’ di Y diverso da p. I punti aderenti o di accumulazione non appartengono necessariamente all’insieme.

Un punto p si dice isolato rispetto a un insieme sse esiste un suo intorno che non contiene altri elementi dell’insieme (o se l’insieme formato dal solo p è aperto). Per esempio, nell’insieme sostegno {a,b,c} con la topologia {0, {a}, {a,b}, {a,b,c}} a è un punto isolato ({a} è aperto) e b è un punto di accumulazione (ogni intorno di b contiene un punto diverso da b).

La topologia nasce storicamente come studio qualitativo dell’estensione. Questa è un’altra differenza rispetto all’antico, quando prevaleva la nozione quantitativa di grandezza,[19] calcolata (quando si riusciva[20]) in base a un’unità di misura. Lo studio qualitativo della distanza tra due punti (o tra un punto e un insieme o tra due insiemi) si avvale dei cosiddetti assiomi di separazione. Ce ne sono molti, di diversa forza. Qui riporto solo il più basico, l’assioma T2 di Hausdorff (T da Trennung, “separazione”): due punti si dicono separati sse esistono due loro intorni disgiunti, cioè tali che la loro intersezione sia l’insieme vuoto. Una topologia si dice separata se è abbastanza ricca di aperti da “leggere” le differenze di posizione dei singoli punti e con quanta precisione. Negli spazi di Hausdorff i singoletti, insiemi di un solo punto, sono chiusi.

Do allora la definizione di chiuso.

Sapendo che un insieme è aperto, si sa automaticamente che il suo complementare è chiuso. Infatti, si dice che un insieme è chiuso sse l’insieme complementare è aperto. Data questa definizione, la topologia si può definire in modo equivalente in termini di una famiglia di chiusi. Basta definire gli assiomi duali dei precedenti, cioè assumendo che

1. l’intersezione di chiusi è un chiuso e
2. l’unione di due chiusi è un chiuso.

La dimostrazione si fa in base alla legge di De Morgan che tratta l’operatore intersezione come quantificatore universale (l’intersezione di insiemi è l’insieme degli elementi che appartengono a tutti gli insiemi) e l’operatore unione come quantificatore esistenziale (l’unione di insiemi è l’insieme degli elementi che appartengono ad almeno un insieme).

Si dimostra che un insieme è chiuso sse contiene tutti i punti di accumulazione, in particolare la propria frontiera; un insieme è aperto sse è disgiunto dalla propria frontiera. La frontiera è un insieme chiuso. (Dimostrarlo per esercizio).

In particolare, l’insieme sostegno e l’insieme vuoto sono chiusi, per le stesse ragioni per cui sono aperti, quindi sono chiusi e aperti al tempo stesso. Gli insiemi chiusi-aperti, in inglese clopen, hanno frontiera vuota. Uno spazio topologico si dice connesso sse gli unici chiusi-aperti sono l’insieme sostegno e l’insieme vuoto. Uno spazio X è connesso sse non è unione di due aperti disgiunti, cioè tali che la loro intersezione sia vuota.

Avendo a disposizione i chiusi si definisce la chiusura di un sottoinsieme Y di X come intersezione di tutti i chiusi che contengono Y; in altri termini, la chiusura di un insieme Y è il più piccolo chiuso che contiene Y; si indica con Y.[21] La chiusura gode di certe proprietà, per esempio l’idempotenza (la chiusura di una chiusura è una chiusura e un insieme chiuso coincide con la propria chiusura); è pertanto possibile definire un operatore di chiusura che trasforma ogni insieme nella propria chiusura. Sulla base di tale operatore si può definire una topologia come si è fatto con gli aperti e i chiusi. In particolare si definisce la frontiera di un insieme come intersezione della chiusura dell’insieme e della chiusura del complementare.

(NB. L’esistenza di una pluralità di definizioni equivalenti significa che nessuna delle nozioni coinvolte è più importante delle altre, ma tutte concernono la stessa realtà strutturale, sottolineando certi aspetti più di altri).

Di seguito, per definire gli insiemi localmente chiusi userò la nozione di sottospazio topologico. Si dice che il sottoinsieme Y di X è un sottospazio topologico di (X,T) sse gli aperti del sottospazio topologico Y sono le intersezioni di Y con gli aperti di T.

Faccio ritorno al modo locale per definire gli insiemi localmente chiusi.

Sia P una proprietà degli spazi topologici. Si dice che uno spazio topologico è localmente P sse per ogni suo punto esiste un sistema fondamentale di intorni con la proprietà P. (Un sistema di intorni di un punto si dice fondamentale o base locale sse ogni suo intorno contiene un intorno del sistema).
Per esempio, una famiglia di insiemi si dice localmente finita sse per ogni punto esiste un intorno tale che tutti gli elementi della famiglia siano da esso disgiunti, tranne un numero finito. L’interesse di questa definizione sta nel teorema secondo cui l’unione di una famiglia localmente finita di chiusi è chiusa. La finitezza locale equipara i chiusi agli aperti. Si utilizza anche per definire la paracompattezza, argomento che non affronto.

Ed ecco la definizione di insieme localmente chiuso, che ha una certa rilevanza psicoanalitica. Un sottoinsieme S di uno spazio topologico (X,T) si dice localmente chiuso sse per ogni punto x di S
 esiste un intorno 
di x tale che l’intersezione di 
e 
U è chiusa nel sottospazio U.
 Equivalentemente, S è l’intersezione di un aperto e di un chiuso dello spazio topologico
 (X,T) o anche S è aperto nella sua chiusura. Ovviamente, un insieme chiuso è localmente chiuso.

Esempi di insiemi localmente chiusi nella retta reale sono:

intervallo chiuso a sinistra: |––––––;
intervallo chiuso a destra: ––––––|;
intervallo con lacuna: |–––– ––––|.

Concludo queste generalità topologiche, definendo l’applicazione continua tra spazi topologici.
Studiando le relazioni di vicinanza, la topologia si chiede quando la vicinanza si mantenga passando da uno spazio topologico all’altro, grazie a qualche applicazione dell’uno verso l’altro. La risposta è che la vicinanza si mantiene nelle cosiddette applicazioni continue. Cosa vuol dire?
Un’applicazione tra due insiemi è una relazione molti-uno, tale che per ogni elemento del primo insieme, il dominio dell’applicazione, esiste un elemento e uno solo del secondo, il codominio dell’applicazione.[22] Intuitivamente, dire che un’applicazione è continua significa che, se due elementi sono vicini nel codominio, è perché “provengono” da elementi già vicini del dominio. Più precisamente, si dice che un’applicazione è continua sse, per ogni aperto A’ nel codominio, esiste un aperto A nel dominio i cui elementi sono portati dall’applicazione in A’. È un modo per dire che un’applicazione continua non produce strappi, ma conserva la continuità (nel senso lato di contiguità).

Se poi tra due spazi topologici A e B esiste un’applicazione biunivoca, cioè una relazione uno a uno, che ammette un’applicazione inversa da B ad A anch’essa continua, allora si dice che gli spazi topologici sono topologicamente equivalenti o omeomorfi, cioè si ottengono l’uno dall’altro attraverso applicazioni che non introducono sovrapposizioni (per via della biunivocità) né soluzioni di continuità (per via della bicontinuità). Una circonferenza e un quadrato sono spazi topologici omeomorfi, come la ciambella e la tazzina di caffè, che si possono trasformare l’una nell’altra con continuità, cioè senza salti né strappi. Natura non facit saltus; la topologia poteva nascere solo dalla testa di Leibniz, come Atena dalla testa di Zeus.

Studiare le equivalenze tra spazi topologici, definiti in modo diverso, è un obbiettivo della topologia. La topologia algebrica, in particolare l’omotopia, realizza in parte tale scopo individuando degli invarianti algebrici (gruppi di omotopia), che non variano passando da uno spazio a uno spazio omeomorfo. Un tipico invariante omotopico è il numero di “buchi” dello spazio. La connessione, la separazione secondo Hausdorff e la compattezza (v. avanti) sono invarianti di spazi omeomorfi.[23]
 
Verso la psicoanalisi

Perché lo psicoanalista dovrebbe interessarsi a certe astrazioni topologiche?

Non risponderò con un discorso che sarebbe pure interessante, dimostrando, per esempio, che la retorica del processo primario dell’inconscio, basata su condensazioni e spostamenti, si topologizza facilmente: la condensazione sta dalla parte dell’intersezione finita di aperti, lo spostamento dell’unione finita di chiusi. Il discorso avrebbe il vantaggio di sganciare la teoria del processo primario dalla retorica della metafora e della metonimia, afferenti ultimamente all’ontologia per via di analogie. Ma all’origine della topologia c’è molto di psicoanalitico, proprio perché la psiche è estesa, anche se non lo sa. È questa la ragione che giustifica l’interesse della psicoanalisi per la topologia. Il percorso fin qui svolto ha sfiorato solo qualche punto rilevante. Per esempio, che un insieme sia localmente chiuso vuol dire che è in parte aperto e in parte chiuso. Perché non prenderlo allora a modello dell’ambivalenza affettiva amore-odio? L’apertura starebbe dalla parte dell’amore, la chiusura dell’odio.

In quanto segue adotto un suggerimento teorico di Lacan che tagliava superfici topologiche con catene significanti e poi saldava i bordi creando altre superfici. Famoso è il taglio del toro lungo un doppio giro intorno al buco centrale (lo chiamava “otto interno”) e la costruzione della banda di Moebius, saldando un bordo a sé stesso.[24] Più in generale suppongo che certe frontiere, in particolare quelle non ovunque dense o vuote nella propria chiusura, siano modelli del soggetto dell’inconscio. “Inconscio” in topologia non ha significato psicologico; significa limite inattingibile, cioè limite cui ci si può avvicinare quanto si vuole senza raggiungerlo mai, come nel caso della frontiera degli insiemi aperti. Il soggetto inteso come frontiera è inconscio nel senso della freudiana rimozione originaria delle rappresentazioni psichiche che non arrivano mai alla coscienza.

C’è una proprietà psicoanalitica messa in particolare evidenza dagli insiemi localmente chiusi che sono aperti nella propria chiusura. Si presenta allora un’interessante simmetria tra soggetto e oggetto: sono entrambi insiemi la cui chiusura contiene un aperto; la simmetria consiste nel fatto che l’aperto contenuto nella chiusura dell’oggetto non è vuoto, mentre è vuoto nella chiusura del soggetto. Insomma anche il soggetto è oggettivo. La topologia mantiene un tratto della clinica scientifica che mira a oggettivare il soggetto, non a singolarizzarlo come pretende l’approccio vitalistico.

A proposito di frontiere indulgerò una volta tanto alla narrazione. Dirò di un mio sbaglio, per la precisione di una mia congettura che dopo qualche anno di lavoro si è dimostrata falsa. Non essendo riuscito a dimostrarla per tanto tempo, avrei dovuto cominciare a sospettare che fosse falsa, ma l’attaccamento narcisistico ai propri pregiudizi mi ha fatto velo. Non è una storia molto originale. Narra che in matematica non bisogna aver paura di sbagliare per progredire.

Per tanto tempo, basandomi su figure euclidee come il cerchio e il quadrato, la cui frontiera, la circonferenza e il perimetro del quadrato, è, come si dice in topologia (all’inglese), un insieme non ovunque denso, pensavo che tutte le frontiere fossero insiemi non ovunque densi. Cosa vuol dire non ovunque densi? Vuol dire che la loro chiusura ha l’interno vuoto. L’unione numerabile di insiemi non ovunque densi produce i cosiddetti insiemi magri. La generalizzazione fittava con le mie conoscenze dell’anoressia. Mi andava bene che il soggetto del desiderio fosse magro. Purtroppo le conferme empiriche delle generalizzazioni non bastano a stabilirle. (Un principio epistemico trascurato dall’empirismo di Freud).

La confutazione della mia congettura venne da un controesempio molto semplice, che evidentemente avevo voluto ignorare.[25] I due sottoinsiemi della retta reale formati l’uno dagli irrazionali e l’altro dai razionali hanno una frontiera comune formata da tutti i numeri reali. È una frontiera che non separa globalmente i due insiemi, ma solo localmente: tra un numero razionale e uno irrazionale c’è sempre almeno un numero reale. Ebbene in quella frontiera esistono intervalli aperti. Tuttavia la mia congettura rimaneva valida per insiemi chiusi e, appunto, localmente chiusi, la cui frontiera è non ovunque densa.
Il fatto era per me di una certa importanza perché così si salvava almeno parzialmente il modello di soggetto come insieme non ovunque denso, che mi era dato dall’esperienza clinica dell’anoressia e a cui tenevo molto. Cioè?

Homunculus? I would prefer not to”. Questo è il titolo alla Bartleby del mio anacronistico manifesto anti-vitalista.

La giustificazione teorica più solida proviene dalla mia pratica analitica, dove non ho mai trovato un piccolo uomo dentro l’uomo, neppure nell’identificazione più tirannica. Questa è la ragione per cui preferisco modelli topologici di soggetto “vuoti dentro”, diversi dai modelli freudiani, le cui topiche prevedono addirittura tre omuncoli interni all’apparato psichico, dove non fanno altro che litigare. Il vuoto interiore sgombra il campo da quelle forze magiche dette pulsioni, die Triebe. Insomma il mio programma di ricerca è in negativo: lontano da ogni riferimento a dottrine che sappiano di vitalismo, essenzialismo ed eziologia. Con ciò non escludo che la “mente” del soggetto inconscio possa specializzarsi in sistemi diversi per un trattamento diverso delle informazioni, per esempio nell’Io per le informazioni sulla realtà effettuale, nel Super-Io per le informazioni sul passato, e nell’Es per le informazioni sulla realtà psichica.[26]

E per l’oggetto del desiderio, correlato necessario del soggetto nel fantasma inconscio, quali possono essere le opzioni topologiche? Come allestire l’“altra scena” freudiana (der andere Schauplatz) del soggetto in “esclusione interna all’oggetto”?[27] Sono stato a lungo incerto. L’unica cosa che avevo chiara era che l’oggetto non poteva essere vuoto dentro.[28] Allora era aperto o chiuso? Nessuna delle due opzioni mi convinceva completamente, perché il bordo di un aperto o di un chiuso è senza lacune. Alla fine, per la simmetria tra soggetto e oggetto riferita sopra, ho optato per l’oggetto localmente chiuso, che è aperto nella propria chiusura. Un soggetto che aderisce alla frontiera di tale oggetto è necessariamente non ovunque denso. In particolare, può essere frammentato da lacune. La scissione dell’Io è un fatto indubitabile della psicoanalisi. Federn l’ha intuito ipotizzando diverse frontiere dell’Io (Ich-Grenze).

Nel modello topologico del soggetto non esistono conflitti, censure, rimozioni, all’interno del soggetto individuale. I conflitti emergono nelle interazioni tra soggetti, in particolare tra soggetto individuale e collettivo o tra soggetti collettivi per l’occupazione del territorio. Nel caso degli insetti eusociali (api, formiche, termiti) esistono solo conflitti tra collettivi, che producono anche modifiche ambientali. Quell’animale poco eusociale che è l’uomo sta modificando irreparabilmente il pianeta.

E come c’entra il corpo in questa topologia?

Non lo so ancora bene. È un tema aperto della mia ricerca. Pongo però una condizione preliminare: il corpo soggettivo deve essere topologicamente compatto. Cosa si intende per compattezza topologica?
La compattezza è una nozione di base, pensata da diversi matematici, come invariante topologico. Ne cito solo quattro: Heine, il nostro Pincherle, Borel e Lebesgue, i quali formularono un teorema che ha la stessa portata del teorema di Pitagora: valido in uno spazio particolare, porge una proprietà vera per una classe generale di spazi. Nel caso si potrebbe individuare più di un’affinità tra compattezza e teorema di Pitagora. Il teorema di Heine-Pincherle-Borel-Lebesgue riguarda la retta reale o, come si dice, la retta euclidea, la cui topologia è la metrica delle distanze misurate in base al teorema di Pitagora, come ai tempi dei tenditori di corde nell’antico Egitto. Il teorema HPBL afferma che gli insiemi chiusi e limitati della retta euclidea, cioè gli intervalli con estremi inclusi, sono compatti.

Si dice che un sottoinsieme Y di X è compatto sse in ogni suo ricoprimento aperto esiste un sottoricoprimento finito. Il ricoprimento aperto di un insieme è una famiglia di aperti tale che per ogni elemento dell’insieme esiste un elemento del ricoprimento che lo contiene. Insomma, l’insieme si dice compatto sse è contenuto nell’unione finita di insiemi scelti da una famiglia qualunque di aperti che lo ricopre. In sostanza, la compattezza consente di trattare l’infinito in termini finiti, senza negarlo alla moda degli antichi: un’occasione da non perdere ovunque si presenti. Per esempio, i compatti di uno spazio di Hausdorff (anche non compatto) sono chiusi. Nel caso del corpo in biologia si tratta della finitezza degli organi, in psicoanalisi della finitezza dei significanti nell’inconscio. La finitezza del corpo soggettivo si traduce in compattezza topologica.[29]

Chi mi ha seguito fin qui può sospettare che esistano definizioni equivalenti di compattezza in termini di chiusi, che gli risparmio. Se è anche psicoanalista può immaginare che i ricoprimenti (chiusi o aperti) siano modelli dei ricordi di copertura, che se va bene si possono scomporre in un numero finito di rappresentazioni psichiche, nel cosiddetto complesso.

Arrivato fin qui non mi resta che parafrasare Heidegger e dire che in psicoanalisi siamo in cammino verso la topologia, ben sapendo che la meta non è l’essere ma il sapere, di cui la topologia costituirebbe la versione in estensione, anche se la psiche non lo sa; non sa che la res extensa è anche cogitans: cogita la propria estensione. Alla frontiera tra res extensa e res cogitans, tra somatico e psichico, invece delle fantomatiche pulsioni freudiane, il filosofo può immaginare che esista una res intensa, come luogo del soggetto inconscio, inteso come ologramma dell’oggetto del desiderio.[30] Chissà che la topologia non porti filosofia e psicoanalisi a tradurre la contrapposizione immaginaria tra mente e corpo in concrete interazioni tra locale e globale, tra individuale e collettivo, tra l’uno e i molti.
 



[1] “L’Europa crolla perché il sapere è diventato il nuovo nemico”, intervista a Pascal Bruckner, “Corriere della sera”, 29 dicembre 1918, p. 22.
[2] “Pourtant si l’on aperçoit qu’une paranoïa réussie apparaîtrait aussi bien être la clôture de la science, si c'était la psychanalyse qui était appelée à représenter cette fonction, – si d’autre part on reconnaît que la psychanalyse est essentiellement ce qui réintroduit dans la considération scientifique le Nom-du-Père, on retrouve là la même impasse apparente, mais on a le sentiment que de cette impasse même on progresse et qu’on peut voir se dénouer quelque part le chiasme qui semble y faire obstacle. […] Certes me faudra-t-il indiquer que l’incidence de la vérité comme cause dans la science est à reconnaître sous l'aspect de la cause formelle.” Un esempio di paranoia riuscita è l’ermeneutica, nel caso paradigmatico la teoria del sospetto di Ricoeur.
[3] J. Lacan, Fonction et champ de la parole et du langage en psychanalyse (1953), in Id., Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 259.
[4] Cioè il principale costituente della personalità forte, di cui Lacan parlò nella sua tesi di specialità del 1931.
[5] Inferno, I, 72.
[6] La Critica del giudizio è del 1790. Illeggibile dopo On the Origin of the Species by Means of Natural Selection (1859), che cambiò il paradigma epistemico vigente, introducendo nella scienza il registro della contingenza.
[7] 12 aprile 1961.
[8] 7 marzo 1962.
[9] Aristotele, L’anima, Libro I, a c. A. Barbieri, Laterza, Bari 1957, p. 3.
[10] G. Bachelard, La formazione dello spirito scientifico (1938), trad. E. Castelli Gattinara, Cortina, Milano 1995, p. 175 sg. Bachelard enumera gli ostacoli alla conoscenza realista: la conoscenza generale, l’estensione delle immagini familiari, la conoscenza pragmatica unitaria, il buon senso, il sostanzialismo, l’animismo, il mito della digestione, tutti gli ostacoli alla conoscenza quantitativa.
[11] Si intravvede qui una forma modernizzata di competizione tra medicina e psicoanalisi, la quale si sforza di diventare sempre più personalizzata, proprio come la medicina con i contributi della tecnologia genetica.
[12] Il vitalismo scende in politica sotto forma di biopolitica. I sovranismi e i populismi sono forme patologiche di vitalismo del soggetto collettivo, vere e proprie corruzioni dello spirito liberale e democratico.
[13] “On prépare la science en rectifiant la position de l’éthique”. J. Lacan, Kant avec Sade (1963), in Écrits, Seuil, Paris 1966, p. 765.
[14] Il termine filosofico per “vicinanza” è “differenza”. La nozione di differenza è essenziale per pensare il soggetto collettivo. Basti pensare al linguaggio, la langue secondo De Saussure, che è un sistema di differenze. “Identità e differenza” è il titolo di due conferenze tenute da Martin Heidegger nel 1957. V. M. Heidegger, Identità e differenza, a c. G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2009. È un saggio paradigmatico dal mio punto di vista: l’identità riguarda l’essere, la differenza il sapere. A livello cognitivo da Aristotele in poi si conosce il simile con il simile. La relazione di similitudine, declinata come proporzionalità, è la relazione dominante nei 13 Libri degli Elementi di Euclide, dove “simile” è “omoion”, a livello semantico, e “proporzionale” “analogon”, a livello sintattico. (Cfr. Libro VI, I definizione).
[15] Di Cartesio dimentico molto: la dicotomia mente/corpo, la filosofia delle rappresentazioni mentali e la deriva universalistica della sua elucubrazione di stampo idealistico. V. lo scritto inedito Il mondo o Trattato sulla luce (1664), a c. G. Cantelli, Boringhieri, Torino 1959.
[16] Giovanni Semerano in L' infinito: un equivoco millenario. Le antiche civiltà del Vicino Oriente e le origini del pensiero greco (Bruno Mondadori, Milano 2001, p. 56) riferisce che la traduzione di apeiron in Anassimandro con “infinito” è errata. Andrebbe tradotto “terra” o “polvere” da un lontano semitico “apar”.
[17] Euclide, Elementi, Libro I, Proposizione 47.
[18] Abbreviazione di “se e solo se” qui e di seguito.
[19] Mai definita formalmente da Euclide.
[20] Si può dire che la spinta al ragionamento topologico sia stata la necessità di analizzare le relazioni metriche tra numeri razionali, rapporti tra grandezze commensurabili, e numeri irrazionali, rapporti tra grandezze incommensurabili. La topologia stabilisce le condizioni qualitative, affinché uno spazio sia metrico.
[21] Dualmente l’interno o apertura dell’insieme X è l’unione di tutti gli aperti contenuti in X o, in modo equivalente, è il più grande aperto contenuto in X. Tali simmetrie dovrebbero facilitare la memorizzazione dei concetti.
[22] Faccio notare, come utile trucco mnemotecnico, che oggi in matematica la maggior parte delle definizioni è del tipo “molti-uno”, cioè generalizzante: per ogni x esiste un y tale che... Nella geometria euclidea, che è costruttiva (a livello locale con riga e compasso), i quantificatori logici sono rari. Euclide non generalizza; si limita a studiare figure particolari in un unico spazio. Lo studio di spazi generali e delle loro equivalenze attende la matematica moderna.
[23] Due spazi omeomorfi hanno gli stessi invarianti, ma se hanno gli stessi invarianti non sono necessariamente omeomorfi. Si ricorre agli invarianti perché più facili da calcolare degli omeomorfismi.
[24] J. Lacan, L’étourdit (1972), in Id., Autre écrits, Seuil, Paris 2001, p. 469 sg.
[25] La volontà di ignoranza è secondo Lacan una passione ontologica alla pari dell’odio e dell’amore. L’ignoranza sta tra reale e simbolico, l’odio tra reale e immaginario, l’amore tra simbolico e immaginario, cioè non è mai reale. La volontà di ignoranza trasforma in simbolica la componente immaginaria dell’odio, mantenendo l’iscrizione nel reale. Cfr. J. Lacan, Le Séminaire. Livre I. Les écrits techniques de Freud, seduta del 30 giugno 1954.
[26] “L’idea che la mente sia un dispositivo per elaborare le informazioni” (P.N. Johnson-Laird, La mente e il computer. Introduzione alla scienza cognitiva (1988), trad. P. Tabossi, Il Mulino, Bologna 1997, p. 159) è il concetto chiave del programma cognitivista di intelligenza artificiale. Il cognitivismo trascura che la mente è manipolata dai simboli che manipola.
[27] “Le sujet est, si l’on peut dire, en exclusion interne à son objet”. J. Lacan, La science et la vérité (1965), in Id., Écrits, Seuil, Paris 1966, p. 861. L’esclusione interna è un modo stravagante di Lacan per dire “frontiera”.
[28] Qui mi allontano dal lacanismo, dove l’oggetto causa del desiderio, essendo originariamente perduto, è vuoto.
[29] Nel seminario XX Lacan propose un’interpretazione bizzarra di compattezza. La ridusse al fatto che Don Giovanni poteva possedere le donne solo una per una, come tutti del resto. Dimostrò così di non essere mai entrato nel discorso topologico, che usò da mero contenitore delle proprie formule magistrali, matemi senza matematica, interpretazioni amatoriali di topologia.
[30] Ne ho trattato in A. Sciacchitano, Saggio sulla “res intensa” o l’involucro della cosa epistemica, “aut aut”, 356, dic. 2012, p. 45.

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