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“NON È ACQUA, È IL MARE”. STORIA DI SETTE MADRI

2 Apr 19

A cura di servizio.iesa.collegno

Di Melania Lucchini, operatrice IESA

Della cameretta della mia infanzia ricordo bene due cose: la testata tondeggiante del letto, fatta di bambù piegato a formare i petali di un fiore, e la luce rosata della lampada da notte che creava rilievi morbidi sulla carta da parati a fiori (anche quelli rosa), trasformando i muri in quello che sembrava l’interno di una torta di compleanno. Me ne ero stancata presto: mi mettevo sulle ginocchia un “libro da grandi” e me ne andavo altrove, lontanissimo, da sola, non ho mai tollerato le intrusioni di un adulto nella relazione tra me e un libro. Con un’unica eccezione: mia madre che leggeva per me e mia sorella Il Libro della Jungla di Kipling, la sera, come storia della buona notte. Non che non conoscessi la vicenda chiaro, quello a cui non potevo rinunciare era il talento interpretativo di mia madre, la sua voce che si trasformava dal mormorio sornione di Bagheera al sibilo di Khaa, dallo squittire odioso e servile dello sciacallo Tabaqui al tono bonario di Baloo. Ma il pezzo forte era proprio l’inizio, l’arrivo di Mowgli presso il branco di lupi, Raksha la Madre Lupa che decide che quel cucciolo nudo è il suo cucciolo e quella decisione è fuori da ogni tempo (il tempo che serve ad una madre per riconoscere il figlio come suo è al di fuori di ogni dimensione conosciuta), fuori da ogni logica (contrappone una lupa ad una tigre) e non è soggetta al controllo del capobranco. La storia è nota: la tigre se ne va. Tornerà, certo, la madre tuttavia ha guadagnato a suo figlio il tempo di diventare un uomo e sarà proprio la tigre a farne le spese. La voce di mia madre diventava la voce e di quella madre e lei diventava Madre Lupa, faceva indietreggiare una tigre…potevo addormentarmi tranquilla.

Non posso quantificare il valore della sensazione di sicurezza che mi ha fatto addormentare serenamente ma riesco ancora a percepirla, anche ora che so tenere a bada le tigri da sola.

Tante volte nel corso di questi 16 anni vissuti formandomi e lavorando al Servizio IESA sono entrata in contatto con storie di maternità desiderata, negata o sospesa, tante delle nostre utenti avevano storie di bambini contesi, perduti o sottratti alle loro cure: la consapevolezza del perché ciò fosse avvenuto spesso era totale, altre volte assente o gravemente compromessa, il dolore sempre inevitabile. Spesso quei figli è capitato di incontrarli e conoscerli, di sentire le loro voci spezzarsi nei loro racconti di infanzia negata, di vederli dipingere il ritratto di queste madri incapaci di contenerli, accudirli, ascoltarli, proteggerli dalla devastazione con cui la sofferenza psichica allaga impietosamente l’esistenza di chi semplicemente si è trovato a condividere il loro tempo e il loro spazio. Spesso questi figli hanno condiviso il destino delle loro madri, le loro storie fanno pensare ai graffi sulla superficie di un vinile i cui solchi sottili vengono interrotti nello stesso punto: le vite divergono, la sofferenza è unica.

In tutte queste storie ho trovato un’unica costante: si trattava di madri sole. Le variabili diventavano irrilevanti, età, scolarità, estrazione sociale, sposata, single, ricca o povera, semplicemente ad un certo punto la sofferenza psichica aveva finito per creare un labirinto intorno ad esse rendendole inavvicinabili, introvabili, rendendo spesso i loro figli unici testimoni del loro disgregarsi, improbabili minuscoli supereroi in grado di salvarle dal suicidio o dalla solitudine, destinati quanto prima a pagare un prezzo enorme, non appena la loro innocenza si fosse dissipata.

In questi 21 anni di attività, il servizio IESA ha incrociato la strada di sette madri e di tutti questi percorsi ho avuto modo di essere parte e testimone. In tre casi il figlio era affidato alle loro cure, in quattro il bambino era stato allontanato e affidato ad un’altra famiglia, lasciando tuttavia la possibilità di effettuare incontri in luogo neutro con la supervisione degli operatori. In nessuno di questi casi i bambini sono stati affidati alla famiglia IESA e per un motivo ben preciso: la famiglia IESA non sostituisce la madre. Lo scopo di ogni singolo progetto è sostenere le capacità genitoriali delle madri, esplorando i loro limiti, permettendo loro di esprimersi al massimo nel loro difficile ruolo di genitrici, garantendo ai bambini un luogo sicuro e accogliente, un luogo sicuramente non “neutro”, non asettico e impersonale, non un semplice spazio ma una casa, casa in cui loro e la mamma potessero lasciare il loro segno, delimitare il loro territorio, costruire insieme la loro storia.

Il ruolo dei volontari che accolgono e degli operatori, in questi casi, raggiunge un ulteriore livello di complessità: sostenere una madre fragile e sofferente non è semplice né scontato, non esiste una regola aurea, è un intervento complesso in un sistema altamente instabile in cui non si può dare nulla per scontato. L’alleanza terapeutica basata sulla fiducia è la chiave di volta di questi progetti e deve essere fondata sulla consapevolezza che lo scopo ultimo non sia sostituire la mamma con una versione migliore o più adatta. Nel caso delle madri i cui figli sono stati allontanati questo scenario è la realtà nella quale ci si trova ad operare, negli altri casi è una paura che resta sempre sullo sfondo. Alcune di queste madri hanno giudicato in modo lucido, talvolta spietato, la loro inadeguatezza, altre ne erano del tutto inconsapevoli, come dei bisogni profondi dei loro figli. La relazione con la famiglia IESA ha permesso a ciascuna di queste donne di riconsiderare la propria immagine e il proprio ruolo, di ripercorrere la propria storia, di raccontarla di nuovo a chi l’avrebbe accolta senza giudizio e pregiudizio, senza mettere in discussione la loro sofferenza, senza bollare i loro sforzi semplicemente come “insufficienti”, in modo che non sentissero il bisogno di dover dimostrare di amare il loro bambino. Questo, ogni volta, è stato l’inizio della storia, una volta dipanate queste trame sono diventate l’intelaiatura per il nuovo nido, ospitato dai rami di un albero diverso da quello che avevano immaginato ma non meno sicuro.

E i bambini in tutto questo?

I figli hanno fatto allegramente irruzione all’interno delle famiglie IESA, le hanno colonizzate con spregiudicato entusiasmo o con passi felpati e guardinghi via via che l’età aumentava e loro, al pari delle loro mamme, affrontavano questa prova con maggiore consapevolezza. Gli spazi delle famiglie nulla hanno in comune coi luoghi neutri che questi piccoli a volte conoscevano bene: in famiglia non c’è solo la stanza della mamma, quella è la casa della mamma e quindi anche la loro, anche se solo per un pomeriggio. La casa della mamma a volte è ricca di via vai, a volte ci sono i gatti o un solo grosso cane, c’è sempre qualcosa che bolle in pentola, la cucina profuma di buono, si può andare in giardino. Ci sono le persone con cui la mamma adesso vive, persone che diventano parte della quotidianità di questi bambini a volte per anni e li vedono crescere, persone a cui raccontare del saggio di danza hip hop o della caduta coi pattini. A volte, se la mamma sta male, ci sarà Lucia davanti all’asilo ad aspettare, a volte sarà Anna e non la mamma a supervisionare la preparazione dello zaino per la gita, a volte sarà Donatella a fare la telefonata serale: insomma a volte la mamma starà ancora male, come è successo tante altre volte, questa volta però ci sarà sicuramente qualcuno accanto a lei, qualcuno che i bambini impareranno a conoscere, che saprà tranquillizzarli, che ha le risposte di cui in quel momento hanno bisogno.

Nei miei ricordi di operatrice IESA c’è un pomeriggio assolato d’estate, caldissimo, un cortile di un bianco abbagliante con un unico enorme albero al centro che crea una provvidenziale isola di ombra fresca. C’è Giulia che corre senza sosta, giocando con i gattini: è altissima per i suoi cinque anni, ha gli stessi capelli neri della mamma e gli stessi occhi enormi. La mamma la guarda dalla sedia a rotelle, quella sedia su cui la sclerosi multipla l’ha relegata a 17 anni, un paio d’anni dopo la nascita di Giulia. Nei ricordi di questa madre c’è un nucleo familiare disfunzionale, c’è un’infanzia vissuta sulla strada, c’è una storia di abusi e di sofferenza psichica che spesso la porta a farsi del male con le poche forze che le restano, c’è l’allontanamento traumatico della sua bambina, letteralmente strappata dalle sue braccia troppo deboli per trattenerla. Nel racconto di questa madre, l’allontanamento è un atto deliberato di violenza, perpetrato contro di lei, non certo un salvataggio. Questo l’ha resa diffidente e aggressiva, l’ha portata a strumentalizzare la sua patologia (non ha altre armi, sente di non averne altre), l’attaccamento alla figlia è spasmodico e talvolta, imprevedibilmente, diventa insofferenza e aggressività fisica di cui Giulia rischia di fare le spese, perché Giulia può camminare e correre, può anche decidere di andarsene via o non farsi raggiungere. Poi è arrivato lo IESA, poi è arrivata Cristina: la casa di Cristina non ha barriere architettoniche, in questa casa si possono fare davvero tante cose. Cristina ascolta sempre senza scomporsi, annuendo lentamente da dietro le lenti spesse dei suoi occhiali e non si spaventa mai: le cose brutte diventano sempre gestibili quando Cristina è in giro. Quel pomeriggio estivo vedo Giulia cadere e sbucciarsi un ginocchio mezz’ora prima che l’assistente sociale venga a riprendersela: vedo la mamma agitarsi sulla sedia a rotelle, le sue dita affusolate hanno poca sensibilità, si muovono tutte insieme come le pinne di un pesce, il respiro diventa subito corto e affannoso. Mi alzo per intervenire ma la mano di Cristina è già sulla spalla della mamma: “Giulia non si è fatta niente, non si è nemmeno fermata. Ti ricordi dove sono i cerotti?”. Il cerotto lo mette Cristina, Giulia è seduta sulle ginocchia della mamma, si gode le coccole (“Fa male?” “Si fa malissimo!”), ci scappa un giro per il cortile sulla sedia della mamma, le braccia della mamma fanno da cintura di sicurezza, domenica prossima si ritorna e i ci saranno i gattini ad aspettarla.

Tutto questo può confondere un bambino? Può diventare difficile per un bambino (magari molto piccolo) identificare correttamente una figura genitoriale? Insomma la mamma resta sempre la mamma? A rispondere a questa domanda mi aiuta Matteo che ha quattro anni, due dei quali passati insieme alla famiglia IESA. Stiamo giocando su un tappeto azzurro, facciamo un ponte di barche per farci passare i pompieri. Metto i libri in ordine, uno dietro l’altro, come lui mi dice, un ponte di barche sul folto tappeto “marino” “Dici che è abbastanza robusto?”, gli chiedo, “Con tutta questa acqua?”. Lui ride “Non è acqua! È il mare!”: c’è una differenza che, a quanto pare, sono la sola a non cogliere, la stessa differenza che c’è tra la mamma e Lucia, mai una volta Matteo le confonde, a volte cerca l’una piuttosto che l’altra, a volte mentre è con Lucia riesce a sentire la mancanza della mamma e a dirlo. È tutto chiaro e semplice per lui.

Anche Claudia non ha dubbi se le chiedi chi è la mamma, se le chiedi chi è Anna, se le chiedi dove non vede l’ora di andare a vivere: con la mamma, nella casa in cui finalmente staranno solo loro due, con la cameretta tutta per lei. E Anna? Anna c’è stata e c’è, Anna continuerà a preoccuparsi (non lo fa sempre?), Anna ha aiutato la mamma così bene che di lei Claudia, a volte, non si è accorta.

Penso spesso a queste storie e mi ricordo un altro momento in cui un altro paziente, adulto, ascoltando un operatore parlare impietosamente di sua madre, la cui inadeguatezza era stata totale, ha risposto con calma ma con fermezza “Mia madre ha fatto quello che ha potuto”. Questa risposta è arrivata dopo svariati anni di inserimento eterofamiliare, anni in cui questo giovane uomo ha coltivato la relazione con la madre, relazione che si è evoluta da simbiotica a maggiormente funzionale, maturando una separazione che gli ha permesso di riconoscerne le debolezze, senza che il paragone con l’affidataria IESA la schiacciasse, senza mai smettere di amarla.

Credo che il maggiore merito di questi progetti sia stato (e sia) offrire un contesto in cui le capacità genitoriali, quali che siano, possano esplicarsi al meglio, in cui ogni madre agli occhi del suo bambino, diventa Madre Lupa, capace di bandire la tigre. La famiglia IESA e l’operatore sanno restare sullo sfondo se necessario, sanno intervenire se la pressione diventa troppa, sanno anche sostituirsi temporaneamente se è necessario, alleviando madre e figlio del reciproco peso, talvolta schiacciante, compaiono nella storia al momento giusto (proprio che Bagheera e Baloo) e poi tornano nella jungla: in tutte queste storie il cucciolo d’uomo e la sua mamma non restano mai da soli.

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