Aristotele, De anima, Libro III, 433 a 20
Aristotele
“Poiché chi non partecipa alla vita non si nutre, ciò che si nutre è il corpo dotato di anima in quanto è animato; pertanto non in modo accidentale l’alimento è in relazione all’essere dotato di anima. C’è però dell’altro tra alimento e accrescimento. Nell’accrescimento dell’animato c’è l’aspetto quantitativo, che fa l’essenza del nutrimento. L’alimentarsi salva l’essenza finché si nutre e genera non l’ente che si nutre ma un ente simile a sé stesso, giacché esiste già la sostanza del primo e niente genera sé stesso ma si conserva. Di conseguenza è questa la facoltà di principio dell’anima di conservare chi la possiede; l’alimentazione mette in grado di agire. Pertanto senza alimentazione non è possibile essere. Le cose sono tre: l’alimentato, ciò di cui si alimenta e l’alimento; l’alimento è la prima anima; ciò che viene nutrito è quel tale corpo; ciò di cui si nutre è l’alimento. Poiché è giusto denominare ogni cosa dal suo fine [sic], in questo caso il fine è generare un ente simile a sé stesso. “Ciò con cui nutre” ha due significati come “ciò con cui governa” indica sia la mano sia il timone, una che muove ed è mossa, l’altro solo mosso. Ogni alimento deve poter essere digerito; il calore produce la digestione; perciò ogni ente animato ha calore.”[1]
Traduco questa notevole pagina del De anima, un classico trattato psicologico dell’antichità, per la sua attualità clinica. Il De anima rappresenta, per così dire, la seconda fisica di Aristotele: una fisica soggettiva ricalcata sulla scienza oggettiva della natura (physis). Aristotele pone in continuità scienze della natura e dello spirito intorno alla dicotomia ontologica tra essere in potenza ed essere in atto. Infatti il trattatoriguarda il moto psichico, la metabolé, il cambiamento soggettivo dalla potenza all’atto, come la kinesis, il movimento del mobile, è il mutamento del suo luogo fisico. La psicologia aristotelica ruota attorno al conio specifico di Aristotele, usato poi anche da Plutarco, di oréxis, appetito, in una con l’astratto orektikòn, appetizione (da orégo, mi protendo). L’oréxis introduce nel profondo dell’anima umana la causa finale soggettiva, l’intenzionalità fenomenologica; prepara il terreno alla moderna psicologia del profondo: al fondo, cioè all’origine c’è il fine; così il cerchio del divenire si chiude passando dall’inizio alla fine, dalla potenza all’atto.
Freud
Fatta questa premessa, non è fuori luogo accostare Freud ad Aristotele. Infatti la psicologia freudiana è impostata come la “scienza” aristotelica dello scire per causas: “È giusto denominare ogni cosa dal suo fine” (v. sopra).In questo senso oréxis potrebbe in linguaggio freudiano tradursi Trieb, pulsione,[2] nel senso di forza costante, localizzata in una zona erogena del corpo, per lo più uno sfintere, la quale tende alla soddisfazione finale, come il moto fisico tende alla quiete. Con una piccola grande differenza tra Freud e Aristotele: Aristotele è completo, Freud incompleto. Accanto a oréktikonAristotele pose phéuktikon, il repulsivo,[3] di cui non c’è traccia in Freud; nella sua metapsicologia accanto alla pulsione non c’è la repulsione. Perciò Freud non seppe pelare l’anoressia, dove opera la repulsione del cibo come sostituto – congetturo in via non del tutto falsa – del pene.
Il seguito di questo saggio vuole tornare all’anoressia originaria del pene, madre di tutte le anoressie dall’alimentare alla scientifica; fu una repulsione che Freud non vide, supponendo al suo posto l’invidia del pene, forse non aiutato dalla sua lingua, che non ha il corrispondente esatto di “repulsione” nel senso aristotelico di “rifuggire da”; tra le molte alternative semantiche, Ablehnung, Abstoßung, Zurückweisung, Ekel, il termine che si avvicina di più, benché troppo forte, è Abscheu, “ripugnanza”, che per la prima volta Freud usa in Un caso di guarigione ipnotica,[4] proprio in riferimento al cibo, in seguito in riferimento alla sessualità (orrore dell’incesto). La rimozione (die Verdrängung) è certo una Zurückweisung; “respinge” dalla coscienza rappresentazioni indesiderate, ma senza energia specifica, corrispondente alla pulsionale, la cosiddetta libido. Dal punto di vista psicodinamico spinta pulsionale e respinta rimovente non sono simmetriche: la prima ha una forza propria, la seconda no.
L’appetito animistico
L’anima appetisce. Cosa? A farsi corpo. L’anima è l’enteléchia[5] del corpo, cioè è l’atto che realizza – Freud direbbe erfüllt – la potenza del corpo.[6] Aristotele non lo dice così, ma nel suo discorso è implicito che l’anoressia sia un corpo incompiuto, in pratica un corpo senz’anima, che non appetisce la propria realizzazione. Come? L’anoressia rifiuta l’ontologia della causa finale, del télos che realizza l’essere; tuttavia non accede all’epistemologia che sottomette l’essere al sapere come il cogito di Cartesio sottomette il sum. Li perde entrambi, l’essere e il sapere. In psicanalisi l’anoressia è un corpo inibito che non accede alla realizzazione del desiderio.[7] Vive in un limbo pre-ontologico dove è sospesa la finalità del corpo: compiersi.[8] Ama indugiare (verweilen, direbbe Hegel) nello stato di impotenza neonatale; realizza il desiderio edipico di mé phùnai,non nascere: non passare, cioè, dalla potenza all’atto che inaugura la tragedia di vivere.[9] Non per questo diventa comica.
Al di là delle favole sulle madri divoranti, l’anoressia è una forma di isteria collettiva, inchiodata all’alternativa binaria tra conservare il desiderio insoddisfatto o capovolgerlo nella falsa soddisfazione eccessiva. In questo senso l’anoressia è contro-ontologica: sposa la ragione fallica della mancanza a essere, matrice del desiderio. Perciò è incurabile; è nemica delle pretese di cura della civiltà. L’anoressia è incivile: rifiuta le cure civili, quasi che fossero la causa del disagio che pretendono curare. Il fatto di essere tante e strutturate in modo omogeneo (perché?) rende la schiera delle anoressiche un grave problema sociale, che le psicoterapie individuali non intaccano.
La contro-narrazione anoressica
Agli psicanalisti, catafratti nella pratica psicoterapeutica vigente, l’anoressia racconta senza parole una verità semplice ma tosta: il male di vivere è incurabile. La cura dell’essere, die Sorge, è un inganno teso dal soggetto collettivo all’individuale. Serve al collettivo per giustificare il proprio potere; è utile all’individuo come occasione di asservimento. A essere veramente curato è il soggetto collettivo, non l’individuale. Lo sapeva bene Aristotele, che curava Alessandro il Grande da piccolo; il thérapon greco era, infatti, il “servo che si prende cura del padrone”. Aristotele riversò la propria esperienza di accudimento del padrone nel De anima – capolavoro ontologico secondo Hegel, che ben sapeva quanto l’ontologia, consolidata nel terrore della morte, servisse al padrone per asservire il servo. Al vertice della pratica ontologica svetta la psicoterapia intesa come discorso del padrone in formato servile, direbbe Lacan, che nella sua algebra considerava il discorso dell’analista l’inverso del discorso del padrone.
Il bravo medico lo sa; se è onesto, sa di far parte di una squadra di tecnici per tessere l’inganno della cura individuale. Lo sapeva anche la giovane leucemica linfoblastica, quasi sicuramente morta per aver rifiutato la chemioterapia, all’unisono con la volontà dei genitori. Una forma di anoressia della pasticca, la loro. Drogati da una forma virale di pseudoscienza, hanno commesso un solo errore ma fatale: rifiutando la chemio credevano di respingere – non del tutto a torto – l’invasiva scientificità riduzionista della medicina moderna, forse in nome di qualche ideale vitalistico, magari omeopatico, vagamente biopolitico, nell’illusione di reintegrare il soggetto che la scienza fuorcluderebbe. Si sono sbagliati di grosso come tanti, ritenendo la medicina una scienza senza soggetto. La medicina è certo senza soggetto – oggettiva il malato – ma non è scienza.
L’anoressia scientifica e le sue fallacie
Resta ancora un enigma: l’estensione della passione antiscientifica, una forma di anoressia quasi specifica dello psichismo collettivo attuale.[10]Esiste forse un’anoressia scientifica? Parente dell’alimentare e affine all’anoressia del pene, ma più di massa? Quale pulsione l’animerebbe? Non lo so bene; so solo che le ragioni dell’anoressia scientifica sono più collettive che individuali. Ci sta innanzitutto il fatto che il discorso scientifico male si presta a conferire senso alla vita come quello filosofico o religioso.[11] A ciò si aggiunga un complesso di interpretazioni immaginarie sul mondo della vita, polarizzate dalla diffidenza per l’altro, potenziale complottista e ingannatore: per esempio, 50 anni fa non ci fu alcun allunaggio; fu una fakenews fatta circolare da chi voleva coprire loschi affari.[12]
La variante più comune di antiscientismo è il rifiuto dell’approccio probabilistico al reale, tipico della meccanica quantistica: non esiste il caso senza cause, tutto è determinato. È all’opera nella mentalità antiscientista un orrore del probabile, considerato incompleto, come anticamente esisteva l’horror vacui: il casuale è tuttora concepito come un vuoto di cause, quindi un vuoto ontologico, impensabile come per Platone il falso.[13 ] Secondo Freud, che pensava solo le connessioni in praesentia, non puoi dire un numero a caso senza svelare il tuo complesso d’Edipo. Ragionava come i giocatori che al lotto giocano i numeri ritardatari, personificandoli con l’intenzione di ingannarti. Nel caso citato tale forma di ignoranza deterministica prese lucciole per lanterne.
Credere che la medicina sia scienza, una scienza della vita quotidiana, magari per contestarne con più forza la pervasività, è infatti una fallacia, frutto di una volontà di ignoranza a sua volta alimentata – è il caso di dire in tema di anoressia – da un inesorabile masochismo. No, non è scienza; da Ippocrate in poi la medicina è una tecnica, sempre più ricca di complesse applicazioni bioingegneristiche, cosiddette biomediche, sempre più orientate alle manipolazioni genetiche (leggi CRISPR, una vera e propria tecnologia ontologica di editing genomico), che il potere promuove e usa in modo efficiente per mantenere sé stesso, i propri sudditi e l’ambiente dove si vive in salute, quindi produttivi. La mia posizione politica presuppone che in democrazia i cittadini abbiano il sacrosanto diritto a essere appena poco meno che bravi sudditi, senza per altro essere né rivoluzionari né anarchici. Secondo me è un dovere civile rifiutare il consenso a tecniche di conformazione al potere, quelle biopolitiche le più subdole. Il mio progetto politico, però, non può misconoscere il valore collettivo della scientificità: non si combatte l’ignoranza da soli come don Chisciotte contro i mulini a vento. La compagnia di Sancho Panza – del buon senso – non gli fu di alcun aiuto.
E la psicanalisi come è messa?
E il bravo psicanalista cos’ha da dire? Se è freudiano, è mal messo; ha problemi teorici e pratici con la dottrina di scuola, privo com’è di strumenti per trattare un disagio civile tanto esteso a livello collettivo quanto devastante a livello individuale come i disturbi alimentari, l’obesità e la magrezza. Il compito etico dello psicanalista è oggi di ripensare la teoria e la pratica della psicanalisi, discostandosi dalla teleologia di Aristotele e avvicinandosi a Galilei,[14] sospendendo gran parte dell’ortodossia (deterministica) trasmessa dalle scuole.
Insomma, è chiaro che la metapsicologia freudiana pretende “salvare i fenomeni” psichici. Non è un salvataggio difficile; basta inventare cause pulsionali ad hoc per ogni evento psichico, come prima di Copernico gli astronomi inventavano cicli, epicicli e deferenti per “salvare” le passeggiate dei pianeti nel cosmo. Come ogni fenomenologia, orientata a confermare i fenomeni più che a confutare le teorie, la metapsicologia non spiega molto, anche se tenta di comprendere qualcosa. Urge cambiare modo di pensare, aprire al vento scientifico le finestre che la cultura dominante sbarra, in nome di un antiscientismo che identifica la scienza con la tecnica e arriva addirittura a propagandare tecniche senza teorie. Antiscientismo favorito dagli psicanalisti stessi che in riferimento alla propria pratica preferiscono parlare di tecnica piuttosto che di scienza.[15]
Il bravo psicanalista, se saprà andare oltre Freud sulla strada tracciata da Freud stesso, riconoscerà che non esiste l’invidia del pene (der Penisneid); esiste ed è addirittura più diffusa dell’anoressia alimentare, che la contraffà in modo penoso, l’anoressia del pene, addirittura in formato omosessuale o bisessuale, con scarsa tendenza alla penetrazione. Le fa da contraltare l’esaltazione del fallo, che al di là del pene rappresenta il sublime desiderio insoddisfatto. Non sto inventando nulla; sto solo citando le Baccanti, molto moderna tragedia di Euripide, la cui portata soggettiva sfuggì persino al grande Nietzsche.[16] Agave, madre anoressica nonché ipercinetica, uccise il figlio Penteo, perché osò spiarne gli spasimi collettivi a celebrazione del fallo su e giù per i monti di Tebe, mentre vicariava e sublimava gli spasimi individuali che in camera da letto il pene non le procurava.[17] La sublimazione presenta sempre una caratteristica accentuazione collettiva della soddisfazione. Dopo tutto a giustificazione di Penteo va detto che il re di Tebe aveva il dovere di controllare cosa avveniva sul proprio territorio. Ma da imprudente sconfinò in territorio femminile, più selvaggio e pericoloso, dove domina un altro re: sua Maestà il fallo. Il fallo non dà la vita come talvolta accade al pene. Il fallo dà la morte.[18] Se mai ha un senso l’introduzione freudiana della pulsione di morte, è quello fallico secondo Euripide. Giustamente Lacan riconobbe l’esistenza di un’unica pulsione, quella di ripetizione.[19] Ça se répète toujours, era il suo ritornello, che gli sentii farfugliare la prima volta al Congresso di Roma dell’EFP nel novembre ’74, dove per altro non si celebrava Nietzsche.
La metapsicologia è vecchia di 300.000 anni
Da ultimo va riconosciuto che la metapsicologia freudiana è una psicologia prettamente maschile. Da 300.000 anni[20] il maschio di Homo sapiens non appetisce altro che copulare, anche con femmine di altre specie umane, se alla portata;[21] copulare è da sempre la sua meta pulsionale, ovviamente non sempre condivisa dalla partner, che spesso nutre altri e più sofisticati appetiti.[22] “Cosa pretende la donna?”[23] si chiedeva allora Freud, quasi dubitando che il banale finalismo metapsicologico mal si adattasse al femminile; ma, forse sopravvalutando narcisisticamente l’importanza del proprio, non seppe dare risposta più brillante dell’invidia del pene. E noi che non cessiamo di dirci freudiani, perché Freud è il nostro sintomo, come rispondiamo, ammesso che ci interroghiamo? Lacan tentò di rispondere distinguendo il godimento fallico “fuori dal corpo” dal godimento dell’Altro, dentro al corpo. Si può dire meglio, senza convocare la pseudo-topologia del dentro-fuori, la paranoia delle proiezioni e delle introiezioni?
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