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Recensione a “CHIARA FERRAGNI – UNPOSTED”

21 Set 19

Di Redazione Psychiatry On Line Italia
“Spero di piangere in modo carino” – dice Chiara Ferragni mentre prepara la scena del suo matrimonio. Scene da un matrimonio, appunto.
Questo è il Truman show 2.0. Il signor Truman era il protagonista reale e involontario di una vita artefatta del cui essere fittizia tutti sono al corrente tranne lui; una storia orchestrata da altri.
La signora Ferragni, invece, è la protagonista consapevole e volontaria della sua vita come storia rappresentata
Come Valmont nelle “Liaisons dangereuses” – ne scrive Malraux – è un personaggio che “si concepisce”:
“Egli (Valmont) proietta davanti a sé una rappresentazione di se stesso fatta di un tono particolare, di lucidità, di disinvoltura e di cinismo, molto concreta per il lettore. E i mezzi che adopera per conformarsi a questa immagine sono quelli che Laclos suggerisce al lettore per somigliare a Valmont”.
La Ferragni proietta una rappresentazione di se stessa altrettanto lucida e disinvolta, e seducente; ma non cinica, anzi ammirevole per i suoi buoni sentimenti.
Il “fascino per il suo personaggio è la sola autentica passione del visconte” – scrive Malraux del visconte di Valmont – e lo stesso può dirsi della signora Ferragni. Riuscirà a dominare la sua passione? A non farsene travolgere? E se a lei riuscirà (come le auguro), riusciranno le sue fans a non farsi travolgere dalla passione di essere come  lei? Questo è ciò che mi preoccupa…

La sua rappresentazione è consapevole? Volontaria?
Si può dire che è una persona che diventa il suo personaggio. E questo è il fascino che esercita sulle masse adolescenti. Essere personaggio è ciò che le adolescenti desiderano e per questo la adorano. Lei è personaggio. Il resto è noia. Vale la pena di vivere se non si è un personaggio?

Ma per diventare personaggio è necessario rinunciare al pudore. Cioè rendere pubblica la propria vita. Ovvero: scegliere cosa rendere pubblico della propria persona onde divenire personaggio.
Il pudore, dov’è il pudore in questa storia in cui si rendono pubblici i momenti più intimi di una vita (la nascita di un figlio, la scoperta dell’amore come rinuncia a una parte di se’, scelta che dovrebbe restare, sofferta in silenzio, e che qui diventa invece aforisma pop, pillola di filosofia)?
Cosa ne è della vita se diventa rappresentazione di se stessa?

La Shoah è meno grave di ciò che mostra questo film.
Perché è più circoscritta e riconoscibile. Lì il bene si distingue dal “male”. Qui invece il “male” è mimetico, contagioso, tendenzialmente endemico. Anzi questa rappresentazione è costruita per creare il “male” – se con “male” si intende farsi modello di una vita da imitare. Il male è propagandare spudoratamente questo modello.
Il “male” è rinunciare a vivere per fare della propria vita uno spettacolo. E di questo spettacolo il mezzo per ottenere consensi – per “condividere” (share) come si dice senza alcuna consapevolezza dell’abuso perpetrato su questa parola. E tramite questi consensi ottenere proseliti (NB: tutti coloro che non stanno a questo gioco saranno chiamati haters, incluso temo il sottoscritto).

Il “male” è la smaterializzazione del corpo. Una Barbie in insalata è il logo di TBS, The Blonde Salad, il blog della signora Ferragni. Quindi il “male” è l’evaporazione della vita, delle relazioni che una volta si chiamavano “reali”.
“Male” in senso etico, e psicopatologico. Epifania della sproporzione ottico-cenestesica – la stessa che troviamo nell’anoressia, di cui la Barbie in insalata è emblema involontario. Un Se’ disincarnato che riesce a ritrovarsi solo tramite lo sguardo dell’altro. Che riesce a vedersi solo grazie all’essere visto. Lo sguardo dell’altro che rappresenta la salvezza dalla smaterializzazione del corpo – l’occhio dell’altro come protesi ottica del proprio Se’ (su questa analogia tra anoressia e rappresentazione ottica del Sé rimando al mio libro “Selfie. Vedersi nello sguardo dell’altro”, che uscirà a gennaio 2020 con l’editore Feltrinelli).

È un “male” soggetto e diretto dallo sguardo dell’altro. E un “male” subdolo in quanto mascherato da bene perché si ripara sotto l’egida di esortazioni come  “siate voi stesse!”, “se avete un sogno provate a realizzarlo con tutte voi stesse!” – e simili rovinosi e apparentemente innocui incoraggiamenti che risuonano con il buon senso (difficile da contraddire) del “va dove ti porta il cuore”.
Il “coraggio di vivere”, che nella sua antica versione (Paul Tillich) era il coraggio di essere persona ed esistenza, è barattato con il coraggio di essere personaggio e storia da raccontare.
A più riprese nel docufilm si esorta a ribaltare gli eventi negativi della propria vita in opportunità. Viene in mente quella rappresentazione sontuosa di questo rifugio narcisista dalle avversità della vita che è impersonato dalla sorella di Justine (la protagonista di “Melancolia” di Lars von Trier). Claire, la sorella iper-adattata della squilibrata Justine, vorrebbe trasformare la collisione dell’astro malefico con la Terra in un avvenimento – appunto uno “spettacolo”.
Ciò che manca a questa etica che vuol fare anche del male un bene, della disgrazia una grazia – ciò che difetta a questa pretesa trasmutazione alchemica del negativo in positivo  – è il riconoscimento della complessità, per cui tutto diviene slogan.
Ciò che eccede in essa, invece, è una fede irrazionale nella separabilita’ del bene dal male.
Ma gli slogan propagandati da un blog e incarnati da un personaggio saranno un valido scudo di fronte alla prima vera avversità per le fans della signora Ferragni?

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3 Commenti

  1. admin

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    • nanni.sabino

      Volentieri segnalo questo
      Volentieri segnalo questo breve saggio, che trovo notevole e condivisibile in tutte le sue parti, eccetto in questo passaggio:
      “La Shoah è meno grave di ciò che mostra questo film. Perché è più circoscritta e riconoscibile. Lì il bene si distingue dal “male”. Qui invece il “male” è mimetico, contagioso, tendenzialmente endemico. Anzi questa rappresentazione è costruita per creare il “male” – se con “male” si intende farsi modello di una vita da imitare”
      La Shoah non fu affatto “circoscritta”, dato che fu causa di milioni di morti; come tale non è paragonabile ad un fenomeno quale quello di Chiara Ferragni, che benché per molti aspetti nocivo (come ben illustrato dall’Autore), non produce comunque versamento di sangue. La Shoah, finché fu in atto, non fu nemmeno “riconoscibile”: ora ci sono note tutte le menzogne pubblicate dalla propaganda nazista per convincere l’opinione pubblica tedesca e quella internazionale che gli Ebrei e gli altri individui perseguitati, pur essendo emarginati, erano, in fondo, trattati “con umanità”. Cito, ad esempio, i documentari in cui i campi di concentramento erano rappresentati come “oasi felici” in cui tutti trascorrevano una vita serena e libera da impegni.
      Detto questo, la lettura del saggio, di cui sotto trovate un link, resta comunque raccomandabile: i concetti sono espressi in modo chiaro, con ampi riferimenti alla clinica e alla letteratura. Notevole il concetto di “dissociazione cenestesico-visiva” per cui molte adolescenti (e segnatamente le anoressiche) vivono proiettandosi nell’immagine che offrono di sé ed in un personaggio “alla moda” che esse imitano; e questo per l’inconsistenza della loro vita interiore. Kohut parlerebbe di difetto nella coesione, armonia interna e vigore del Sé, molto diffuso fra gli adolescenti di questi tempi. Il fenomeno non è nuovo: gli appassionati di letteratura ricorderanno quanta diffusione ebbe il “bovarismo” a seguito della pubblicazione del romanzo di Flaubert. Si deve dare atto alla Ferragni che, almeno, il suo non è un invito a condotte trasgessive temerarie e al suicidio; è, più che altro, come suggerisce l’Autore, una falsificazione della realtà interiore, un modello fuorviante per le adolescenti alla ricerca di un autentico contatto col proprio Sé.

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  2. dibitontodaria

    “La Shoah è meno grave di ciò
    “La Shoah è meno grave di ciò che mostra questo film” scrive Giovanni Stanghellini. La frase mi ha inizialmente disturbata, per non dire scandalizzata. Gliene ho scritto, chiedendogli di considerare, oltre a tutto il resto, le proporzioni numeriche della Shoah. Mi ha risposto dicendo che, secondo lui, le proporzioni numeriche comportino una schiacciante preponderanza della società oculo-centrica rispetto a tutte le Shoah che si sono succedute in due guerre mondiali. Crede inoltre che la possibilità di distinguere il bene dal male nella Shoah sia molto più facile – nel senso che sia alla portata di molte più persone, nonostante razzismo, antisemitismo, ecc., rispetto alla società detta oculocentrica. La risposta non mi convince del tutto: 6 milioni di ebrei perseguitati, deprivati di tutti i loro beni, affamati prima e sterminati poi nei “campi di lavoro” in cui avrebbero dovuto essere “resi liberi” (come recitava la formula “Arbeit macht frei” all’ingresso) mi sembra obiettivamente una storia ben più tragica e radicalmente drammatica del bisogno di apparire di Chiara Ferragni che l’ha portata a un enorme successo e a essere seguita, d’accordo, da un numero considerevole di ragazzine che vorrebbero essere come lei (ma di queste migliaia, forse anche milioni di ragazzine, quante si affamano per la disperazione di non poterle assomigliare, o nel disperato tentativo di assomigliarle almeno un poco? quante riempiono il vuoto della loro esistenza con i trucchi, i vestiti, le borse firmate da Chiara? abbiamo qualche numero per inquadrare il fenomeno e la sua negatività? e se non ci fosse Chiara, di cosa si “riempirebbero” queste migliaia di ragazzine?).
    Concordo con lui, invece, riguardo alla più difficile distinguibilità del male di cui Chiara Ferragni si fa inconsapevole promotrice. Qual è il male che non si riesce a distinguere secondo Giovanni Stanghellini? Lo ha scritto in questa recensione: “Il male è la smaterializzazione del corpo”. E’ il rendere patinato, “plastificato”, “mascherato” da immagine per lo schermo ogni più sciocco dettaglio intimo o meno della propria vita quotidiana. Il fare della propria vita emotiva e relazionale una pellicola in continuo svolgimento porta a focalizzarsi su due dimensioni costitutive della vita: l’altezza potendo essere interpretata come la dimensione in cui si misura la “prestazione” (nel caso di Ferragni, quanto sono brava a essere cool, a influenzare trend e mode), l’ampiezza potendo essere interpretata come la dimensione dell’espressione delle proprie emozioni (nel caso di Ferragni messe in scena per il pubblico nello stesso momento in cui nascono in lei). Manca tuttavia la terza, la profondità: intesa come capacità di dare spessore e consistenza alla propria vita – al proprio corpo materiale! – al di là del successo nel proprio mestiere e della condivisione delle proprie emozioni. Cosa ci resta se sottraiamo dalle nostre vite il nostro successo (o insuccesso, o successo parziale) professionale e le nostre emozioni? Il senso, che è fatto di corpo e spirito, di materia e mente. Quella capacità, mentale, di dare unità a noi stessi, corpi, e al mondo, materiale, di cui facciamo parte – è sia capacità critica, capacità di distinguere e contraddire, capacità di dire no, sia capacità sintetica, capacità di unire e mettere in relazione il diverso, quindi capacità di dire sì, ma anche capacità di vedere (theorein) l’unione del sì e del no in un senso più elevato che li tiene insieme entrambi, fosse anche un senso antinomico e paradossale. E’ la nostra società, oculocentrica, una società che elimina la terza dimensione, la profondità che il senso dà all’esperienza? Credo di sì. In maniera inconsapevole e per lo più del tutto involontaria. E’ una Shoah più grave di tutte le Shoah? Se andasse a finire così, se la terza dimensione svanisse, direi di sì. Non sono sicura – non lo sono mai, a priori – che la battaglia sia persa. Perché la nostra società, laddove opera per l’eliminazione del senso, moltiplica i sensi possibili, moltiplica le occasioni di produzione e di condivisione di senso. Abbiamo con fatica e duramente conquistato, nei secoli, una società plurale, fatta di reti, di nodi significanti, di modelli e contromodelli, che coesistono antiteticamente: Chiara Ferragni e Greta Thunberg, Valentino Rossi e Giulio Regeni, la modella che mette all’asta la sua verginità (vera o presunta?) e Samantha Cristoforetti. Ferragni smaterializza il corpo? Greta Thunberg piange davanti ai grandi della terra la distruzione dell’unico pianeta che ci può garantire la sopravvivenza materiale. Valentino Rossi rischia la vita in gara ogni settimana per sfida narcisistica ripetuta e portata all’estremo? Giulio Regeni la perde drammaticamente e ingiustamente nel fare ricerca sulla realtà di oppressione e corruzione nella società e nella politica egiziana.
    Distinguere il male per dire di no al male è necessario, e quindi grazie a Giovanni per aver squarciato il nostro sguardo ingenuo. Per sconfiggerlo, però, è necessario circoscriverlo, sempre, e continuare a credere che non abbia già vinto. Come lui ben sa, non diversamente opera la psicopatologia.

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