Dialogo tra Sarantis Thanopulos e Annarosa Buttarelli
Annarosa Buttarelli: “Sono preoccupata per le lacerazioni, anzi le degenerazioni che si sono installate nello spazio pubblico in un momento così fragile com’è il cambio di civiltà. Penso che sia un obbligo impegnarci nel lavoro sul linguaggio come fa Rebecca Solnit e come fa John Freeman con il suo imperdibile Dizionario della dissoluzione (Black Coffee ed.), poiché molte nostre azioni sono inconsapevole conseguenza delle parole che usiamo. Oggi, in ogni schieramento politico e in ogni lobby di pressione, le parole sono usate come corpi contundenti e non per il loro potenziale valore di trasformazione. Da pensatrice femminista radicale sono colpita dalla violenza tra gruppi queer e femminismo storico, ad esempio. Ma anche, altro esempio, tra chi si arrabbia per le misure adottate dal governo per contrastare la pandemia e chi aderisce in toto alle iniziative del governo stesso. Sono le singole parole del “politicamente corretto” dell’una e dell’altra parte, e non gli argomenti, a tirare le fila di un conflitto che è già guerra: “negazionismo”, “conservatorismo”, “biologiste”, “via le Terf dalle università! (via tutte noi della differenza sessuale?), ”collaborazionismo”, ecc. ecc., per citare le più ireniche. Noi che scriviamo dovremmo dare l’esempio e non esasperare i toni, riportando alla misura del savoir-vivre il nostro linguaggio. Vorrei affrontare con te questo problema, cercando di esercitare il pensiero critico nel marcare la differenza, anziché scivolare sul piano inclinato del disprezzo dell’avversario/a.”
Sarantis Thanopulos: “Stai delineando la deriva dal politically correct al politicamente scorretto. Cadiamo dalla padella nella brace. In entrambi i casi è in azione la mistificazione linguistica dell’esistenza. Nel primo si cerca di creare verità nominali, di costruire in modo puramente semantico il senso della realtà, invece di derivarlo dall’incontro erotico, affettivo, riflessivo con essa. Nel secondo si tende, usando le parole come armi, a distruggere la possibilità di sentire e di pensare, affidando la propria prospettiva sul mondo a emozioni impulsive, totalmente iscritte al meccanismo di eccitazione-scarica e inducenti all’azione irriflessa. Le parole invece di mediare il nostro rapporto con gli altri, lo fabbricano. Ciò corrisponde a una crisi politica seria, a un declino delle relazioni nella Polis. Dei due esempi da te citati, in cui la pigrizia linguistica sostituisce il pensiero critico, scelgo per ora il primo. Il movimento queer diverge dal femminismo storico su due punti importanti. Associa l’omosessualità alla transessualità, staccandola dal suo legame con l’eterosessualità che modula la sessualità umana. Con il termine “terzo genere” (né donna né uomo) promuove l’oblio della differenza (motore del desiderio femminile) e invoca, come politicamente corretta, un’idea di libertà che ignora il senso del limite (qualità soprattutto femminile). Il corpo anatomico non è riducibile a quello biologico, ha proprietà relazionali che, animate dal desiderio (dimensione psicocorporea), gli conferiscono una capacità bi-funzionale (etero-omoerotica, femminile-maschile), ma dentro il gioco della complementarietà con la differenza, lo spazio in cui questa capacità resta viva. Dove l’hybris è in agguato, si sente odore di un troppo di maschile. E si può scivolare nelle parole violente.”
Annarosa Buttarelli: “Hai illuminato il punto cardine: la parola libertà, trascinata a forza a indicare il “diritto” di fare-quello-che-si-vuole, come si dice comunemente, cosa ben lontana dal fare ciò che si desidera. Il desiderio è ormai qualcosa di sconosciuto, tranne che per le donne rimaste fedeli al proprio sesso (come ribadisci anche tu, qui e altrove). Il desiderio è alimentato e tenuto vivo dalla mancanza non appropriabile, mentre la libertà brandita come un’arma è avida di appropriarsi dell’oggetto di ogni impulso.
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