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Una nuova identità professionale: lo psicologo nei servizi pubblici. Cenni storici

9 Apr 21

A cura di dinange

Una microstoria degli esordi della professione di psicologo nel 'pubblico' in Italia può essere utile in questo tristissimo momento, nella speranza che si possa uscire dal disastro attraverso una profonda trasformazione della sanità e della psicologia italiana (L.A.)
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(Relazione al Seminario per giovani psicologi
a cura della Regione Emilia Romagna – Castel San Pietro (Bo), 4/2/1993)

  
1. Come è noto, nonostante in Italia l’istituzione del corso di laurea in psicologia sia molto recente (prima metà degli anni 70), la figura dello psicologo era presente nelle istituzioni del nostro paese ben prima che vi fosse un riconoscimento pieno della professione.
È noto altresì che il riconoscimento tardò ad essere sancito in termini di legge per due ordini di motivi.
Da una parte a causa della dipendenza delle nostre istituzioni universitarie dal modello crociano e gentiliano degli studi, modello in base al quale tutte le scienze sociali, e non solo la psicologia, erano considerate “non scientifiche” (questa, diciamo così, è la spiegazione più tradizionale):
2. Ma già nel 1974 Dario Romano, analizzando le cause dell’arretratezza italiana nel campo delle scienze sociali e della psicologia in particolare tendeva a dare una risposta diversa rispetto a quella qui sopra prospettata.
Diceva il Romano, proprio in opposizione alla spiegazione “ideologista”: “Il motivo reale della nostra arretratezza va invece ricercato nella dialettica fra sviluppo e sottosviluppo che caratterizza la struttura socio-economica del paese, permettendo il sopravvivere di un assetto culturale per molti aspetti ancora paleoborghese e favorendo una terziarizzazione qualitativamente frenata dalla bassa produttività del settore industriale ed incapace di esprimere adeguatamente forme professionali nuove che, come quella dello psicologo, presuppongono una vasta ristrutturazione dei servizi”.
3. Probabilmente vi è del vero in entrambe le spiegazioni, ed anzi mi pare di poter dire che l’una è il complemento dell’altra. In ogni modo il peso di questa ingombrante eredità è ancor oggi riscontrabile nel nostro ordinamento universitario ove si badi, ad esempio, al fatto che ancora non c’è in Italia un corso di laurea in Antropologia Culturale (e ciò nonostante il nostro passato di paese coloniale).
4. Una storia della professione dello psicologo in Italia perciò dovrà partire: a) da una analisi storica del nascere della nostra disciplina come disciplina scientifica, e b) da una pratica svolta negli OP nei CMPP, che sarebbe esagerato definire di tipo “catacombale” ma che purtuttavia, fino agli inizi degli anni 70, non aveva alle spalle delle adeguate e distinte sedi formative.
 
a) Una premessa necessaria
5. Ma, prima di partire per tentare un excursus storico della nostra professione, mi preme di specificare il significato che io attribuisco ad alcuni termini, apparentemente banali, che tutti noi usiamo quotidianamente, ma che a mio avviso necessitano di una esplicitazione e di un approfondimento, almeno in questo contesto, poiché se intesi in maniera difforme rispetto ai livelli di significato che in questa relazione si intende dare ad essi, rischierei di essere frainteso.
6. Il primo termine che mi preme chiarire è “territorio”.  Spesso noi diciamo: “Io lavoro nel territorio”, oppure: “La tal cosa nell’ottica territoriale…”, etc. Quando facciamo asserzioni simili spesso noi pensiamo ad una qualche entità, il territorio, che si distingue da altre entità: l’ospedale, ad es, o altre istituzioni “non territoriali” (l’istituto, il carcere, l’ospedale psichiatrico, etc.). Quello che rimane implicito in ogni caso -e che io intendo esplicitare- è che il termine “territorio” noi lo usiamo per distinguere un certo contesto lavorativo da un altro.
Cioè il termine “territorio” per noi non connota una entità di tipo geografico, ma un insieme di servizi, un vero e proprio tessuto istituzionale che che una volta non c’era e che, da un certo momento in avanti, ha cominciato ad essere imbastito a volte in contrapposizione ad altre istituzioni preesistenti, a volte in aggiunta ad esse, a volte ancora “ex novo”, senza cioè alcun modello precedente cui contrapporsi o giustapporsi.
7. E poiché è proprio nel territorio che la figura dello psicologo vedrà le più ampie possibilità di impiego nei cinque lustri lungo i quali si svilupperà la terza parte della mia relazione è necessario, penso, soffermarsi un momento su ciò che il territorio ha significato per noi, e non solo per noi.
Lo spartiacque, il discrimine fra società italiana senza territorio e società con territorio è il 1968. Sono le spinte che in quella stagione prendono corpo che fanno nascere in Italia le premesse istituzionali (leggi, ordinamenti, riforme) che permettono la possibilità dell’emergere del welfare negli anni che seguiranno. Ed è proprio nel welfare che il territorio si sviluppa; anzi io penso che il territorio possa essere inteso come una cartina di tornasole in base alla quale è possibile vedere se in una determinata regione del nostro paese il welfare c’è poi realmente stato o no.
8. È noto come in Italia il welfare si sia manifestato in alcune zone sotto forma di servizi erogati all’utenza, cioè sotto la forma dello stato sociale, in altre come stato assistenziale che non eroga servizi, ma che distribuisce sussidi e prebende.
L’Emilia e Romagna è una delle regioni in cui più coerentemente è stata intrapresa la strada della costruzione dello stato sociale, ma se potessimo fare una mappa del territorio nazionale segnando con un colore le zone in cui nei 25 anni trascorsi dal ’68 si è sviluppato lo stato sociale e con un altro colore quelle in cui si è dispiegato lo stato assistenziale avremmo senz’altro una strutturazione “a macchia di leopardo”, che non è detto che coincida con le zone rosse e le zone bianche, nè pienamente con il nord ed il sud del paese.
Ciò per la nostra professione è più importante di quanto a prima vista si è portati a credere perché la presenza o l’assenza di uno stato sociale definisce la presenza o l’assenza di una cultura che solo nello stato sociale nasce e si sviluppa dando a tutte le professionalità che all’interno di esso si dispiegano una identità che alla fine risulta molto diversa da quella di chi magari fa lo stesso mestiere in zone in cui l’assistenzialismo è imperante.
Per dirla in soldoni io sono convinto che una cosa è l’identità dello psicologo in Emilia e Romagna, un’altra quella dello psicologo in certe zone della Puglia o della Calabria.
9. Il secondo termine che mi preme chiarificare è quello di “tecnico”. Anche in questo termine, o, meglio, nell’uso di questo termine vi è una ambiguità che non vorrei rimanesse implicita, qui fra di noi. Il termine “tecnico” infatti rimanda da una parte ad una serie di competenze più o meno sofisticate di tipo esecutivo, dall’altra ad un insieme di pratiche, potremmo dire, storiche che hanno visto, in varie fasi della storia delle istituzioni territoriali, la figura dello psicologo, insieme certo ad altre figure (lo psichiatra, il medico del lavoro, etc.), come protagonista in un ruolo critico e non meramente esecutivo.
Definirò allora come tecnici coloro che non si pongono mai il problema dei criteri di funzionalità che informano il proprio lavoro e tantomeno quelli della istituzione in cui operano, e come esperti coloro che, al contrario, non si accontentano di possedere competenze di tipo manipolativo, e non rinunciano ad avere “comprensione della cosa” (Adorno), cioè una visione critica complessiva del loro essere professionale ed umano.
Spero sia chiaro che in questa distinzione non è implicita alcuna visione piramidale dei due termini per cui ad esempio il tecnico sarebbe nei gradi bassi dell’istituzione e l’esperto in quelli alti, bensì una distinzione in base al grado di autoconsapevolezza che concretamente e “storicamente” si esprime nella prassi. Per cui ad esempio uno stesso gruppo operativo, una stessa èquipe di lavoro, uno stesso professionista può trasmigrare dall’uno all’altro polo, dall’uno all’altro modo di vedere e concretamente svolgere il proprio lavoro a seconda del modo concreto con cui vive ed elabora quella tensione critica che nasce nel rapporto con “l’altro da me” con il quale in quanto “operatore di frontiera” entra in rapporto.
10.E così come l’operatore territoriale può oscillare fra l’esser tecnico o l’essere esperto, allo stesso modo l’amministratore può ridurre le istituzioni ad un insieme più o meno efficace ed efficiente di attività amministrate, può cioè ridurre le istituzioni del welfare ad un puro affare di natura amministrativa: la cultura che informa tali istituzioni allora sarà essa stessa una cultura amministrata, cioè evirata di ogni istanza critica. Oppure può mettere in atto una “prassi amministrativa maggiorenne”, può cioè fare in modo che, con il concorso degli esperti, sorgano “centri di libertà” e di sperimentazione che, come dice Adorno, “sarebbero soppressi qualora ci si affidasse al processo cieco ed incosciente della pura selezione sociale”.
11. L’esperto, insieme all’amministratore avveduto, è -secondo quanto afferma Adorno- uno dei pochi che -in una società che uccide sistematicamente le possibilità di autoaffermazione e di autocoscienza- ha la possibilità di fare “un’esperienza differenziata ed avanzata”. Insieme possono compiere, se non rinunciano alle loro istanze più critiche, una forzatura che va “a beneficio di coloro che, certamente senza loro colpa, sono esclusi dall’espressione viva della propria causa”.
12. Si tratta, come vedete, di una posizione “elitaria” quella che in questi ultimi punti vado sviluppando, ma proprio per questo reputo una rinuncia grave quella di chi, come noi, ha la possibilità di costruire una “prassi amministrativa maggiorenne” e vi rinuncia senza aver tentato ogni strada che in quanto soggetto critico ognuno di noi ha.
Il punto cardine dal quale parte Adorno, e che io condivido, è che le istituzioni hanno acquisito una forza tale “da renderle autonome da ogni effettivo controllo di tipo plebiscitario”.
Ma questa autonomia che ha generato negli ultimi anni tutti i mostri istituzionali che abbiamo sotto gli occhi è la stessa autonomia in base alla quale, come vedremo meglio fra un pò, è nata tutta la sperimentazione di cui l’Emilia ancora mostra vanto “urbi et orbi”.
Un altro vantaggio che ha una impostazione di questo genere è quella di fare piazza pulita di quel piagnisteo che spesso prende gli operatori nei confronti degli amministratori, e per converso questi ultimi quando si lamentano dei loro dipendenti.
Infatti da questo punto di vista il potere dell’amministratore non è molto diverso da quello dell’intellettuale, tecnico od esperto che sia, che lavora nell’istituzione: entrambi possono o non possono mettere in piedi una dialettica che porta o non porta alla realizzazione dei centri di libertà e di sperimentazione di cui sopra. E se nell’uno e nell’altro prevarranno le parti più costruttive, creative o le parti più pavide e burocratiche questo non sarà più scissionalmente attribuibile all’altra parte istituzionale, ma imporrà una riflessione su se stessi e sul proprio essere professionale ed umano.
13. Nuove professionalità\vecchie professionalità. Nuove identità\vecchie identità: questo mi pare il terzo ed ultimo ordine di vocaboli che meritano una esplicazione prima di iniziare la nostra storia. In questo caso ciò che va chiarito non è tanto un qualcosa di intrinseco ai termini stessi, quanto un problema che definirei “di prospettiva”. E cioè da quale punto di vista si intende descrivere ciò che si osserva. Infatti non è secondario nel racconto di una storia sapere quali sono le caratteristiche personali del raccontatore, con quali passioni egli ha vissuto la trama del racconto che sta per narrare, da quale parte egli era nelle contese di cui sta per dirci -si spera- l’essenziale. Ciò sia se gli eventi narrati sono lontani da noi che ascoltiamo, sia soprattutto se sono vicini ed ancora immanenti con la loro pesantezza istituzionale, con le loro piccole e grandi stigmate che ogni ascoltatore, oltre che il narratore, porta su di sé. E questo penso sia proprio il nostro caso in cui vecchie e nuove professionalità, vecchie e nuove identità si sono scontrate ed incontrate, o solo sfiorate, nell’arco di un ventennio in cui tutti noi siamo stati parte in causa.
14. Ebbene, come sarà ormai chiaro, il sottoscritto appartiene a quella categoria di operatori territoriali -“re della strada, re della foresta”- che per un lungo periodo di tempo hanno visto il loro lavoro in contrapposizione con quello “istituzionale”. Contrapposizione che fu di luoghi, di modi di lavorare, ed ancora di obiettivi, di programmi, in modo che se ancor oggi volessimo fare una storia a partire da questi presupposti quel che verrebbe fuori è un’opera di enfatizzazione da una parte, e di denigrazione da un’altra.
Enfatizzazione, e cioè idealizzazione del territorio e dei suoi eroi, e denigrazione del lavoro istituzionale, di tutta l’impalcatura istituzionale che ci eravamo proposti di demolire insieme agli amministratori di quel periodo. Ma una storia di questo tipo oggi non ha più ragione di esser raccontata poiché, almeno in Emilia e Romagna, da una parte altre sono oggi le ragioni del contendere all’interno degli operatori, dall’altra perché a poco a poco è emersa in noi la consapevolezza che una contrapposizione così manichea, scissionale fra territorio ed istituzione non aveva senso poiché anche il più “territoriale” dei lavori, o degli operatori, o dei luoghi ha in sé le premesse di quella che allora chiamavamo logica istituzionale, e che oggi semplicemente riconosciamo come impigrimento della coscienza, ottundimento dello spirito critico.
15. È per questo che oggi la prima cosa che occorre fare, se vogliamo delineare la trama di una nuova storia che parta dalla comprensione degli altri è quella di superare ogni manicheismo e di guardare alle istituzioni a partire da un punto che ci permetta una visione prospettica più ampia. Per far ciò l’unica maniera è quella di decentrarci e di vedere al nostro lavoro, ma non solo a quello che ognuno di noi fa, bensì a tutto il nostro lavoro, a quello di chi ci ha preceduto, così come a quello di chi a fianco a noi lo svolge a partire da approcci, protocolli, etc. diversi dai nostri, in termini materiali come corrispondente alla soddisfazione di un bisogno di salute psichica dell’individuo che, in quanto tale rimane immutato in ogni società e che quindi si definisce come bisogno reale dell’uomo, ma che presenta in ogni società modalità concrete, storiche di soddisfazione che variano a seconda di un insieme di componenti che sarebbe difficile qui riassumere, ma che si inscrivono tutte nell’orizzonte concreto di possibilità che è dato di avere in “quel” momento, stanti “quelle” condizioni.
16. Tutto ciò visto non in un’ottica giustificazionista e “sistemica” per cui data una certa situazione non vi è per il soggetto, per il professionista, per l’amministratore che adeguarsi come un pezzo di un ingranaggio. Ma proprio a partire dalla constatazione che in ogni situazione c’è sempre la possibilità per il soggetto di cogliere gli elementi più avanzati che nella situazione sono in nuce per svilupparli e contribuire così alla ri-definizione alla ri-configurazione delle varie costellazioni istituzionali che in passato si erano solidificate e che ora appaiono superate. Cioè per riprendere una metafora di Napolitani ogni epoca, e non solo la nostra (come immodestamente pensavamo) ha avuto i propri “operatori di frontiera”, così come ogni epoca, ed anche la nostra (cosa che non avremmo mai presupposto) ha avuto chi su quella frontiera si è posto come un doganiere pavido che tende ad eludere, con manovre difensive le più diverse, l’incontro con le alterità più inquietanti, incontro per il quale in fondo siamo pagati.
17. Ci resta ora da esporre un solo concetto prima di tentare una periodizzazione della nostra storia passata e più recente. Un concetto che si lega al discorso che facevamo prima sul rapporto fra bisogno di salute mentale presente in ogni società e concrete modalità soddisfacimento di tale bisogno che, come era implicito anche nelle considerazioni di Dario Romano, sono diverse e storicamente determinate. Il concetto in questione e quello di “comunità interpretante”: intendo per comunità interpretante quell’insieme di individui, di gruppi più o meno organizzati, di istituzioni, che in un determinato periodo storico ed in una concreta società sono preposti a dare senso in termini filosofici ad un determinato ordine di fenomeni, ed a collocare in un insieme di procedure nonché a definire organizzativamente in un insieme di protocolli quelle che sono le conseguenti modalità secondo le quali quell’ordine di fenomeni viene affrontato “lì ed allora”. Nel nostro caso quindi il problema è quello della sofferenza mentale , le procedure e i protocolli sono quelli che concretamente si sono cristallizzati nelle varie fasi della nostra storia passata e recente.
18. Veniamo infine alla nostra storia. Distinguerò appunto fra passato remoto e passato prossimo, cercherò di andare più veloce sul passato remoto, e mi concentrerò sul passato prossimo, poiché è proprio che nasce lo psicologo dei servizi pubblici. Un accenno agli antenati però mi pare doveroso soprattutto per quanto attiene l’origine della nostra disciplina scientifica, dei nostri protocolli di lavoro, del nostro contesto istituzionale.
 
b) Fra la pre-istoria e la storia
19. La prima comunità interpretante di fronte alla quale ci troviamo se andiamo indietro fino al momento storico immediatamente precedente a quello in cui appaiono le prime istituzioni nella nostra società è la “ecclesia” medievale. L’interpretazione delle “stigmate” dell’alterità, di tutte le alterità (e non solo dei malati di mente), che veniva fatta dalla “ecclesia” medievale tendeva alla loro iscrizione all’interno di una interpretazione religiosa dei fenomeni mirante o alla soppressione dell’alterità, vista come simbolo inquietante del demoniaco, oppure ad una sua accettazione ruolizzata nella comunità.
20. Ad un certo punto però qualcosa comincia lentamente a mutare: e sono i processi di secolarizzazione della società, da una parte, e di spinta verso la città, dall’altra, che determinano l’emergere di una nuova comunità interpretante che tende ad iscrivere il discorso, ancora indistinto, sulle alterità all’interno di un quadro interpretativo del tutto nuovo. E se l’ecclesia medievale leggeva quelle stigmate come segnali del divino, la comunità artigiana e commerciale che fa rinascere le città vive indistintamente l’alterità come un attentato alla laboriosità della città protocapitalistica ed inventa l’istituzione promiscua, vista come luogo che permette una igiene della città. Ciò che spinge verso l’istituzione promiscua è, cioè, una esigenza che Foucault ha definito di “igiene della città”, una operazione di pulizia che, come dice sempre Foucault, era anche una operazione di polizia. Nell’arco di qualche secolo (e, più precisamente, mano a mano che nei vari luoghi si sviluppa il modello protoborghese di vita) nascono dappertutto in Europa delle istituzioni promiscue che, come la prima di esse, la Salpetrière, accolgono indistintamente malati di mente, prostitute, figli di nessuno, vagabondi, etc. Il fine che le informa è quello dell’igiene della città, ma ciò non toglie che vi sia in questi luoghi una “cura” degli ospiti. Solo che questa cura, data la promiscuità, non può essere una cura discriminata; anzi si può dire che ad una indistinzione, nata dalla promiscuità, corrisponde una distribuzione indiscriminata di cure.
21. Il passo successivo, anche questo intrapreso in un arco di tempo piuttosto ampio, è quello della nascita delle discipline. Se la storia fin qui narrata è più che altro una pre-istoria del nostro essere professionale con la nascita delle discipline siamo già in certo qual modo all’interno di una storia che è ormai vicina a noi. Si diceva all’inizio della critica crociana e gentiliana alle scienze umane ed alla loro pretesa di scientificità. Ebbene l’origine di quel percorso intellettuale e culturale che porterà anche alla nascita dell’ economia, della sociologia, della psicologia, della storia, etc.- intese come scienze- è proprio in quell’ulteriore processo di emancipazione del pensiero filosofico e scientifico dalla mentalità medievale e pre-moderna che è rappresentato dall’emergere del pensiero razionale. È il pensiero razionale ,nel contempo motore e prodotto degli ulteriori cambiamenti avvenuti a livello della struttura produttiva, che diviene il volano a partire dal quale si irradieranno poi tutte le successive “colate” che si solidificheranno prima nel pensiero filosofico, successivamente nel pensiero scientifico, infine nelle varie discipline, intese non più come branche della filosofia, ma come scienze.
22. Di fronte alle stesse stigmate che nel Medioevo erano state lette in termini di ruolizzazione o di soppressione, che nella città protocapitalistica avevano condotto alla segregazione in istituzioni promiscue ora le nuove entità interpretanti cominciano a distinguere: questo è di mia competenza e questo no. Vengono spiegate quali sono le ragioni ed i limiti delle varie discipline. Si definisce così una vera e propria mappa in base alla quale ogni istituzione si pone, descrive i propri confini, e si legittima in base ad una propria affiliazione ad una o a più discipline scientifiche: nascono così il manicomio, l’ospedale, l’orfanotrofio, la scuola materna, etc. Contemporaneamente o successivamente all’interno di ciascuno di questi confini nascono delle specializzazioni che definiscono delle mappe più dettagliate in cui i saperi si frantumano, le responsabilità si liquefano, mentre nel contempo le tecniche diventano sempre più raffinate ed efficienti.
23. Ma quando l’interpretazione si sposa con il metodo sperimentale avviene un fatto nuovo che merita la nostra attenzione perché le conseguenze insite in questo modo di pensare pesano ancor oggi sul nostro modo di avvicinarci all’altro da me. Accade cioè che l’interpretazione si camuffi dietro una patina di oggettività in base alla quale le osservazioni dell’interpretante diventano leggi ed, in base a queste leggi, si definisce un rapporto con le alterità (che nel frattempo son diventate un accidente che si declina al plurale) di tipo scientifico, dove si intende per scienza la modalità di conoscenza tipica della sperimentazione galileiana, non considerando che questa è solo una delle modalità di conoscenza che l’uomo possiede.
24. Da questa riduzione della scienza alla scienza sperimentale, e cioè a quel tipo di conoscenza verificabile sperimentalmente, deriva un rapporto oggettivante con il fenomeno da osservare. E quando questa alterità è un essere umano l’oggettivazione comporta una duplice riduzione: dell’altro ad oggetto, ma anche dell’osservatore a strumento freddo, meccanico, di registrazione, di catalogazione (le diagnosi, per es.), di distribuzione nelle varie istituzioni “all’uopo” formatesi. Ed anche la cura si definisce come un insieme di procedure standardizzate che sono propinate in base all’aura che il tecnico ha per il fatto di appartenere alla comunità scientifica (è grazie a questo tipo di standardizzazione ed a quest’aura che in passato è stato possibile propinare ad es. l’elettroshock ai pazienti psichiatrici).
25. A un certo punto quello che abbiamo chiamato il discorso delle discipline comincia ad andare in crisi. Ragioni altrettanto materiali sono alla base di questa obsolescenza, nonché dei contenuti e dei metodi di lavoro di una nuova comunità interpretante di cui anche noi facciamo parte.
E se il discorso delle discipline era corrispettivo all’epoca del capitalismo trionfante, quello delle nuove professioni lo è rispetto all’epoca del capitalismo “tardo”, cioè di quest’ultima fase che sta vivendo la nostra società. E, come era accaduto precedentemente, ai nuovi discorsi elaborati in un nuovo clima sociale, da nuove comunità interpretanti, corrispondono non nuovi bisogni, ma nuove modalità di soddisfacimento di tali bisogni. Alle modalità ruolizzanti o rimuoventi dell’ecclesia medievale, a quelle segreganti delle città protocapitalistiche, a quelle oggettivanti tipiche delle vecchie professioni nate nel e col discorso delle discipline, questa nuova comunità interpretante oppone modalità di soddisfacimento che sono: la psicoterapia, la riabilitazione, il “territorio”, le strutture intermedie, etc.
26. Si può leggere quindi la nascita di questa nuova comunità interpretante e tutti i processi di aggregazione che avvengono in essa come la storia di un processo che ancora è in pieno svolgimento in cui vari “operatori di frontiera” definiscono nuove professionalità (e quelle dello psicoterapeuta e dello psicologo operanti nei servizi pubblici sono fra queste) che vanno sperimentando (non più nel senso galileiano del termine) sempre nuove modalità di incontro con l’altro nei vari “luoghi di frontiera” in cui hanno la ventura di operare. E tali luoghi di frontiera possono essere, a seconda delle esigenze che definiscono i vari setting: il territorio o quelle le nuove istituzioni -quali le strutture intermedie- che insieme a quelle territoriali determinano una nuova rete istituzionale che io propongo di definire di tipo professionale, proprio per distinguerla dal precedente reticolo istituzionale, quello delle istituzioni totali, e cioè quello corrispondente al periodo del discorso delle discipline.
27. Ciò che distingue questi nuovi luoghi dalle istituzioni totali, non è, quindi, il tasso di territorialità: quel “possono essere”, di cui sopra va letto infatti come una possibilità che può essere data o meno a seconda di come si pone l’operatore di frontiera, se come un doganiere che non fa passare nulla dell’ “altro da me” o come un soggetto disposto a rischiare sempre l’incontro anche con la psicosi, con il vuoto, con l’angoscia, con la morte, con l’inguaribilità. Per cui il doganiere pavido che è in noi può emergere ovunque, nella struttura intermedia così come nell’ambulatorio dello psicoterapeuta. Ed i discorsi che provengono da questi luoghi, se hanno come retroterra questo tipo di critica all’esistente, propongo di chiamarli “discorsi delle nuove professioni“. Ciò per distinguerli da una parte dal vecchio discorso delle discipline, ma dall’altra parte anche da quello che Foucault chiamava “discorso della sessualità“.
28. Per discorso della sessualità Foucault intendeva una tendenza a spostare la nuova comunità interpretante su di un discorso che è contiguo a quello che ho denominato delle “nuove professioni”, ma che, diversamente da questo, non ha alcun contenuto critico nei confronti dell’esistente, ma anzi risulta funzionale ad esso e portatore di livelli moderni di alienazione e di reificazione. Foucault nel definire questo discorso della sessualità pensa agli stessi soggetti nuovi, alle stesse “nuove professioni” di cui si parlava prima, solo che in questo caso il doganiere pavido che è in noi emerge in maniera subdola ed è al servizio non dell’incontro sulla frontiera con l’altro da me, ma delle nuove esigenze della società tardo-capitalistica. Afferma Foucault che, mentre la vecchia società del capitalismo trionfante aveva bisogno di produrre e riprodurre forza lavoro fungibile, cioè utilizzabile acriticamente nella produzione di merci, la nuova società non vede più escluse dai costumi le classi subalterne, che anzi sono oggi l’oggetto privilegiato sul quale si riversano sempre più le attenzioni delle allettanti sirene che invitano al consumo.
29. Sono state le politiche keynesiane che i vari stati metropolitani hanno messo in atto a partire dalla crisi del ’29 a indurre un rapporto così nuovo di questo immenso “mercato” con i beni di consumo che prima, come si sa, erano appannaggio quasi esclusivo di poche classi sociali. Ma per forgiare un uomo che consumi, oltre che produrre, è necessario che un discorso passi e si diffonda, un discorso che inevitabilmente implica anche un nuovo modo di vedere l’alterità. Ora infatti diverso non è più chi turba (con la sua sola presenza scandalosa, a volte) il clima operoso della produzione, ma colui che non si integra, che non si adatta ad una presenza acritica nel circuito della produzione e del consumo. Ecco la ragione che spinge verso una “politica del corpo”, afferma Foucault, “che non richieda più l’eliminazione del sesso o la sua limitazione ad un ruolo riproduttivo, ma anzi la loro “colonizzazione nei circuiti controllati dell’economia: una desublimazione arcidepressiva, come si dice”. In questa prospettiva la nuova psichiatria, la psicoterapia, la psicoanalisi e quindi le varie tecniche che nascono con le nuove professioni, nonché le stesse istituzioni professionali, rischiano di svolgere un ruolo pedagogico volto ad educare il soggetto a diventare, alienandosi da se stesso, un accumulo di oggetti di consumo che occorre possedere per darsi senso.
30. È questo che Foucault chiama “discorso della sessualità” intendendo con questo termine sottolineare quell’invasione da parte dei nuovi tecnici delle sfere più intime del soggetto per definire un’etica eteronoma, un insieme di precetti, di aspettative, di “visioni di sé”, che secondo lui è inevitabilmente cristallizzato (secondo noi può cristallizzarsi) nei dispositivi della nuova psichiatria, della psicoanalisi, etc. e che è funzionale ad una desublimazione repressiva , e cioè ad una disposizione nuova non più alla sublimazione ed all’etica del lavoro, ma al consumo ed al darsi consistenza solo attraverso gli oggetti che si possiedono. Per cui, concludendo, il territorio e le nuove istituzioni professionali possono essere portatori di un nuovo discorso critico in cui prevale il doganiere coraggioso che osa contaminarsi sulla frontiera con il diverso, il barbaro, il portatore di un nuovo linguaggio, di una nuova storia che lo può arricchire. Oppure possono essere anche le istanze colonizzatrici che lottano anch’esse contro il vecchio discorso delle discipline, ma per sostituire a quel discorso, ormai disfunzionale rispetto alle esigenze “del consumo”, un nuovo discorso colonizzante volto a cucire addosso a tutti, uomini e barbari, uguali e diversi, la camicia di Nesso che il doganiere infido pretende sia indossata da tutti coloro che vogliano abitare la metropoli consumistica.
31. Un ultima nota prima di affrontare la nostra storia più recente.
Sbaglieremmo se pensassimo a questa storia come ad un susseguirsi di discorsi sull’alterità e di cristallizzazioni istituzionali che nello stesso momento in cui si impongono scalzano e demoliscono i vecchi discorsi, le vecchie istituzioni. Semmai ciò che accade è una lotta per l’egemonia, preceduta spesso da una piò o meno contrastata battaglia per la legittimazione.
Ma una volta raggiunto l’uno e l’altro traguardo vi è spesso una convivenza in cui ai discorsi sconfitti vengono lasciate come delle “enclave” in cui possono essere ancora profferiti poiché una qualche udienza, sia pur marginale, continuano ad averla; in cui alle vecchie istituzioni, ai vecchi protocolli, alle vecchie cerimonie un qualche tempio in cui poter essere officiate rimane. Restano così non solo le istituzioni totali, ed anzi sono lungi dall’essere scalzate proprio per la loro pesantezza che le fa diventare il rifugio non ricercato, in cui però involontariamente ogni pigro operatore va a cacciarsi; ma anche le istituzioni promiscue, e spesso sono il luogo in cui opera la carità che indistintamente si dà a chi ha un qualsiasi bisogno. Restano persino, come ha acutamente osservato Ernesto De Martino, i simulacri del discorso religioso medievale, e non solo nell’Europa Mediterranea (quella che Galasso ha definito l’Altra Europa), ma nell’Europa Continentale, in quell’Europa forte e moderna che pure continua ad avere, nei suoi interstizi più remoti, i “sacerdoti” di cerimonie magiche che, pur venendo da lontano continuano ad avere una loro udienza.
 
c) La nostra storia più recente
32. Definite così a grandi linee le nostre origini più remote, veniamo ora alla nostra storia più recente. Nel farlo partiremo dal periodo immediatamente precedente a quello che ha visto emergere le nuove professioni, e segneremo il tempo che da quel periodo arriva fino ad oggi secondo una scansione che prevede cinque tappe, cinque fasi:
1 La prima fase, quella che ho definito del “pre-sessantotto“, che vede ancora egemoni le vecchie professioni, il vecchio discorso delle discipline.
2 La seconda fase, che potremmo definire della “sperimentazione”, che è corrispettiva ai primi anni 70, e che accompagna la nascita di una nuova comunità interpretante basata sulle nuove professioni.
3 La terza fase, che ho denominato del “tecnicismo”, che si sviluppa nella seconda metà degli anni 70 e nella prima metà degli anni 80 e che nasce dalla crisi dello sperimentalismo (e dell’ideologismo) della fase precedente.
4 La quarta fase è quella dell’ “alleanza per..” e nasce da una prima elaborazione in termini di autoconsapevolezza adulta dei limiti e delle possibilità attuali delle nuove professioni. Tale fase è a mio avviso collocabile nella seconda metà degli anni 80.
5. Mi pare infine che nell’ultimissimo periodo si possano sentire i primi sintomi di quella che può diventare una quinta fase, che definirei di involuzione verso un sé avvizzito degli operatori delle nuove professioni, una quinta fase che vedo come un pericolo possibile (e già in atto, a certi livelli).
Ovviamente la periodizzazione risente dell’esperienza reggiana e quindi va tarata in base alle varie microstorie locali di ciascun gruppo di lavoro. Vale però quel che dicevamo prima a proposito della differenza fra stato sociale e stato assistenziale in Italia: cioè si tratta di una storia emiliana, non applicabile, penso, in altri contesti in cui il welfare si è sviluppato sul piano assistenziale e non creando servizi o, al massimo, creando simulacri di servizi.
33. IL PRE 68. In questo periodo è ancora egemone il discorso delle discipline che, nato molto tempo prima dell’epoca che stiamo considerando, si era nel frattempo evoluto complicandosi secondo ramificazioni tendenti sempre più a circoscrivere l’ambito di intervento dei singoli tecnici ed a specializzarlo, anzi direi a cristallizzarlo in procedure e protocolli molto chiari ed ormai accettati da tutti. L’egemonia del discorso delle discipline cioè fino al 68 non è contrastata seriamente da nessuno. Faccio un esempio per farmi comprendere: se in una famiglia nasceva un bambino Down tutti i tecnici coinvolti nella diagnosi e nel definire le procedure di socializzazione e di cura erano concordi sulla opportunità di tali procedure fino al punto da farle apparire ovvie e condivisibili anche alle famiglie. La stessa cosa avveniva nei confronti dei malati di mente, degli anziani etc. Poteva accadere che una qualche famiglia dell’Appennino o delle campagne “nascondesse” il caso fino ad una certa età o fino a un certo punto, oppure anche per sempre, optando per forme di organizzazione del tempo della cura diverse da quelle dominanti. Poteva accadere anche che il caso fosse indirizzato verso una istituzione promiscua, ma nessuno si sarebbe sognato di criticare il discorso egemone, e tantomeno di tentare la pratica di un qualche criterio sperimentale che, in positivo, facesse vedere come tale critica fosse fondata.
34 Le vecchie professioni cioè erano in una fase in cui, da una parte, avevano esaurito le loro potenzialità critiche, dall’altra, non essendo contrastate sul piano teorico e pratico da alcun discorso alternativo, si imponevano semplicemente grazie alla loro stessa pesantezza istituzionale. Tutte le loro manovre, che pure in un periodo precedente avevano avuto una forza dirompente di fronte all’istanza dell’igiene della città ed a quella dell’ecclesia medievale, ormai erano diventate un insieme di meccanismi elusivi volti ad evitare il rischio dell’incontro con le alterità.
Anche la professione dello psicologo in questa fase è funzionale a questo modo di vivere il problema dell’alterità: la psicologia in questa fase si pone in una posizione ancillare (e cioè ausiliaria, subordinata) nei confronti delle professioni più anziane e più autorevoli, e questa tendenza è ancora più accentuata in Italia a causa dell’arretratezza di cui parlavamo all’inizio. Vorrei in ogni caso che fosse chiaro che sto parlando del lavoro degli psicologi negli Ospedali psichiatrici, nei Centri Medici Psico-pedagogici, etc., e non di ciò che avviene a livello della ricerca accademica e non.
35 Lo psicologo, cioè, come tutti gli altri operatori del periodo, rinuncia alle proprie parti più critiche e si pone di fronte al proprio lavoro nella posizione del tecnico che non ha cognizione della cosa, ma che persegue solo fini manipolativi. Cosicché se è in Ospedale Psichiatrico, in contatto con la più autorevole professione dello psichiatra, si porrà più accentuatamente in una posizione ancillare agendo senza alcuna sostanziale autonomia. Se invece opera nei CMPP si disporrà in un’ottica settoriale concorrendo, insieme agli altri tecnici, a definire in quale girone dell’esclusione quel tal soggetto, ridotto a caso, debba essere inviato. In questo senso penso si possa dire che, nonostante la professione dello psicologo fosse una nuova professione, non avendo essa alcuna reale autonomia, alcuno statuto suo proprio che ne definisse i confini e i metodi, finiva con l’apparire già vecchia come certi bambini affetti da anoressia primaria che finiscono con l’assumere la pelle di un vecchio poichè non si nutrono e deperiscono.
36 La diagnosi in questo periodo ha una posizione fondamentale all’interno delle procedure e dei protocolli di queste vecchie professioni: essa è come la coda di Caronte che, in base al numero dei giri, designava il luogo di destinazione dei dannati. Nel nostro caso decideva in quale girone dell’esclusione un caso era destinato ad andare. Il meccanismo di invio nei vari gironi dell’esclusione, inoltre, poteva funzionare, cioè aveva una forza così persuasiva sia per l’aura che i vari tecnici addetti alla selezione avevano per i pazienti e per le loro famiglie , sia spesso per il loro porsi “in batteria”, per cui una cartella di invio era fatta più o meno così: vi erano i risultati dell’esame obiettivo fatto dal medico, un riassunto della situazione familiare fatto dall’assistente sociale, il risultato dei test psicologici compilato dallo psicologo, etc., etc., e la decisione finale per lo più ovvia, presa spesso anonimamente , che inviava alle varie istituzioni totali. In questo modo da una parte la pre-definizione chiara dei luoghi di cura esautorava il tecnico da ogni sforzo critico ed immaginativo di fronte al paziente, dall’altra l’anonimato circa l’atto angosciante della decisione stemperava ogni cosa nella banalità di una pratica burocratica.
37 Abbiamo detto prima della riduzione del soggetto a caso. In effetti tutta la logica dell’istituzione totale è incentrata su questo processo riduttivo ed oggettivante: -nel momento iniziale della diagnosi in cui la stessa frantumazione, la vera e propria polverizzazione del rapporto non permettono anche a chi lo volesse di porsi su di un piano empatetico con il paziente; -ma soprattutto direi attraverso la fissazione di procedure scontate, cioè fin troppo chiare e solari di rapporto nel momento della cura, e di protocolli di cura che fanno dell’istituzione totale un luogo in cui ogni pratica (anche l’elettroshock, la contenzione fisica, etc.) sia stata circonfusa dall’aura scientifica diventa “normale somministrazione”.
38 Questo duplice processo di oggettivazione dei soggetti e di scientificizzazione dei protocolli penso ci permette di comprendere perché a un certo punto non era bastata più l’igiene della città e si era imposto il discorso delle discipline. Infatti se la preoccupazione che sta alla base del discorso dell’igiene della città è quello di una società che ha bisogno di parametrarsi nei confronti dell’alterità solo per garantire l’emergere ed il solidificarsi di quella che oggi chiameremmo “etica del lavoro”, questo non può più bastare quando il metodo galileiano si impone anche nelle scienze umane. Allora sarà necessario ridefinire il tutto in una cornice scientifica tendente ad incasellare i casi, a nobilitare i protocolli, a creare un linguaggio togato molto preciso e diffuso che esautori il tecnico da ogni sforzo reale e personale sul piano interpretativo. In questo senso ancor oggi quando compiamo certi gesti, certe cerimonie di avvicinamento all’altro dovremmo forse chiederci con un accento più critico cosa stiamo realmente facendo.
39.Ma tutto questo apparato difensivo basato sulla oggettivazione e su una sorta di razionalizzazione non sarebbe bastato se non fosse stato accompagnato da una pratica quotidiana basata su quelle procedure alienanti messe in atto in maniera più o meno brutale in tutte le istituzioni totali e analizzate da Goffman. Il fine della riduzione e ,in certi casi della distruzione del vero Sé dell’internato, da parte dello staff, perseguito prima di tutto attraverso le pratiche mortificanti dell’immissione, e che proseguiva poi attraverso la falsa dialettica che si innescava durante la degenza, era destinato infine a perpetuarsi a causa delle stigmate che l’esperienza lasciava addosso all’internato imponendogli un confronto “a vita” con i personaggi violenti che lo avevano segnato. Tutto ciò vedeva i tecnici nella posizione connivente del “niente saccio, niente vidi, niente sentii”, imponendo l’emergere in loro di una vera e propria falsa coscienza.
40. Resta da definire ora quale era la politica delle amministrazioni locali in questo periodo in Emilia e Romagna. Per comprendere cosa accadeva occorre partire dalla constatazione che, almeno fino al boom economico dei primi anni 60, la politica degli Enti Locali di sinistra non può incentrare il proprio operato sulla costruzione dei servizi per almeno due ordini di motivi. Innanzitutto perché all’ordine del giorno la priorità viene data ai problemi dell’occupazione e della ricostruzione. In secondo luogo perché lo stato centrale si oppone a qualsiasi decentramento del potere agli Enti Locali. Ciò determina da una parte il permanere delle istituzioni, anche di quelle che poi diventeranno i luoghi di sperimentazione del welfare emiliano in una situazione di pura e semplice riproduzione della cultura delle classi dominanti: cultura della esclusione, della selezione meritocratica, dell’etnocentrismo, funzionale appunto ai processi di industrializzazione, di migrazione interna, di preparazione all’ingresso in un mondo del lavoro che richiedeva una maggiore qualificazione a tutti i livelli.
41.Dall’altra un fiorire in tutto il territorio regionale di una vera e propria controsocietà, in cui si identificano le masse popolari, che elabora una controcultura che ha propri contenuti (che vanno dalla sperimentazione di modi di produzione e di vita autonomi alla definizione di piattaforme rivendicative dei servizi sociali che saranno decisive nel definire poi la prima fisionomia dei servizi), propri metodi di espressione (attraverso la partecipazione intesa come pratica tesa a costruire l’universo controsocietario), propri luoghi (le case del popolo, le organizzazioni di massa, la stessa vita quotidiana vissuta come testimonianza di un modo di espressione di se stessi altro rispetto ai valori dominanti), propri tempi (soprattutto il tempo libero, la sera, l’estate), propri intellettuali (che sono poi i quadri, nati dalla resistenza o dalle lotte difensive degli anni 50, destinati spesso a diventare gli amministratori di questo periodo , nonché di quello successivo). È in questi luoghi infine che in questi anni si fa “prevenzione”, limitatamente agli attori presenti o influenzati da questa cultura controsocietaria e con tutti i limiti storici che questa esperienza ebbe, soprattutto per quanto attiene a quello che oggi chiameremmo il “privato”, vissuto spesso in maniera schizofrenica rispetto al pubblico.
42.LA SPERIMENTAZIONE. Il 68, parafrasando una celebre definizione, fu il movimento reale che sconvolse, nel bene e nel male, lo stato di cose allora presente. Nacque allora quella nuova comunità interpretante che può essere considerata come figlia del 68 e quel nuovo discorso sull’alterità che abbiamo definito discorso delle nuove professioni. Abbiamo già detto delle ragioni materiali che sono all’origine della crisi del vecchio discorso delle discipline e dell’emergere del nuovo discorso, delle nuove professioni, nonché dei rischi insiti nel nuovo discorso. Certo è che all’inizio quello che si vede è un abbandono improvviso delle vecchie posizioni oppure una strenua e a volte disperata resistenza nelle vecchie casematte, come conseguenza di un attacco a fondo contro di esse da parte di un nuovo gruppo di intellettuali che presto conquistano al loro discorso, confuso, se si vuole, ma più adatto certo alle nuove condizioni sociali ed economiche, oltre che una parte dei vecchi operatori, anche una base consistente di cittadini (comitati di lotta contro il manicomio, contro la scuola di classe, per la nascita degli Asili Nido comunali, etc.) .
43.Il movimento, che presto, proprio per l’adesione ad esso da parte delle amministrazioni locali in Emilia e Romagna, tenderà ad istituzionalizzarsi, si caratterizza per un abbandono dei vecchi luoghi e dei vecchi modi e per un andare appassionatamente e pericolosamente verso la frontiera, verso un incontro con le alterità che non pretende più di inscriverle in una trama interpretativa già tutta predefinita, ma che osa vivere l’incontro come una scommessa in cui l’altro, il forestiero, colui che sta al di là della porta (foris) che definisce il nostro essere più domestico, abbia la possibilità di profferire delle parole autonome con qualcuno che stia in ascolto cercando di con-prendere (inteso proprio in senso letterale).
Le modalità che assume questo viaggio, innescato da questa forza centrifuga, sono spesso quelle di un fulcro che si forma in una qualsiasi parte del vecchio reticolo istituzionale, o in un qualche ganglio del nuovo reticolo che le nuove leggi nel frattempo nate sotto la spinta dei movimenti di base hanno permesso di formarsi. Un fulcro che sconvolge e poi riaggrega altri operatori fino ad allora operanti secondo i principi del vecchio discorso riciclandoli secondo un processo che oggi potremmo definire di “formazione in situazione”. Si formano così le equipe territoriali, i collettivi di lavoro, etc. che potremmo rivedere ora come delle comitive che con mappe molto approssimative si allontanano dai propri territori di appartenenza per intraprendere un viaggio rischioso al di là delle colonne d’Ercole del già definito, del già interpretato, verso quelli che nel nostro caso erano i gironi dell’esclusione.
44. Durante questo viaggio nascono due anime: 1. da una parte lo sperimentalismo di coloro che agivano in base a quella che allora si definiva “logica induttiva”, cioè confidando di trovare ex-post, cioè alla fine del viaggio, contenuti , metodi di lavoro e linguaggi. 2. Dall’altra l’ideologismo che si basava su una visione semplificata e banalizzante delle vecchie strutture e delle vecchie identità professionali e che, di fronte alle difficoltà a con-prendere, pretendeva di condurre tutto a “ciò che il movimento dei lavoratori ha detto in proposito”, o a simili visioni semplificate e dogmatiche, che non permettevano di fatto quella visione ingenua, direi “naif” dei problemi, che era il vero punto di forza degli sperimentalisti.
45. Tali logiche, pur criticabili, soprattutto nella versione ideologista, nei luoghi in cui fu possibile la loro applicazione e la loro istituzionalizzazione ad opera di amministratori locali accorti, innescarono un processo di critica pratica all’esistente che portò prima o poi all’abbattimento dei gironi dell’esclusione, ed alla definizione dei primi nodi di quella complessa rete di servizi territoriali e non, che è quella in cui attualmente operiamo.
46. Questo procedere poi, come dicevamo prima, è un procedere appassionato che ha come caratteristica quella di produrre nei “viandanti” un certo accecamento. Accecamento nei confronti delle alterità che sulla frontiera si ha la ventura di incontrare: nell’incontro cioè l’altro non ha bisogno di avere un nome, una certa patologia, una tale diagnosi. È la crisi della diagnostica che viene apparentata “ipso facto” alla catalogazione ghettizzante in cui la confinava il vecchio discorso delle discipline. Ciò ,a mio avviso, contribuiva spesso in maniera preponderante a determinare la pericolosità di tali incontri, che finivano spesso con l’avere ben poco di professionale.
47. Ma accecamento anche nei confronti dei propri confini professionali per cui, proprio nel mentre nascevano i nuovi mestieri, proprio mentre venivano messe in crisi le vecchie identità professionali , quelle nuove si confondevano in una specie di identità gruppale che era l’equipe, il collettivo, il gruppo di lavoro, che basavano il proprio operare sul principio dell’ interscambio dei ruoli. Questo doppio ed elettivo accecamento era funzionale a dar forza al gruppo che si sentiva come investito di un compito che spesso era vissuto come una vera e propria missione.
48. La figura dello psicologo in questo momento si ridefinisce con tutte le caratteristiche che abbiamo appena detto e con tutti i vantaggi, ma anche gli svantaggi , rispetto ad altre figure professionali, derivanti dal non avere accumulato in precedenza, almeno in Italia, un sufficiente bagaglio di esperienza autonoma che gli permettesse di fare delle separazioni, sia pur dolorose (come per esempio avvenne per la figura dello psichiatra). Vantaggi consistenti in un più coraggioso e deciso impulso verso la sperimentazione, in una più convinta disposizione interdisciplinare, in un fare più “politico”, più consapevole della complessità dei compiti che il territorio imponeva alle nuove équipe (molte sono le cose costruite in quegli anni che hanno avuto, colleghi, la nostra impronta e, se poi andiamo a vedere chi le ha stravolte o cancellate vedrete con sorpresa che non sempre ciò è dovuto ad un nostro pentitismo). Gli svantaggi furono quelli di rischiare come uno smembramento, uno sfarinamento del nostro essere nascente in assenza di un contenitore precedente “forte”: ciò soprattutto in quei servizi, come ad es. i consultori, che non vedevano a fianco allo psicologo altre figure territoriali in grado di codeterminare le scelte e le priorità nuove e che quindi imponevano una responsabilità meno condivisibile con altre professionalità.
49. Da quanto fin qui detto appare chiaro che la modalità difensiva gruppale prevalente in questo periodo è quella che Lai avrebbe chiamato identificazione totale con il paziente, con il lavoro, con l’istituzione in cui si opera.
Identificazione totale che comporta sempre il rischio di essere risucchiati nel gorgo di problemi che il paziente ha, nel gruppo di lavoro che spesso viene vissuto come luogo totalizzante di vita, nell’istituzione che non può essere vissuta come tale poiché troppo vicina allora apparirebbe alle odiate istituzioni totali.
Identificazione totale che, nel caso dello psicologo, lo spinge a sottovalutare i limiti del proprio mandato professionale e i vincoli di natura istituzionale e contrattuale, come avviene per tutte le altre nuove professioni, con la complicazione però derivante dall’assenza di una precedente “tèchne”, cioè di una precedente “arte”, di una precedente tradizione forte cui rifarsi, se non altro per sbaraccarla.
50. Anche l’atteggiamento degli amministratori in questo periodo risente di questo clima di interscambio dei ruoli. Il mandato che essi ambiguamente conferiscono ai nuovi tecnici è spesso di natura più politica che tecnica.
Cosicché sia la prevenzione che la cura si riempiono di contenuti più immediatamente politici. Si lavora “in rete” con il sindacato sulla prevenzione, con i comitati autogestiti sulla cura.
Certo è che fu proprio dal felice connubio fra tecnici che si ponevano come esperti, cioè disposti criticamente e creativamente nei confronti del lavoro e dei problemi, ed amministratori desiderosi di sperimentare nuove vie (quelle fortemente volute nelle lotte degli anni precedenti) che nasce l’officina emiliano-romagnola di quegli anni, che nasce il welfare nella nostra regione.
Centri di libertà e di sperimentazione nascono in questo periodo un pò dovunque nella nostra regione ed è allora che, nel bene e nel male, nasce quell’orgoglio territoriale che ancora ci avvolge e ci condiziona.
Nel bene in quanto lievito dell‘agone costruttivo ed inventivo, nel male in quanto all’origine di quella visione ombelicale di sé che ancora un po’ ci contraddistingue e che spesso non ci fa vedere che nel frattempo gli altri sono andati avanti, che le cose da noi nel frattempo sono cambiate, etc.
51. IL TECNICISMO. A un certo punto però emerge una doppia crisi.
Crisi dello sperimentalismo che nasce dalla necessità di istituzionalizzare i servizi, di definirne meglio i confini, i ruoli, gli scopi, le priorità, i programmi. Crisi di crescita quindi che comporta come ogni momento di passaggio un lutto per l’abbandono di alcuni aspetti delle pratiche precedenti che da alcuni viene vissuto come tradimento, da altri -in maniera speculare- come un invito alla distruzione di tutto quel che fino ad allora si era costruito.
Ma crisi anche, e ancor più grave (e salutare, in questo caso), dell’ideologismo: infatti ad un certo punto non basta più una critica “destruens” che definisca l’insieme delle cose da non fare, ma il reinserimento nella comunità del malato di mente, dell’handicappato, etc. implica l’acquisizione di nuove competenze, che vengono dall’esperienza indiretta (fatta in luoghi in cui il welfare era partito prima) oppure che richiedono un ulteriore sforzo immaginativo.
Penso che il passaggio dalla “socializzazione” alla “integrazione” del bambino in difficoltà a scuola possa esser preso come emblema del cambiamento culturale che la nuova epoca impone.
52. A partire da questa doppia crisi nasce una reazione. E se una parte, minoritaria, degli operatori rimane nostalgicamente legata alle vecchie lealtà considerando con sospetto ogni cambiamento, la parte più consistente di essi prende atto realisticamente delle nuove e più articolate esigenze e cerca di rispondervi per tutto un periodo attraverso uno stile di lavoro che possiamo definire, appunto, di tipo tecnicista.
Con il termine “tecnicismo” si intende qui denotare uno stile di lavoro inteso come una spinta alla accumulazione di tecniche di intervento sul paziente. Spinta che ben presto si connota come spinta ansiosa, di tipo bulimico, che abbisogna di un “frigo” sempre pieno di tecniche a disposizione, che però nella misura in cui sono ingurgitate non sono assimilate, ma spesso rigurgitate, per esser sostituite da nuove tecniche, che altrettanto compulsivamente sono divorate, in un susseguirsi di agiti sempre più ansiosi.
53. La base materiale da cui trae origine questa doppia crisi per un verso, come abbiamo visto, è legata alle esigenze stesse della crescita dei servizi pubblici.
Per un altro verso però vi è una ragione altrettanto materiale che aiuta a comprendere quel che accade. Una ragione che è nelle trasformazioni stesse che avvengono nel frattempo a livello economico e sociale.
Infatti quella controsocietà che negli anni dell’immediato dopoguerra aveva immaginato e fortemente voluto i servizi decentrati e che poi era confluita nei comitati di quartiere, negli organi gestionali che avevano sorvegliato sulla natura e sui fini dei servizi nel periodo della sperimentazione, ora non esiste più.
Nel frattempo la struttura produttiva emiliana diventa sempre più industrializzata, la cooperazione si sviluppa fino ad assumere caratteristiche industriali e finanziarie di tutto riguardo, e la società tutta tende sempre più a diventare una società opulenta.
Le basi del consenso sociale così si trasformano e la partecipazione diventa un’altra cosa anche rispetto al momento della sperimentazione. Diventa cioè una potente e ramificata struttura di organizzazione del consenso su basi eteronome.
54. Ciò che si imponeva quindi era un’opera di bonifica che permettesse ai servizi di istituzionalizzarsi nel senso più burocratico chiudendo con lo sperimentalismo e puntando sulla estensione dei servizi, sulla loro efficienza, sulla loro funzione di impliciti erogatori di un salario indiretto che andava diventando ormai un elemento importantissimo del nuovo modello emiliano, visto anche il passaggio sempre più marcato in tutte le classi sociali dalla famiglia unita alla famiglia nucleare, dove ad esempio il tempo di cura o era predisposto dall’ente locale o ricadeva pesantemente su uno dei coniugi, e segnatamente sulla donna. Era chiaro che in una situazione simile i vecchi amministratori, con il loro fervore sperimentalista, diventavano un ostacolo alla trasformazione dei servizi in luoghi efficienti, in servizi bonificati in cui la “cultura amministrata” tendeva sempre più a soppiantare la cultura vista come esercizio critico. Per cui furono più o meno lentamente sostituiti da una nuova generazione di amministratori.
55. La dialettica fra esperti ed amministratori accorti così, per ragioni che sono e nella storia degli uni, e in quella degli altri, cessa di esistere. Ad essa si sostituisce una nuova dialettica fra tecnici che hanno rinunciato al loro essere più globale, oppure fra nuovi tecnici che sono già selezionati in base a questa loro caratteristica, ed amministratori con vocazioni normalizzatrici. Una nuova dialettica che ,come abbiamo visto non è quindi legata a tradimenti di sorta, ma che è strettamente intrecciata da una parte alla storia interna delle singole professioni e soprattutto ,come vedremo fra un poco, delle nuove professioni, dall’altra alle esigenze produttive e sociali della regione. Queste quindi sono le basi materiali sulle quali nasce fra gli operatori la spinta tecnicista e fra gli amministratori la svolta normalizzatrice.
56 .La figura dello psicologo in questo periodo, proprio per la fragilità dovuta all’assenza di una tradizione cui parametrarsi, di un'”arte” cui rifarsi, è fra i più esposti al rischio di un cambiamento adialettico rispetto al passato. È questo il periodo in cui un po’ tutti, buttata alla ortiche la prevenzione, ci siamo messi e cercare scuole cui iscriverci, punti di riferimento cui far capo , nella illusione che un pieno di tecniche potesse essere la soluzione dei nostri problemi di identità. Tutto questo apparato “tecnologico” poi, nonostante la estrema diversità ed, a volte, esotericità di luoghi formativi, si può riassumere in un solo verbo: “intervenire sul”, dove il termine “intervento sul” sta a significare molte cose. “Intervento sul” come nuova esigenza di allontanamento dalla frontiera, allontanamento dal paziente, non più relegato nei gironi dell’esclusione, ma più semplicemente allontanato da sé. “Intervento sul” come riduzione del diverso alle proprie tecniche, come riconduzione dell’altro a sé. Ciò fa emergere un narcisismo dello psicologo: l’altro esiste solo se mi conferma nella mia presunzione narcisistica.
57. La tecnica così diventa lo specchio delle brame del tecnico, psicologo o altro che sia. C’è sempre una tecnica più bella e più nuova infatti nel reame del tecnicista e le identità professionali corrispettive a questo periodo crescono in una atmosfera di falsa sicurezza data dall’accumulo di tecniche. Falsa sicurezza che va in frantumi non appena emerge una tecnica che io non ho. È questo l’atteggiamento che prima ho definito come bulimico e che forse, un po’ come la bulimia, può esser visto come un tentativo, soprattutto nel caso dello psicologo, di aderire in maniera ansiosa a profili adulti, mentre si è nell’adolescenza della propria professione.
58. La diagnosi in questo periodo ritorna in auge a fini non più di esclusione, cioè di invio nei gironi dell’esclusione, ma di misurazione, di incasellamento, sia in termini numerici, ma anche per “mettere a posto” l’altro rispetto a se stessi. Standardizzazioni quali quelle che sono permesse dal DSM e dalla testistica sono rassicuranti perché definiscono una specie di “esperanto” che dà oltretutto la sensazione di appartenenza ad una amplissima comunità interpretante, ad una “smorfia” internazionale dei segni.
59. L’atmosfera prevalente è quella della manipolazione , che non è più la pesante manipolazione che decideva dei destini del soggetto, ridotto a caso, da inserire nei vari gironi dell’esclusione, ma quella che può provenire da un singolo e marginale elemento di una fittissima rete che però è essa stessa un elemento di sub-sistema di un complesso ben più vasto. La manipolazione cioè diviene una delle tante microazioni quotidiane che danno un senso ,una consistenza alienata, poiché eteronoma al vivere quotidiano del paziente.
60. ”L’ALLEANZA PER…”. Ben presto , però, l’accumulazione acritica di tecniche mostra la corda. Ci si accorge che la rincorsa ansiosa e la tesaurizzazione di ogni tecnica che ci capiti a tiro, lungi dal farci sentire più sereni e più “vigorosi”, ci lasciano insoddisfatti e vuoti. Alla domanda, poi, rivolta allo specchio tecnicista: “Specchio, specchio delle mie brame, qual è la tecnica più bella del reame?” lo specchio inevitabilmente risponde facendoci notare che c’è un’altra tecnica, che noi non abbiamo, più bella di quelle che noi già possediamo. La maggior parte di noi allora si rassegna a ridimensionarsi ed a coltivare con maggiore cura quella che sembra essere la tecnica che più si avvicina al proprio modo di essere e di sentire.
61. Inizia così un penoso processo di riavvicinamento alla frontiera basato però non più sulla identificazione totale, sull’interscambio dei ruoli in base al quale tutti incontrano tutti, ma sulla identificazione operativa: è questa “l’alleanza per..”, “l’incontro per..”, e cioè quel tipo di incontro che si definisce fra due soggetti, non ridotti l’uno ad “attore secondo copione” e l’altro a “critico secondo tradizione” -direbbe Napolitani-, ma ricchi entrambi della loro specifica umanità che si incontrano per definire insieme un percorso che ha come unici limiti quelli professionali ed umani di entrambi i soggetti sulla scena.
62. In base alla identificazione operativa occorre definire fuori di sé dei luoghi fisici e dentro di sé dei luoghi psicologici di “incontro per”. Così da una parte l’ambulatorio si pone come luogo fisico delimitato, che va preservato il più possibile dalle ingerenze istituzionali e che va personalizzato in quanto strumento individuale a bassa tecnologia certo, come dicono i bocconiani, ma non per questo meno prezioso (si vedano in proposito le bellissime pagine di Lucio Sarno sulla definizione non ostensiva di questo luogo interno ed esterno). Dall’altra la supervisione diventa il luogo, altrettanto disadorno, in cui si impara a stare ed a rimanere sulla frontiera, ad essere dei veri e propri uomini di frontiera, degli uomini borderline. Senza rimanere schiacciati dall’altro, ma ponendo fra noi e lui il minimo di condizionamenti istituzionali, il minimo di manovre tecniche.
63. P.F. Galli ha paragonato il lavoro di questo tipo e l’uso delle tecniche che è in esso implicito ad una sorta di analfabetismo di ritorno, nel senso che l’operatore deve aver così ben introiettato le tecniche da non accorgersi di usarle. Deve averle cioè digerite, assimilate, fatte proprie. Come è possibile vedere vi è in questa maniera di crescere un salto di qualità enorme rispetto al modello precedente e soprattutto un modo di affrontare il tempo della crescita che dovrebbe impedire le abbuffate e le crisi di rigetto del periodo precedente. E così mi pare che le cose siano generalmente andate, almeno qui da noi, in Emilia e Romagna.
64. Ed anche in questo periodo la posizione dello psicologo dei servizi pubblici si caratterizza per le sue caratteristiche di tipicità, si definisce cioè in maniera più netta e conseguente, rispetto alle altre professioni del welfare. Ancora una volta sono i nostri specifici punti di partenza che giocano un ruolo decisivo: infatti se noi prendiamo il nostro iter formativo, così come esso è definito nelle sedi universitarie e lo paragoniamo, ad es., a quello dello psichiatra o, in maniera ancora più evidente, a quello del neuropsichiatra infantile, vediamo come vi sia nel loro caso una pretesa di onniscienza (rispetto anche alla psicoterapia), che nel nostro caso non vi è. Ciò una volta tanto rende molto meno penoso il nostro processo di ridimensionamento, mentre appesantisce ed a volte impedisce l’autocritica (che, come abbiamo visto, la stessa prassi impone) a psichiatri e NPI. L’inchiesta fatta in sede regionale ha evidenziato quant’è grande la domanda di supervisione fra gli psicologi. Penso che la stessa cosa andrebbe fatta per gli psichiatri e i NPI, e son sicuro che soprattutto in certe zone ed a certi livelli di età i risultati potrebbero dar adito a molte considerazioni critiche.
65. Ma se confortati da questa profonda ondata autocritica, che ha inciso nella prassi di noi tutti, fossimo portati a pensare che ciò sia sufficiente, una volta per tutte a delimitare i confini della nostra professione, ci sbaglieremmo. Nel frattempo infatti quegli elementi di trasformazione materiale della società che erano stati all’origine dei vari cambiamenti avvenuti nella società emiliano-romagnola si sono ulteriormente modificati. La terziarizzazione, che si affianca alla industrializzazione, e tutti i fenomeni di modernizzazione sempre più presenti nella nostra regione contribuiscono nel definire la nostra società come società opulenta che attrae manodopera dalle zone di sottosviluppo (dapprima la montagna, poi il meridione, infine il terzo mondo).
66. Nella società multietnica però le istanze del potere locale e, prima di loro le istanze politiche, stentano a darsi una cultura che sia capace di rapportarsi con i nuovi arrivati considerando questi ultimi come portatori di culture altre con le quali occorre fare i conti. Si definiscono così due culture. La prima che è quella che ci è più domestica ci pone i problemi che siamo ormai attrezzati ad affrontare senza iattanza e con spirito critico. La seconda che non partecipa al banchetto che sulla ricca tavola imbandita si consuma, ma che, diversamente da quanto facevano gli operai e i contadini emiliani degli anni 50 non è in grado di imbandirne una propria, ma anzi è qui perché attratta dai bagliori e dagli odori che vengono dalla prima.
67. Ebbene a mio avviso ciò che sta avvenendo è un processo di definizione dei servizi che non tien conto di questa novità e che di fatto continua a funzionare per la prima società e delega all’assistenzialismo privato la cura della seconda. Faccio un esempio per farmi comprendere: come psicologo che si interessa dei problemi degli apprendimenti io sono preparato ad affrontare i problemi dei bambini che non vanno bene a scuola, sia dal punto di vista cognitivo che affettivo. Ho definito, in maniera personale (e non più in termini di fotocopia dall’ultimo corso di aggiornamento che ho fatto) dei setting ramificati che mi permettono di affrontare in maniera adeguata (si spera) questi problemi.
Ma poi, se sono onesto con me stesso, devo riconoscere che ormai i casi che mi sono segnalati sono in buona percentuale casi di bambini immigrati che, dopo un altro attimo di ripensamento critico, mi accorgo che rappresentano un problema, a causa della loro alterità, non solo per me, ma prima di tutto per gli insegnanti che me li hanno segnalati, per i vicini, per il sindaco che non sa dove metterli, per l’assistente sociale del quartiere, etc., etc.
68. Allora il mio essere esperto, che vuole avere cognizione della cosa, e non tecnico esecutore, mi spinge ad agire di conseguenza. Ma, mi chiedo, dove trovo gli interlocutori che mi permettano di innestare un altro processo di sperimentazione rivolto a queste nuove entità, a queste nuove ed inquietanti alterità? La tentazione di dare una risposta scissionale, del tipo: sono gli amministratori che sono insensibili, incapaci, c’è ed è fondata sul processo di selezione e di trasformazione di questa figura nell’ultimo decennio. Ma l’invito di Adorno era anche quello di considerarsi sempre come parte importante in causa. Ed allora la domanda da farsi dovrebbe diventare: cosa posso fare io qui, ora, con questi amministratori, in questa società così dilacerata?
69. La risposta è per esempio in certi nodi che si vanno sciogliendo per essere riannodati in maniera diversa senza che noi diciamo “bau”. Il decentramento, ad esempio, in certi ambiti di lavoro, è fondamentale per impostare il lavoro in rete, e per imbastire una rete di reti che metta in connessione vari servizi e vari enti. Come mai nessuno va dicendo niente su quel vero e proprio delitto alle città che è la chiusura dei distretti assistenziali? Come mai non vi è un ragionamento serio sul modo di rapportarsi delle nostre istanze sanitarie con tali distretti, la scuola, il comune, il volontariato, etc.? Come mai ,in generale, la disposizione alla poliprofessionalità – che pure è uno dei frutti più interessanti della nostra storia più recente – cessa di esistere quando si tratta di mettere intorno ad un tavolo più professionisti per inventare, progettare, etc. rispetto a questi problemi?
70. Se non affrontiamo in termini complessivi, con il nostro essere più complessivo, problemi come questi il rischio è quello di definirsi come tecnici competenti e critici, ma della prima società, della prima cultura, finendo col far parte di un apparato istituzionale che non è utilizzabile proprio da coloro per i quali siamo nati. Cosicché, ritornando all’esempio della scuola, di fatto ,se rinuncio a pormi in termini critici e creativi nei confronti del meridionale e del terzomondiale per definire nuovi setting adatti a loro, io divento solo quello che è attento a che la riproduzione di una parte della forza-lavoro, quella più qualificata, avvenga senza eccessivi traumi. E l’altra parte che fine fa? E non è vero che gli amministratori sono sordi a questi problemi poiché è l’ urgenza stessa con cui si presentano che li impone all’attenzione di tutti.
71. Mi diceva una collega pedagogista che gira il mondo che in Svezia le educatrici di scuola materna sono le figlie degli immigrati di vent’anni fa. Se non altro una considerazione di questo genere dovrebbe servirci per tentare di programmare in termini più attenti il destino dei futuri educatori, infermieri, operai, etc.
72. Infine le più recenti posizioni che si intravedono nel campo della “politica” (attacco alla 180, riduzione dell’impegno dello Stato sugli handicappati e sugli svantaggiati, attacco alle condizioni materiali di vita degli anziani, dei lavoratori, con la creazione di fasce di nuova povertà, la vera e propria controriforma sanitaria e tutti gli altri “regali” che il governo va facendo ai lavoratori in questi mesi) non possono lasciarci insensibili, ma devono ancor di più spingerci a chiederci cosa stiamo facendo ed che senso ha il nostro fare.
73. I RISCHI DI UNA INVOLUZIONE. I rischi di una involuzione quindi sono già qui e non tanto nella accentuazione di taluni tratti corporativi che invece può essere salutare in una fase in cui la controparte sindacale (sempre gli amministratori) è sensibile solo ai singoli che parlano un discorso chiaro e forte. Semmai sul piano sindacale sarebbe un bene se finalmente si imponesse un obiettivo formativo autonomo (senza pietire denaro a nessuno, ma finanziando le esperienze con denaro liberamente fornito dai discenti) con la definizione di sedi formative decentrate -per esempio a livello regionale- che si interessassero ad una formazione degli psicologi fatta non sul modello privato, ma su un modello pubblico, con esperti -psicologi e non- qualificati per i colleghi delle nuove generazioni. Sarebbe un bene se in sede provinciale diventasse usanza delle nostre associazioni affrontare i problemi culturali e scientifici in maniera sistematica.
74. Un ultimo punto sulla diagnosi e sulla prevenzione. La diagnosi in quest’ultimo periodo è più diffusa fra i vari operatori e soprattutto funzionale all’incontro per”, cioè dinamica, non statica; prevale la longitudinalità. Ciò sta provocando una crisi del ruolo medico che ormai apertamente attacca la diffusione della diagnosi e soprattutto tenta di ricondurre la diagnosi all’interno di una logica statica, orizzontale, “una tantum”, slegata cioè dalla terapia, tentando una ridefinizione incasellante del paziente, che poi è funzionale al tipo di formazione che il medico ha ricevuto. Il medico infatti è il tecnico per eccellenza, abituato com’è dal suo stesso tipo di studi a non considerare la globalità dell’individuo che ha di fronte, ma una sua parte di cui con molta competenza, ma con un fare parcellizzante ed oggettivante, si prende cura. Il suo è un sapere essenzialmente diagnostico, il nostro dialogico.
75. Non basta quindi reclamare la nostra competenza sulla diagnosi, ma occorre anche ridefinirla secondo dei criteri che sono nostri, tipici della nostra professione e cioè legati alla longitudinalità ed alla psicoterapia, alla cura, alla prevenzione, poiché altrimenti anche noi ci porremmo in una logica medica che ci condurrebbe nel vicolo cieco di una professione-fotocopia, di una professione ricalcata sul ruolo medico e perciò destinata a ritornare in una posizione ancillare rispetto ad esso ed ad abbandonare quanto di più peculiare c’è nella nostra giovane, ma ormai adulta professione.
 
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