Premessa:
Il Surgeon General (Chirurgo Generale), il “medico della Nazione”, è l’autorità sanitaria del Governo Federale istituita nel 1871; il Presidente USA ne nomina i vertici al suo insediamento. Dal 1953 il Surgeon General fa parte del Department of Health and Human Sciences. Il Surgeon General degli Stati Uniti è alla guida del Servizio per la Salute Pubblica (U.S. Public Health Service Commissioned Corps) ed ha il mandato di proteggere, promuovere, far progredire la salute e la sicurezza della Nazione attraverso azioni quali:
· raggiungere i cittadini dove vivono e lavorano con l’informazione scientifica più aggiornata disponibile
· sollecitare Governo, Economia, Legislazione e le risorse della comunità ad affrontare problemi di salute pubblica
· elevare la consapevolezza che le minacce alla salute possono portare alla rapidità di risposta e alla resilienza delle comunità militari delle Forze Armate
· stimolare iniziative in tutta la Nazione mettendo a punto programmi di promozione della salute pubblica e di prevenzione delle malattie quali dipendenze patologiche, cancro della pelle, importanza dell’attività fisica e motoria, corretta alimentazione, violenza, suicidi
· sviluppare strategie per il progresso della scienza della salute pubblica
· fornire quadri dirigenti alla Salute Pubblica.
Quello del Surgeon General è un servizio in divisa; il Surgeon General ha il grado di vice – ammiraglio. La rivista ufficiale, Public Health Report (PHR), è edita dal 1878.
Nel 1999, con il presidente Bill Clinton al suo secondo mandato, il Surgeon General David Satcher presentò un rapporto nel quale, per la prima volta nella storia dell’Ufficio, una struttura federale, si riconosceva la gravità delle disparità circa l’uso, la disponibilità, l’accesso, la qualità dei servizi per la salute mentale, la fiducia negli stessi da parte di singoli e comunità. Da tale denuncia nacque il Supplemento Mental Health: Culture, Race and ethnicity. A supplement to Mental Health: a Report of the Surgeon General, pubblicato nel 2001.
Il capitolo 3, dedicato all’assistenza psichiatrica per gli Afro Americani, si apre con l’affermazione che il peso della schiavitù e delle discriminazioni razziali continua a gravare sulla condizione economica e sociale degli Afro Americani. È in tale contesto storico che vanno considerate le questioni relative alla salute mentale di una popolazione di 34 milioni di persone, il 12% della popolazione dell’Unione (dati Censimento 2001), nella quale è stata la forza dei legami sociali a consentire di far fronte alle avversità e superarle, mantenendo alto il livello della salute mentale. Va però detto che tale dato non può essere assunto in assoluto perché non tiene conto della salute mentale degli Afroamericani per gran parte maschi sovra rappresentati fra senza casa e detenuti. Va aggiunto che nella seconda metà del 20° secolo ai discendenti degli schivi si sono andati aggiungendo rifugiati Afroamericani provenienti dai Caraibi e dall’Africa, 100.000 dal 1983: alla data della rilevazione il 6% degli afroamericani residenti era nato fuori degli USA.
In premessa è condotta poi un’attenta ricostruzione della vicende storiche attraversate negli Stati Uniti dalle Comunità Nere per gran parte costituite da discendenti di schiavi, la cui tratta durò circa due secoli; lo schiavismo proseguì negli Stati del Sud fino all’Emancipazione (1863) e l’approvazione del 13° Emendamento alla Costituzione nel 1865; il 14° Emendamento (1868) estese la cittadinanza americana a tutti gli Afroamericani e vietò agli Stati di privarli dei diritti civili; il 15° Emendamento (1870) vietò la privazione dei diritti politici sulla base di motivazioni razziali. Dopo la guerra civile negli Stati del Sud prevalsero la segregazione (leggi Jim Crow o “codici neri”) e la prescrizione della separazione fra Bianchi e Neri nei luoghi pubblici. Il Sud rimase agricolo con gran parte degli abitanti povera, specie gli Afroamericani, sottopagati, senza scuola, in una condizione di sottomissione: nel 1910 l’89% degli Afroamericani viveva in grande povertà. Negli anni successivi la situazione si sbloccò: la meccanizzazione dell’agricoltura liberò manodopera che fu richiesta dalle industrie degli Stati del Nord e gli Afroamericani si spostano nelle città industriali del Nord. Dopo la Seconda Guerra Mondiale il flusso migratorio si spostò verso la California. Il regime di segregazione continuò fino agli anni ’50 del XX° secolo.
Dopo la Sentenza della Suprema Corte che dichiarava incostituzionale l’apartheid nelle scuole (1954) si alzò la protesta; nel 1964 a Martin Luther King fu conferito il premio Nobel per la pace. Nello stesso anno il Civil Rights Act fece divieto della segregazione nei luoghi pubblici e della discriminazione nelle scuole e nel lavoro a sfavore degli Afroamericani. L’anno successivo, il 1965, il Voting Rights Act sospese l’uso dei test praticati per accedere al voto.
La storia delle esperienze degli Afroamericani è piena di vicende di sottomissione e confinamento, ma anche di straordinarie risposte individuali e collettive che hanno consentito di sopravvivere, vivere e fare bene a fronte di pesantissime discriminazioni. Questo è stato possibile grazie al mutuo sostegno, alla messa in comune delle risorse, dando vita a credenze, tradizioni, pratiche adattive. Quasi l’85% si definisce abbastanza o molto religioso e la preghiera costituisce un conforto fra i più comuni. Altre strategie sono l’affrontare i problemi, collaborare nell’aiuto in famiglia, fra amici, nel vicinato, nella comunità. Si tratta del derivato di esperienze secolari di cooperazione, spesso per la sopravvivenza.
Gli Afroamericani hanno sviluppato anche la capacità di ignorare gli stereotipi negativi circa i loro comportamenti e per tale ragione la loro gran parte non soffre di perdita di autostima. Sentono di avere un’identità collettiva che sostiene di reggere nelle avversità e mantenere una buona salute mentale.
Negli anni della stesura del rapporto, il 53% degli Afroamericani viveva nel Sud, il 37% nel Nord e nel Midwest, per lo più nelle aree metropolitane; il 10% nel West; il 15% nelle aree rurali ( a fronte del 23% dei bianchi). Molti continuano a vivere nelle periferie, in aree segregate, i poveri con i poveri: di qui la presenza di quartieri degradati, con molti disoccupati, abuso di sostanze.
Nel 2000 le famiglie Afroamericane erano in numero di 9 milioni, il 65% delle quali composte da 3 o più membri, una quota maggiore rispetto a quelle dei Bianchi (54%), ma inferiore a quella di molte altre minoranze (76%). Molti bambini, tuttavia, vivono in una famiglia con un solo genitore, di solito la madre; solo il 38% vive in famiglie con i due genitori compresenti.
Quanto alla scolarizzazione, nella seconda metà del XX° secolo si è evidenziata una forte tendenza alla sua crescita: intorno al 1997 si è quasi saldato il gap fra Bianchi e Afroamericani. Nel 2000 il 79% degli Afroamericani risultava in possesso di almeno un diploma scolastico, il 17% di un baccalaureato a fronte rispettivamente dell’84% e del 26% della popolazione generale.
Gli Afroamericani sono relativamente più poveri: nel 1999 circa il 22% delle famiglie viveva sotto la soglia di povertà (10% nella popolazione generale). Il tasso è andato riducendosi.
I tassi di mortalità sono più alti rispetto a quelli dei Bianchi: tre volte di più i malati di diabete, il 40% di più per le cardiopatie; 7 volte HIV; doppia la mortalità infantile. Importanti sono le differenze nell’accesso a servizi sanitari adeguati.
La salute mentale è strettamente collegata al reddito, allo status sociale (in particolare condizione di senza casa, carcere – quasi la metà dei detenuti nelle prigioni federali e locali sono Afroamericani-, disagio infantile.- i minori Afroamericani costituiscono il 45% di tutti quelli in affido perché sospettati di abusi o abbandono), alle dipendenze da abuso di sostanze, alle discriminazioni razziali e ai trattamenti ostili. Elevati l’esposizione alle violenze e lo sviluppo di PTSD: significativo il dato del 21% fra i Veterani Afroamericani della guerra del Vietnam colpiti dal disturbo ( gli Afroamericani costituirono il 10% del contingente).
In generale, il rapporto rileva che comunque i dati disponibili non erano del tutto attendibili perché ricavati da indagini che non avevano tenuto conto della composizione della popolazione carceraria e di quella internata in istituti.
Oltre al livello delle assicurazioni, è importante il luogo della residenza: una grande parte degli Afroamericani vive nelle aree rurali del Sud dove operano pochi gli specialisti che sono per gran parte concentrati nelle città. Un altro ostacolo al successo nella ricerca di aiuto e cure è costituito dal fatto che gli Afroamericani caricano le malattie mentali di un forte stigma. Una grande risorsa sta invece nella dimensione della spiritualità.
Conclusioni
Gli Afroamericani hanno fatto grandi passi in avanti nella scolarità, nel reddito e in altri indicatori di benessere sociale. il loro avanzamento nella scala sociale è notevole, a documento della resilienza e delle tradizionali capacità di adattamento e risposta delle comunità AfroAmericane a schiavismo, razzismo e discriminazione. Contributi sono venuti anche dalle comunità di immigrati africani, caraibici e di altra provenienza ancora. Ciò nonostante restano rilevanti problemi:
1) Gli Afroamericani che vivono in comunità sembrano evidenziare indici generali di sintomi di disturbi e malattie mentali simili a quelli dei Bianchi, ma con qualche eccezione. Il più importante studio epidemiologico ha riscontrato che le percentuali di disturbi erano simili fra Bianchi e Neri, ma solo dopo aver annullato le differenze di scolarità, reddito, stato di famiglia. Ancora, il modo con cui i disturbi si distribuiscono può essere diverso da gruppo a gruppo, con gli Afro americani che presentano una maggiore quantità di alcuni disturbi mentali e minore di altri.
2) La salute mentale degli Afro americani non può essere valutata senza prendere in considerazione i molti di loro che sono parte di gruppi di popolazione in gravi condizioni di deprivazione e con grandi bisogni. In proporzione gli Afroamericani sono tre volte e mezzo più dei Bianchi fra i senza casa, ma nessuno di questi è stato incluso negli studi di comunità. I problemi di salute mentale di persone con grandi bisogni sono particolarmente associati all’abuso di sostanze, così come a infezione da HIV o AIDS. Accertamento, trattamento e riabilitazione costituiscono una sfida particolarmente rilevante in presenza di ostacoli multipli e significativi al benessere.
3) Gli Afroamericani con disturbi o malattie mentali possono presentare sintomatologie correlate alle proprie culture; il modo con cui i sintomi si presentano può differire da quello che la gran parte dei clinici è preparata a ricercare e cogliere e questo può portare a errori diagnostici e problemi nella programmazione dei trattamenti. L’impatto delle culture sui modi singolari, idiomatici di esprimere la sofferenza richiede maggiore attenzione da parte dei ricercatori.
4) Gli Afroamericani possono avere maggiore probabilità di usare terapie alternative, anche se le differenze non sono state ben accertate. Quando si usano terapie complementari, può essere che la cosa non è comunicata al clinico. In tale caso la non conoscenza della questione da parte del medico può comportare problemi nell’erogazione di un trattamento appropriato.
5) La disparità degli accessi ai servizi di salute mentale è in parte attribuibile alle barriere economiche. Molti lavoratori a basso reddito, fra i quali gli Afroamericani sono sovra rappresentati, non hanno i requisiti né per l’assistenza pubblica né per la copertura assicurativa privata. Un miglior accesso all’assicurazione privata costituirebbe un positivo passo in avanti, ma non sarebbe sufficiente a garantire adeguata assistenza agli Afroamericani.
6) Le disparità negli accessi dipendono anche da altri fattori, oltre a quelli di natura finanziaria. Vi sono troppo pochi Afroamericani specialisti nel campo della salute mentale a disposizione di quelli che preferirebbero uno specialista Afroamericano. Inoltre gli Afroamericani sono sovra rappresentati in aree dove pochi erogatori scelgono di operare. Sentimenti di sfiducia, stigma o di essere oggetto di razzismo e discriminazione possono tenerli lontani.
7) È improbabile che Afroamericani con problemi di salute mentale ricevano trattamenti adeguati; quando trattati, è probabile che li abbiano ricevuti nel circuito delle cure primarie. Quelli che ricevono cure specialistiche tendono ad abbandonare prematuramente i trattamenti. L’assistenza psichiatrica è erogata con relativa frequenza nei servizi di emergenza e negli ospedali psichiatrici, contesti e modelli di trattamento che non sono in grado di garantire assistenza psichiatrica di buona qualità.
8) Gli Afroamericani corrono molto più dei bianchi il rischio di diagnosi errate: in gran numero sono le diagnosi di schizofrenia e molto meno quelle di disturbi affettivi, un fatto di lunga data di cui non è ancora possibile dare piena spiegazione.
9) È ancora oggetto di indagine se Afroamericani e Bianchi ricevano uguali benefici dai trattamenti offerti nel campo della salute mentale. I limitati dati disponibili indicano che gli Afroamericani rispondono positivamente nella maggior parte dei casi, ma sono pochi gli studi che hanno preso in considerazione le risposte degli Afroamericani nei trattamenti basati sull’evidenza. Scarse anche le ricerche sull’impatto dell’assistenza nella medicina di comunità. Molto resta da imparare circa il quando e il come si debbano impostare trattamenti che tengano conto dei bisogni e delle preferenze degli Afroamericani.
Tradizioni di capacità di adattamento hanno consentito agli Afroamericani di reggere a lunghi periodi di avversità e deprivazioni imposte dalla società nordamericana: la loro resilienza è una risorsa importante. Per riuscire a ridurre le malattie mentali e migliorare la salute mentale degli Afroamericani si devono coinvolgere le loro comunità, sostenere le loro tradizioni, e ottenere la loro fiducia. Reciproci benefici ricaveranno sia gli Afroamericani che l’intera società da uno sforzo comune per rispondere ai bisogni di salute mentale degli Afroamericani.
A cura di Luigi Benevelli
Liberamente tradotto da Luigi Benevelli
Mantova, 1 maggio 2021
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