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Psicologia, politica e indisponibilità della ragione

18 Lug 21

A cura di luigidelia

Cosa ha da perdere un governo se la psicologia del proprio paese è particolarmente debole e poco autorevole?
 
La crisi della democrazia a cui assistiamo in tempo di pandemie e di catastrofi climatiche assume un surplus di criticità laddove trova corrispondenza nella crisi della fiducia pubblica nella ragione e in chi dovrebbe rappresentarla: mi riferisco ai comitati di esperti al servizio dei vari governi locali e nazionali. La democraticità di questa nostra epoca vorrebbe (solo in teoria) che anche qui avvenisse un processo di delega e rappresentanza nei confronti di chi per mestiere è diventato esperto nel settore di cui proprio abbiamo bisogno. E in un’epoca di ultraspecializzazione dei saperi potersi affidare all’autorevolezza di chi ne sa mille volte più di noi su un dato aspetto, divenuto saliente, della vita, è diventato una specie di lusso per pochi resistenti democratici fiduciosi.
 
L’esperienza di doversi, giocoforza, affidare nelle mani di chi può intervenire nella nostra vita, magari anche salvandola, è molto più comune di quanto non si creda: quanti di noi sono stati in un pronto soccorso o in un reparto ospedaliero potendo ricevere cure decisive e risolutive, a volte salvifiche, non potendo aprire bocca e obiettare su nulla, ma abbandonandosi all’autorevolezza del medico di turno?
Nello stesso identico modo, siamo tutti costretti a fidarci dell'esperto scienziato che, con fatica personale e magari anche con confusione, ci spiega perché ci conviene comportarci in un modo anziché un altro. Questa volta per una roba un po’ più astratta rispetto alla nostra pellaccia: il bene collettivo. Questo sconosciuto.
 
Domande filosofiche:
  • Se l’ineffabile ci travolge, è un bene o un male affidarsi all’autorità di un esperto?
  • E perché sarebbe un bene e perché sarebbe un male?
  • Se decidessi di affidarmi, rinuncio al mio libero arbitrio e alla mia capacità di giudizio?
  • Se decidessi di non affidarmi, sono poi veramente in grado di selezionare, comprendere e rendere disponibili per risposte essenziali, le fonti scientifiche utili alle mie reali capacità euristiche?
  • Se l’esperto è dubbioso, confuso, o addirittura sbaglia previsioni è giusto che io continui a fidarmi di lui?
  • Quanto è più rassicurante fidarsi unicamente del proprio giudizio o del giudizio di un esperto?
  • Sono realmente in grado di farmi un’opinione compiuta su un dato problema complesso nel confrontarmi con un esperto (o con le dichiarazioni estratte da un testo sul web) o sto sopravvalutando la mia intelligenza (o semplicemente la mia dotazione culturale)?
  • O forse nell’affidarmi ciecamente alle opinioni altrui, seppure esperto, sto pericolosamente delegando decisioni essenziali che spettano solo a me?
 
Ahimè, nel frattempo, come qui dimostrato, in epoca digitale le carte si sono più che mischiate e le acque parecchio intorpidite.
L'illusione, piuttosto diffusa, che la odierna disponibilità e accessibilità di informazione scientifica corrisponda alla disponibilità di conoscenza spendibile allarga ulteriormente la crepa, questa volta collettiva, tra disponibilità ed indisponibilità di ragione.
 
Ma cosa c’entra la psicologia? Perché mai una disciplina scientifica dovrebbe o potrebbe soccorrere questo scempio? L'enormità della sconfitta e del danno collettivo, in tal caso, è sotto gli occhi di tutti.
 
Prendiamo, a caso, tre temi giganteschi che sono, casualmente, all'ordine del giorno della governabilità odierna:
 
  1. la questione inerente l'identità di genere
  2. la questione delle torture nelle carceri (ma anche nelle RSA e altre istituzioni)
  3. la questione dei no-vax e delle innumerevoli ragioni che essi adducono e il danno che si sta realizzando a causa dell’incompiutezza della campagna vaccinale.
 
Problematiche queste che se visionate e analizzate e "accudite" da un pensiero scientifico "psi" si scioglierebbero con un grado molto più alto di intelligenza e razionalità.
 
Sono convinto che non ci sia nulla di peggio e di più pericoloso dell'ignoranza compiaciuta e autoindulgente. Eppure quando si toccano questioni che sono ambiti di saperi consolidati "psi", tutto sembra annacquarsi e intorbidirsi e il gioco delle opinioni finisce per prevalere sul bagaglio di conoscenze acquisite dal mondo psi, come se queste acquisizioni fossero di secondo piano, di minore valore. Una vera disgrazia. L'illusione di poter maneggiare "essendo tutti noi un po' psicologi" campi del sapere da perfetti parvenu.
 
È esattamente quanto accade se analizziamo questi tre temi a caso, e l'aspetto più sconvolgente a cui assistiamo è proprio che questa confusione tra opinionismo e acquisizioni scientifiche (tra doxa ed episteme) appartenga totalmente al mondo dei politici, anche a livello apicale. Quando il tema ha una esplicita e prevalente chiave di ingresso e di lettura “psi”, tutti improvvisamente diventano commissari tecnici della nazionale e si arrogano il diritto di aprire bocca e dare fiato ad opinioni, ritenute equivalenti a decenni di ricerca in quel settore.
 
Mi è assolutamente chiaro che sia il mondo della psicologia accademica e professionale l’unico responsabile della scarsa o nulla autorevolezza della propria voce in capitolo. Va però detto che non si riscontra, simmetricamente, alcuna competenza trasversale nei vari comitati di esperti che sia in grado di segnalare il mancato utilizzo di questi saperi, assolutamente decisivi per dirimere le questioni all'ordine del giorno.
 
Lasciamo pure i carri armati in garage ad arrugginire durante la guerra, ma non lamentiamoci delle sconfitte e dell'ignoranza dilagante.
 
Se riprendiamo in considerazione quei tre temi giganti prima citati: identità di genere, torture nelle istituzioni, psicologia dei no-vax e campagne vaccinali incompiute, e ci confrontassimo con qualunque psicologo mediamente colto (mi iscrivo d’ufficio nella sottocategoria), non si perderebbe troppo tempo a discuterne, le competenze acquisite consentirebbero di oltrepassare senza alcun problema le paludi maleodoranti e mefitiche della doxa e di approdare rapidamente sulle rive dell’episteme, senza troppi affanni. Vediamo, in poche pennellate, in quale modo:
 
  1. I gender studies non sono una ideologia, come il tam tam mediatico teocon ha diffuso, bensì sono ultradecennali (anni ’70) studi accademici, che si svolgono in ogni angolo del mondo, sulla identità di genere e sulle innumerevoli mutazioni/variazioni relative alla sessualità umana e le sue varianti, anche in relazione ai cambiamenti socioculturali in corso. Tutte queste varianti sono intrinseche alla specificità della natura umana e sono lo specchio di tale specificità, a cavallo tra natura e cultura, in una unica e particolare inestricabilità non definibile né prescrivibile con presupposti ideologici e prescientifici. Il vero problema dei gender studies è che sono entrati in rotta di collisione con la definizione “dall’alto” sulla natura umana svolta da un certo pensiero religioso. Il conflitto è di natura biopolitica: chi definisce e descrive quale sia la natura umana, il pensiero teologico e religioso o le conoscenze scientifiche, umanistiche, antropologiche?
  2. Le torture nelle carceri ed altre istituzioni. Anche qui uno psicologo mediamente colto non perderebbe molto tempo… tutti i saperi della psicologia sociale raccontano all'unisono delle derive di qualunque umano sottoposto a "campo-dipendenze" (indipendentemente dall'autonomia, salute mentale e intelligenza delle persone implicate). Prima ancora delle scellerate sperimentazioni di Philip Zimbardo degli anni ‘70, ogni studio sui rapporti intergruppo, avevano già da decenni prima dimostrato quanto la semplice suddivisione di ruoli operata dall’alto determinasse comportamenti coerenti con i ruoli assegnati e l’inasprimento di conflittualità del tutto irrazionali. Allo stesso tempo altri saperi, quelli della psicoanalisi delle istituzioni (socioanalisi, psicosociologia, etc), hanno dimostrato già dagli studi post bellici della Scuola di Francoforte, il rapporto tra culture istituzionali (democratiche o antidemocratiche) e prassi istituzionali adeguate o inadeguate. Tra l’altro, da italiani, noi abbiamo Franco Basaglia come massimo esempio di questi saperi e della loro applicazione.
  3. Questione no-vax e campagne vaccinali incompiute: rispetto a questo tema, a dire il vero, qui uno psicologo mediamente colto, vacilla anche lui non poco (qui ci vogliono psicologi molto colti!): siamo di fronte ad un’analisi delle caratteristiche dell’universo no-vax e dei fenomeni psicosociali connessi, assolutamente iniziale e non completo. La persuasione paternalistica stile "spinta gentile" (Thaler) ha dimostrato la sua efficacia in moltissime applicazioni sociali (ed anche i governi occidentali l’hanno maldestramente e parzialmente applicata). Saper comunicare autorevolmente e con efficacia il rischio (personale e sociale) è operazione che richiede competenze molto elevate. In ogni caso il fenomeno no-vax appare ancora più complesso e non può essere risolto con una semplice “spinta gentile”. Occorre conoscere molto bene ogni meccanismo psicosociale di delegittimazione della comunicazione scientifica pubblica, nonché tutti i bias cognitivi che questa inedita situazione ha sviluppato nelle persone. Ma non basta ancora. Esiste a mio parere un limite invalicabile, legato all'analfabetismo di ritorno e all'impreparazione logico-scientifica di base (in Italia molto alto) e al funzionamento totalmente magico-emotivo del cervello umano in determinate condizioni di pericolo. Quindi in questo caso le competenze “psi” non sono ancora sufficienti ad azzerare il fenomeno no-vax, ma solo ad assottigliarlo e certamente a studiarlo. I numeri (incredibili) di over 60 non vaccinati ci indica che la campagna vaccinale non ha studiato affatto le variabili psicosociali e gli innumerevoli casi e motivazioni che l’arcipelago no-vax porta, con il rischio reale che tutto si vanifichi appresso al cervello scaramantico. Ad inizio pandemia, nell’ormai lontano 3 e 6 Marzo 2020, nei miei primi 2 articoli su questo tema (articolo 1 e 2 ), avvertivo i colleghi circa la diffusa irrazionalità del panorama che si stava stagliando all’orizzonte nonché evidenziavo “lo scacco della ragione” a livello di catena di giudizio e responsabilità che la pandemia stava provocando già nelle singole risposte difensive degli individui, ma anche a livello di razionalità collettiva. Oggi, a 16 mesi di distanza, alcune criticità in embrione allora, si sono fortemente inasprite, e tutto il piano psichico e psicosociale del problema sembra totalmente abbandonato e ignorato. Attendiamo conseguenze a breve e a lungo termine.
 
Ripeto, mi iscrivo nella categoria degli psicologi mediamente colti, ma nonostante questo osservo con sgomento alla rinuncia pregiudiziale che il mondo politico fa delle competenze elementari dei saperi “psi”. Una rinuncia che coincide con una vera e propria area cieca che purtroppo nessun collega fino ad oggi è mai riuscito ad illuminare.
 
Confidiamo in generazioni di psicologi del futuro mediamente molto più colti di me e soprattutto in grado di dialogare con la politica molto più e molto meglio di quanto non siano riusciti a fare i colleghi nei primi 34 anni dalla nostra nascita istituzionale.
 

 
 

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