Di quale morte parla il protagonista? E’ come se un disturbo del pensiero lo inducesse a parlare, a un tempo e confondendole, della sua morte interiore e della sua morte reale; là dove questa starebbe a significargli il momento del riscatto dalla sua morte interiore, il portale di accesso a un futuro, a una nuova vita che gli restituisse quella perduta.
Gli si accosta un giovane allievo. Si dice sedotto dal fatto che nella lezione appena tenuta avesse dismesso le vesti accademiche per parlare di una paura abitualmente taciuta. Ma forse è sedotto anche da altro. Sia dal fatto che il professore gli avesse indicato nella morte reale un momento di riscatto da una morte interiore che l’allievo vedeva riflessa nell’indifferenza della sua bella e sensuale compagna; sia dalla presunzione di poter distrarre il professore dall’intenzione di darsi una morte reale.
Tuttavia né la seduzione esercitata su di lui da questo giovane, né quella esercitata su di lui da un altro giovane disposto a prostituirsi, né il tentativo della sua ex compagna di ricondurlo a sé danzando di fronte a lui e trascinandolo a danzare con lei, distraggono il protagonista dalla sua intenzione suicida. Continua a coltivarla sedotto a sua volta dal potere che gli conferiva di attrarre altri a sé. Avrebbe continuato a farlo se la morte non lo avesse raggiunto all’improvviso, come a significare che a coltivare quell’intenzione si finiva in un vicolo cieco.
Il film è stato da molti considerato un bel film. In effetti ha una bellezza formale che riflette sia quella del mondo di oggetti entro il quale il protagonista si muove, sia la perfezione del suo vestire. Non è un caso che il regista abbia lavorato con Gucci e con Yves Saint Laurent ed abbia egli stesso ideato una linea di moda. E’ però una bellezza che mi ricorda quella, definita “grande” senza esserlo, di un recente film di un regista italiano, intitolato appunto Una grande bellezza, che, al pari di questo, trasmette un messaggio mortifero e confusivo.
Credo sia stato questo messaggio a farmi avvertire un certo malessere dopo avere visto il film. Per liberarmene mi è parso prioritario non dare per scontato che la perdita subita dal protagonista fosse dovuta all’incidente che ha provocato la morte del suo compagno e bisognasse piuttosto chiedersi cosa mai egli avesse in realtà perduto.
Le scene iniziali del film comprendono un dettaglio che ritengo significativo. Nell’apprendere la notizia della morte del compagno, il protagonista, con una mossa apparentemente incongrua che sorprende chi gli sta comunicando la notizia, si preoccupa della sorte toccata a uno dei due cani che stavano nell’auto e che non era stato ritrovato insieme all’altro morto sul luogo dell’incidente. Gli viene risposto che non ve ne è nessuna traccia: dunque non è detto sia morto, è scomparso.
La cosa finisce lì. Nel seguito, il protagonista non compie alcun tentativo di ritrovarlo, né si può dire che lo ritrovi in un cane che incontra per caso e bacia, abbraccia e annusa, perché poteva essere che egli non vi vedesse quello scomparso, ma quello morto accanto al cadavere del compagno.
Era dunque questa la perdita subita dal protagonista? Non era quella del compagno, ma del cane scomparso in quanto scomparso? E’ stato seguendo la traccia di questo interrogativo che mi è affiorato il ricordo di un altro film, L’avventura, che Antonioni realizzò nel 1960. Anche in quel film si tratta di una perdita dovuta a una scomparsa. Non però di un cane, ma di una donna. Certo, neppure un cane è un cane. Potrebbe essere il feticcio di un bambino. Ma se una donna scompare non può più esservi un bambino, il posto che egli occupa in un rapporto resta vuoto e il bisogno di negare che lo sia illudendosi che sia pieno può far sì che venga preso da un cane.
1960-2009, cinquanta anni, un passaggio di secolo. In questo lasso di tempo è dunque avvenuto che la scomparsa di una donna lasciasse posto alla scomparsa di un cane. Forse, allora, è stato per questo, non per altro, che dopo avere visto il film ho avvertito un certo malessere.
Il film è ricco di citazioni di altri film, ma tra questi non vi è quello di Antonioni. Non poteva esservi perché era stato dimenticato, era andato perduto. Dunque la perdita che il protagonista subisce e che lo porta a dire che la morte è il futuro non è la perdita del suo compagno, ma quella di quel film. Del mondo di problemi, pensieri, affetti, desideri, attese, timori, sconfitte che Antonioni poteva ancora rappresentare cinquanta anni prima e più a contare da adesso. Il suo film non si chiude con una morte improvvisa, ma con un pianto del suo ben diverso protagonista. Possiamo intenderlo come il pianto dovuto alla previsione di quanto sarebbe accaduto negli anni a venire, e cioè che la scomparsa di una donna divenisse la scomparsa di un cane. E se quel pianto diceva che ella continuava a venire cercata, quella morte inaspettata dice che non vi è più ricerca, che ella non può più essere ritrovata e che non vi è più posto per alcun bambino.
Non poteva essere ritrovata nonostante ricomparisse nel film nell’immagine della donna lasciata dal protagonista sedici anni prima, nonostante ella danzasse di fronte a lui come a volerlo risvegliare da un sonno di morte in cui doveva essere caduto poco prima di lasciarla.
Qualcosa doveva però essere accaduto poco prima che egli la lascasse perché egli potesse fare la scelta dell’omosessualità. Non era infatti nato interiormente morto, cioè con quel disturbo del pensiero che lo portava a ritenere che la morte reale, che è assenza di futuro, gli avrebbe dato un futuro nel quale sarebbe di nuovo stato interiormente vivo. Né è detto che la sua scelta gli fosse predestinata, o che trovi spiegazione nella biologia, o che consegua liberamente all’inesistenza di un’identità di genere. Prima di concludere in uno di questi sensi bisogna chiedersi se essa non sia conseguita a una dinamica.
Forse era accaduto che la donna abbandonata dal protagonista avesse già danzato di fronte a lui e l’avesse anche per un solo istante trascinato in una danza che lo aveva turbato e indotto a decidere di non lasciarsene turbare più, tanto meno sedici anni dopo.
Alcuni critici hanno richiamato l’attenzione sul fatto che la morte coglie il protagonista subito dopo che il giovane allievo aveva tentato di sedurlo e ravvivarlo mostrandogli il proprio corpo nudo, e ne hanno tratto che Eros è sempre accompagnato da Thanatos. Thanatos però doveva essere intervenuto ben prima. Non ad accompagnare Eros, ma a determinare nel protagonista la scomparsa dell’oggetto per lui attuale di Eros. Con la scomparsa di quell’oggetto doveva essergli scomparso anche un sentire che quell’oggetto gli evocava e che lo manteneva vivo. Non doveva dunque essergli rimasta altra via di recuperare una parvenza di quel sentire se non la scelta omosessuale.
Il film è ricco di allusioni e rimandi significativi che debbo astenermi dal raccogliere. Avendo presente il suo insieme, mi viene piuttosto da dire che potrebbe essere recepito come se fosse una tragedia greca. Come se rappresentasse un percorso che priva il mondo degli oggetti di Eros e del sentire che essi inducono, per popolarlo di feticci che si susseguono ossessivamente e si accumulano senza poter restituire quanto scomparso e perduto. Vi manca ed è mancato però il coro che nella tragedia greca induce la catarsi e apre alla nuova vita. Oppure è accaduto che una cultura, della quale il film è partecipe e che si è venuta affermando in questi ultimi cinquanta anni, abbia reso la voce del coro tanto flebile da avvicinarsi a non poter essere più avvertita e ascoltata. Forse, dopo tutto, è stato questo a farmi avvertire un certo malessere una volta visto il film.
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