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Narrare la malattia nella psicoanalisi

15 Gen 22

Di marcoguidi73
 
  1. Il livello epistemologico-clinico del narrare nella psicoanalisi.
 
Questo articolo vuole rispondere a due questioni:
  1. Che cosa significa narrare la malattia per la psicoanalisi?
  2. È legittima tale narrazione in relazione alla cura e alla clinica del sintomo cui la psicoanalisi si riferisce?
 
Rispetto alla prima questione per la psicoanalisi narrare la malattia significa far coincidere il concetto di narrazione con la malattia stessa in quanto colui che narra è lo stesso malato. Questo punto di vista coincide con il significato che la psicoanalisi dà alla narrazione della malattia in quanto, colui che narra la malattia, parla sempre della propria: infatti non si può che narrare la malattia in quanto soggetti implicati in essa. Questa implicazione risponde al concetto epistemologico-clinico di “teoria della enunciazione” che riguarda l’inconscio del soggetto parlante sia a livello di non voler sapere niente della propria malattia, sia al livello di una parola che si impone comunque malgrado il soggetto e il suo dire ignorante circa la sua malattia in cui è implicato.
Il narratore prende ciò che narra solo dall’esperienza della propria malattia ed è per questo che il narratore coincide con la malattia che egli narra anche se quest’ultima non esaurisce la sua storia perché nella storia del narratore vi sono anche le condizioni soggettive della sua guarigione (risoluzione del sintomo e trasformazione dello stesso sintomo negativo in sintomo positivo).
Freud, scrivendo di psicoanalisi, ha fatto della narrazione il modo con cui, attraverso il canale della parola, il paziente ascoltato riferisce la sua propria malattia all’analista:
 
Un giorno il paziente mi riferì come per caso un avvenimento in cui ravvisai subito la causa immediata o quanto meno lo spunto occasionale che aveva provocato sei anni prima, lo scoppio del caso a quell’avvenimento che per altro non aveva mai dimenticato. Questo suo atteggiamento richiede una valutazione d’ordine teoretico.[1]
 
In questo frammento di Freud, che ho scelto tra i tanti per la sua completezza epistemologica circa il nostro argomento, vediamo come il paziente (narratore) riferisce (narra) un avvenimento presente nella sua storia; la sua narrazione coincide con la malattia di cui egli riferisce a Freud, ma, in questo riferire, è contenuta anche la differenza che esiste tra il narrare la malattia e il narrarla dentro la pratica analitica. Infatti il riferire del paziente all’analista introduce una presenza, quella dell’analista, che con il suo ascolto, riesce a mettere in evidenza proprio ciò che non coincide tra la malattia e la stessa storia del paziente. Nell’esempio precedente, infatti, Freud collega e dà senso a un fatto che il paziente non considera importante anche se lo conosce e lo ricorda e ciò è indipendente dal fatto che il suo sintomo sia isterico o ossessivo, legato cioè al meccanismo nevrotico della rimozione. Ciò che qui mi interessa sottolineare riguarda il momento in cui il paziente quando narra qualcosa a qualcuno, ovvero quando riferisce la sua malattia all’analista e parla di ciò che gli procura sofferenza, si creano in questo suo narrare, i segni per decifrare a sua insaputa, le condizioni per la cura della sua stessa malattia. Freud, con la psicoanalisi, ha scoperto dunque quel soggetto che non coincide con il paziente che narra (livello referenziale del narrare) ma che include anche il livello intersoggettivo del narrare, ovvero la dimensione temporale che va dal presente al passato del soggetto il quale si chiede nel campo dell’Altro l’origine della sua stessa malattia. Il malato dunque soffre (sintomo) e si offre, cioè riferisce la propria sofferenza offrendola così alla interpretazione dell’analista.
La malattia viene narrata dal paziente come ciò che riguarda il suo stato di sofferenza e disagio e, mentre nel sintomo che riguarda la malattia c’è un’implicazione del soggetto nel significante che rimanda al soggetto inconscio che parla all’analista all’insaputa del paziente stesso, nella malattia organica, invece, c’è un rimando al segno che implica la coincidenza tra ciò che si mostra oggettivamente della sofferenza e ciò che si può vedere o sentire attraverso il tatto con cui il medico “sente” il corpo del paziente oppure attraverso la descrizione dei sintomi narrati dal paziente al medico stesso.
Dunque la malattia, nella psicoanalisi, va a coincidere sempre con il sintomo che a sua volta però, si sottrae alla semplice narrazione del paziente, mentre la malattia nella clinica medica o clinica del segno coincide con il segno stesso in quanto indice di una descrizione più ampia e di una narrazione coincidente con il dire del paziente (ovvero non c’è, in questo caso, una ricerca del medico delle tracce della rimozione nel paziente in riferimento alle cause della malattia.)
Nel Disagio della civiltà, Freud, enumerando le forme della sofferenza che minacciano l’uomo indica, nella prima forma l’invecchiamento del corpo come il luogo del corrompersi della materia e del deperimento organico. Le tre forme di sofferenza sono per Freud soggettivate ovvero sono riportate all’ascolto dell’analista e alla sua cura nonché all’interrogazione fatta dallo stesso Freud sia come analista che come individuo e uomo. Pertanto il noi a cui il discorso sulla sofferenza è riportato continuamente da Freud, riguarda sia la relazione analitica di ogni paziente con il suo analista che l’autoanalisi di Freud da cui proviene il materiale sul suo sentire emotivo, cioè sul dolore del corpo che si corrompe, si angoscia e si addolora:
 
La sofferenza ci minaccia da tre parti: dal nostro corpo che destinato a deperire e a disfarsi, non può eludere quei suoi segnali di allarme che sono il dolore e l’angoscia.[2]
 
L’acquisizione soggettiva del corpo in relazione al segno della malattia si pone, dunque, come indice visibile del corpo in relazione al significante, si pone come ciò che rappresenta il sentire del soggetto stesso ovvero rappresenta il suo implicarsi dentro il discorso della malattia stessa intesa, questa volta, come ciò che riguarda non solo l’organismo ma riguarda anche le connessioni affettive del paziente con il linguaggio simbolico dell’Altro genitoriale. Questo linguaggio entra necessariamente a far parte della storia del soggetto, cioè di quella dimensione narrativa che riguarda la malattia del paziente, ma anche con la storia del soggetto stesso prima della malattia: infatti solo l’analista può ascoltare nel paziente questa non coincidenza e può favorire nel paziente stesso quel dire che vada verso la trasformazione del sintomo-significante e contemporaneamente verso il collegamento del segno corporeo con il significante stesso. Il corpo organico è il luogo, quindi, collegato al segno e al significante, è incluso nel corpo simbolico del linguaggio e permette al sistema narrativo del paziente di fare riferimento secondo una diversa implicazione soggettiva al segno o al significante. Il segno rimanda: 1) alla psicosomatica 2) alla corruzione e al deperimento organico del corpo, che il soggetto sente estraneo a sé ma protagonista a tal punto da non poter esimersi dal parlarne e dal parlare della sofferenza corporea con dolore e angoscia. Il significante rimanda non tanto al corpo organico quanto al soggetto della propria parola e solo indirettamente al corpo organico che è collegato al soggetto attraverso il segno.
Se la psicoanalisi con Freud ha indicato i modi utilizzati dal soggetto per ammalarsi nevroticamente e ha indicato il sintomo come lo strumento utilizzato per manifestare all’analista, attraverso la narrazione, la storia di uno di quei modi, la stessa psicoanalisi, con Freud stesso, sembra essere poi rassegnata a non intervenire terapeuticamente circa l’ammalarsi del corpo. Pertanto di fronte alla realtà di una malattia d’organo, che non sia immaginaria e finta come nel caso dell’isteria oppure che non sia un fatto di fissazione della libido come nella psicosomatica, la narrazione del paziente cede il passo al silenzio perché di fronte alla sofferenza del male naturale, ci sembra dire Freud, non esistono rimedi terapeutici ma solo angoscia e dolore.
La seconda questione che ci interessa esaminare in questo articolo riguarda, secondo Freud, tutto ciò che rimane di reale e dunque di impossibile a dirsi nel corpo rispetto a ciò che Freud riferendosi alla malattia organica, chiama “distacco della libido dai suoi oggetti[3]: in questo caso siamo ancora nell’immaginario del soggetto ipocondriaco nel quale la malattia narrata dal paziente, ha tutta l’intensità veritiera di una vera e proprio malattia d’organo; in lui cioè, il livello di certezza della esperienza della malattia, proprio per il ritiro della libido, è totale.
La narrazione della malattia da parte del paziente si fonda sul sintomo anche nelle così dette nevrosi narcisistiche: l’organo malato è malato di eccesso di investimento immaginario, pertanto la narrazione a parte del paziente conterrà ancora uno scarto tra ciò che è malato organicamente e ciò che invece è malato, in questo caso, per un accumulo di libido narcisistica. La narrazione del paziente narcisistico rimanda ancora una volta al difetto dell’organizzazione simbolica dei significanti, difetto presente nell’Altro ovvero nel corpo simbolico entro cui il corpo organico è inscritto e dal quale si definisce la posizione del soggetto inconscio. Questo difetto nell’organizzazione simbolica del corpo dell’Altro si chiama appunto ipocondria e la narrazione del paziente coincide in tutto e per tutto al suo corpo malato che perciò non è più l’oggetto della narrazione del paziente in quanto egli è ridotto al suo Io polarizzato totalmente su un organo: la narrazione, l’Io narrante e l’organo narrato, sono allineati sullo stesso piano semantico con una concentrazione unica della libido sul corpo del paziente in relazione alla malattia immaginaria dell’organo investito:
L’animaletto protoplasmatico ritira i suoi prolungamenti, per emetterli nuovamente alla prossima occasione. Ma tutt’altra cosa è quando un determinato processo dotato di forte energia, impone a forza il ritiro della libido degli oggetti. La libido divenuta narcisistica può allora non trovare la via del ritorno agli oggetti e quest’impedimento alla mobilità della libido diventa effettiva mente patogena.[4]
 
In questa spiegazione freudiana sull’ipocondria si vede bene come non ci sia, nel soggetto dell’inconscio, un’alternanza simbolica tra il parlare di sé e il parlare del proprio organo malato in quanto, a causa di un impedimento (difetto) simbolico, il soggetto ha difficoltà a rappresentare il proprio corpo in due aspetti diversi e non sa oggettivare il proprio organo malato, anche solo mentalmente, per descriverlo e dire ciò che non va. Invece il paziente psicosomatico descrive e parla di sé come di un soggetto malato al quale tutto duole o, se solo un organo duole, a esso egli riduce tutta la sua esistenza. Pertanto la malattia organica, nel caso della ipocondria, per come è narrata dal paziente, è una malattia in fin dei conti “mentale” perché a essere malato è il modo di pensare del soggetto che non ha un corpo che egli sente come estraneo a sé ma ha un corpo che lo parla senza però essere un corpo parlante come accade nel sintomo nevrotico.
Dunque, il corpo reale riguarda tutto ciò che di biologico si include nella narrazione di un paziente che dice essere affetto da una malattia d’organo o malattia organica e al tempo stesso questa inclusione, che riguarda solo il detto, stabilisce il limite della psicoanalisi rispetto al corpo reale del malato e rispetto all’incidenza della cura sul corpo. Pertanto abbiamo il paziente che narra su un doppio binario: su un binario egli narra a partire da ciò che necessita di cure e sull’altro egli narra gli effetti dolorosi e angosciosi legati alla gravità della malattia. L’analista che sostiene la narrazione del paziente circa il corpo malato, sostiene anche la narrazione degli effetti emotivi riferiti dal paziente e causati dalle condizioni della propria malattia.
Quest’ultima precisazione è utile per affermare come la narrazione della malattia, nella psicoanalisi, riguarda solo il corpo reale, cui la malattia appartiene in quanto insieme dei segni corporei. Tutto ciò che invece compare nella narrazione del paziente, e che non implica il corpo reale e le sue affezioni organiche, non ha a che fare con la malattia medesima e con la cura del sintomo. Quest’ultimo invece rimanda sia al modo in cui il soggetto intende la malattia intesa come insieme dei significanti, sia a come il soggetto dell’inconscio la inventa e la utilizza per ricavarne un vantaggio secondario. In questo secondo caso la malattia è una maschera che nella narrazione del paziente svolge la funzione di una falso sapere che il soggetto dell’inconscio utilizza, come vero, per ingannare immaginariamente l’altro a cui parla.
Nell’insieme dell’opera freudiana la questione del narrare la malattia è presente, dunque, in due modi in relazione entrambi al concetto di implicazione soggettiva nell’inconscio: nella narrazione in cui c’è implicazione soggettiva c’è sempre un legame con il sintomo, mentre laddove non c’è implicazione soggettiva non c’è un legame con il sintomo ma solo con il segno corporeo e dunque l’Io che rimanda, nuovamente, non tanto a un livello sintomatico-immaginario della malattia, come ci ricorda Lacan, ma all’Io lucido di una coscienza narrante che si confronta con il principio di realtà manifestato dal proprio stato di salute e dal proprio corpo affetto dal male. In quest’ ultima direzione si deve leggere ciò che ci dice il carteggio (1912-1936) tra Lou Andreas Salomè e Freud a proposito della malattia di cui è affetto lo psicoanalista viennese: un cancro alla mascella. Freud in questo carteggio narra, tra le altre cose, la sua malattia alla Salomè esponendola con lucidità e con un livello narrativo così descrittivo che il suo dire coincide con il detto, sembra cioè non esserci altro che la malattia, tale è il dominio assoluto della natura biologica del corpo estranea a qualunque forma di inconscio, a qualunque interpretazione e implicazione soggettiva:
 
mi sono inoltrato ancora un po’ sulla via accidentata che conduce fuori di questa esistenza… questo era previsto, inevitabile in un modo o nell’altro e presto tornerà a ripetersi… nel frattempo ho passato ogni sorta di tribolazioni con la mia protesi, cosa che, come al solito, mi ha fatto sospendere ogni mio nobile interesse.[5]
 
Sospendere ogni “nobile interesse”: il corpo reale è dunque padrone assoluto e ciò che Freud sentiva non rinviava ad alcun altrove enigmatico ma rimandava a una pulsionalità del dire che coincideva con la malvagità naturale presente nella sfera biologica (la roccia del biologico intesa da Freud come il limite della interpretazione e dell’intervento psicoanalitico.)
Tutto ciò che nell’opera di Freud riguarda il narrare la malattia, implica il soggetto dell’inconscio, mentre non implica Freud come soggetto che narra la propria malattia: questo vuol dire che la clinica psicoanalitica ha a che fare con la soggettività che si implica nel sintomo e che non è padroneggiabile dall’Io narrante la propria malattia dalla quale, però, la dimensione inconscia è esclusa e dunque è esclusa anche la psicoanalisi come scienza dell’inconscio, scienza che si occupa di ciò che Freud chiamava psiconevrosi.
Nell’opera di Freud c’è dunque una divisione interna tra Freud ascoltatore del paziente che narra la propria malattia e Freud descrittore lucido e impotente della propria malattia, dunque un Freud paziente in mano ad altri (il medico personale Max Schur e la figlia Anna).
Ma da queste due posizioni ne deriva una terza di carattere anatomo-consequenziale che ci fa dire: se Freud, come analista ascoltatore del paziente che narra la propria malattia, ha costruito e scoperto la psicoanalisi come scienza del non detto, della rimozione, Freud invece come paziente inerme e impotente rispetto alla propria malattia avrebbe avuto bisogno a sua volta di qualcuno altro che svolgesse con lui una funzione di ascolto per cogliere quell’altrove rispetto al suo dire sulla propria malattia, così da evidenziare lo scarto interno tra il piano del dire e quello del detto sulla questione della malattia e sulla malattia stessa legata al corpo: dunque la prima istanza rimanda al Freud scienziato e osservatore, mentre la seconda istanza rimanda al Freud paziente ma anche ascoltatore della propria impotenza rispetto al corpo e alla sua corruzione patogena.
Ma che cosa è questa malattia di Freud, che lo riduce a un livello di paziente impotente, se non una forma di vita, anche della vita di Freud scienziato ascoltatore e psicoanalista? Questa domanda provoca il lavoro di rilettura che Lacan ha fatto del testo di Freud e del rapporto problematico tra psicoanalisi e medicina, che nel testo di Freud permane: non c’è testo e soggetto che parla e vive scissi tra loro così come non c’è corpo concepito solo come spazio ed estensione fisico-organica ma c’è il corpo come qualcosa di vitale nel soggetto umano, un corpo che anche a livello della sua corruzione patogena più estrema, come quella tumorale, esiste come corpo reale, un corpo dunque provvisto sempre di un livello, anche se minimo, di godimento:
 
Questo corpo non è semplicemente caratterizzato dalla dimensione dell’estensione. Un corpo è qualcosa che è fatto per godere, godere di sé stesso.[6]
 
La questione del corpo che gode ci permette di articolare la doppia via freudiana: quella di Freud che narra la malattia organica dei pazienti che egli ascolta all’interno di un quadro psiconevrotico, e quella di un Freud che narra la sua propria malattia come paziente impotente nelle mani di altri e che dunque pone fuori dalla psicoanalisi il suo proprio corpo che si corrompe biologicamente. Si tratta di una narrazione della malattia che, dentro la prassi analitica, acquista un valore inconscio al livello appunto della funzione di godimento e quindi in relazione al corpo che viene sottratto così dall’essere pura estensione materica organica o insieme di organi corruttibili per pura genetica naturale. Esiste dunque una genetica non biologica che ha che fare con l’ordine simbolico del narrare e con il reale del godimento in relazione alle disfunzioni del corpo e queste due componenti a loro volta sono incluse nel quadro della storia personale, il così detto romanzo familiare, di ciascun paziente.
 
 
  1. La narrazione della malattia e il corpo che gode: due questioni nella clinica del soggetto.
 
 
Dalla pratica clinica con cui ho ha che fare quotidianamente posso trarre un esempio clinico che riguarda un caso di cui mi sto occupando. In questo esempio clinico si può notare come la malattia organica della paziente sia tenuta fuori dalla seduta, perché, secondo, il parere della donna, “non è di competenza dell’analista occuparsi del corpo per cui è inutile parlarne”: questa posizione soggettiva mi risulta essere comune a molti pazienti per lo meno fino a quando le circostanze della vita quotidiana non mettono loro in evidenza una malattia organica di cui sono affetti e che provoca loro dolore e angoscia tanto da costringerli a doverne parlare in analisi.
Questo tipo di paziente è chiaro che non ha niente a che vedere, almeno apparentemente, con la vecchia isteria freudiana dove il sintomo esibito all’analista aveva sempre a che fare con il corpo e con i suoi organi malati in maniera immaginaria, ma non ha niente a che vedere nemmeno con la psicosomatica nella quale il fenomeno sintomatico o segno è localizzato direttamente su un organo del corpo del paziente; in questo esempio, che ora esporrò, la paziente invece presenta un disturbo organico che non  si vede e che va riferito solo al medico perché lui se ne occupi.
Fino a questo punto niente di anomalo in quanto è il medico che deve occuparsi del corpo organico così come l’analista deve occuparsi del corpo psichico (termine introdotto dallo psicologo A.Vergote di Lovanio[7]) ma ciò che vorrei mettere in evidenza è che in questa divisione tra corpo organico e corpo psichico c’è qualcosa che ha a che fare con ciò che Lacan ha chiamato il corpo simbolico ovvero quel corpo che permette comunque al paziente di narrare al medico ciò che non va nel proprio corpo e all’analista ciò che il paziente sente circa il suo malessere relazionale: ma in entrambi i casi esso dice qualcosa che ha a che fare con un conflitto o con un evitamento del conflitto in quanto il paziente sa di consegnare il proprio corpo organico all’uno e il conflitto psichico all’altro ma, facendo questo in definitiva egli mantiene intatta (godimento soggettivo) la presenza della resistenza alla guarigione. Il paziente sviluppa questa resistenza a guarire in parte fissandosi su un organo e in parte costruendo una relazione patogena.
L’esempio clinico a cui faccio riferimento mi permette di costruire 3 momenti logici che caratterizzano il percorso di cura analitica della paziente che sto seguendo:
 
1) Una donna affetta da un disturbo fisico rivolge la sua domanda di guarigione al medico e non allo psicoanalista.
2) Alla stessa donna capita di rivolgersi successivamente a me in quanto analista a causa di un altro malessere generico non ben identificato nella sua domanda di cura: sembrava che tra i due disturbi  non ci fosse nessuna relazione.
3) La narrazione della propria malattia da parte di questa donna all’analista coincide con il motivo per il quale si è rivolta all’analista. La domanda della donna all’analista, contenuta nel suo discorso, è una richiesta di elidere dall’analisi tutto ciò che riguarda il suo corpo malato: la donna voleva che l’analista fosse complice di questa sua richiesta e che la sostenesse con il silenzio. Il corpo si lascia ad altri, allo psicoanalista invece si parla e a debita distanza per cui il corpo non può essere né ascoltato né osservato o toccato come invece fa il medico.
 
 
Caso clinico.
 
Dunque, una ragazza di 28 anni mi interpella perché ha una costante paura che, dice, “non mi abbandona mai, quella di perdere il padre dato che quest’ultimo ha già avuto un infarto. La ragazza che chiamerò Amanda, mi parla della comprensibile preoccupazione della sua ansia ragionevole per la salute del padre, ma dal momento che questo avvenimento condiziona la sua vita in un modo eccessivo allora ha sentito l’urgenza di chiedere aiuto all’analista. L’analisi procede intorno al dire sulla relazione d’amore con il padre, relazione espressa attraverso un’attenzione e una cura molto “serrata” (così si espresse in una seduta) ma tutta trattenuta dentro di sé cercando di non far trasparire il suo stato d’ansia né a suo padre né a sua madre con il quali Amanda vive. Ma ciò che è cambiato dopo l’infarto del padre è il suo modo di vedere e vivere la vita: “Mi accorgo sempre di più che non ci sono più come prima nelle relazioni con gli altri, con gli amici e con il mio ragazzo. Sento dentro di me un peso, un peso al cuore” (e si tocca il petto all’altezza del cuore, appunto) precisa Amanda. Amanda parla spesso del corpo malato del padre, della fatica che egli fa a riprendersi e parla della intensa riabilitazione a cui il padre è sottoposto, ma fa poco riferimento al suo proprio corpo e non tanto perché non se ne occupi, ma semplicemente perché mi dice: “qui vengo a dire ciò che penso, il corpo lo porto altrove.” Infatti ad Amanda è stata diagnosticata una cisti alla tiroide di natura benigna che comunque lo specialista consiglia di rimuovere: lo venni a sapere “per caso” dopo lo spostamento di una seduta richiesta da Amanda perché dovendo fare una visita per la tiroide all’ospedale nello stesso orario della seduta fu costretta a motivare la richiesta di un nuovo appuntamento. Nella seduta successiva colsi l’occasione per introdurre l’argomento legato alla tiroide malata ma Amanda mi rispose in questo modo: “Se proprio vuole posso anche parlarne ma francamente non vedo cosa ci sia da dire, c’è solo da curarsi.
In questo esempio clinico, che ho scelto per esemplificare un atteggiamento abbastanza comune nella clinica del soggetto, abbiamo il paziente e il suo corpo organico in relazione al medico, il paziente e il suo corpo simbolico che non risponde poi alla verità soggettiva, così come la psicoanalisi ha scoperto da Freud in poi: qui si può vedere come il corpo di Amanda sia in definitiva qualcosa di estraneo a lei stessa perché lo consegna al medico perché egli se ne occupi e inoltre lo sottrae anche alla narrazione indirizzata all’analista in quanto non ne vuole parlare e non vuole che se ne parli: “il corpo psichico è essenzialmente relazionale, poiché nella relazione all’altro si manifesta più acutamente la tensione tra l’ordine organico e l’ordine simbolico e di conseguenza per essa il soggetto è messo profondamente in questione nelle certezze che si costruisce a proposito di sé stesso. Inversamente, le relazioni con gli altri sono interamente simboliche, poiché si istituiscono nell’ambito del linguaggio, ma sono interamente organiche perché mettono sempre in gioco la presenza vicendevole dei corpi vissuti.[8]
 
Il concetto di corpo organico è qui assimilato a quello di corpo reale di cui parla Lacan, un corpo provvisto di godimento senza necessariamente passare dal soggetto dell’inconscio, di un godimento che si scrive sul corpo e prende la via del fenomeno psicosomatico e non del sintomo, così come il corpo organico ha un suo vissuto, una sua vita che, senza essere simbolica, è tuttavia inscrivibile nella tensione del corpo psichico. Insomma, nel campo dell’uomo non esiste niente di puramente organico niente che non sia in qualche modo contaminato anche dal simbolico, dal momento che il corpo è presente in ogni dimensione relazionale, come è quella tra medico e paziente o analista e paziente, ma anche tra medico e analista. La dimensione relazionale implica il registro della domanda rivolta da uno dei due all’altro e che è sempre presupposta in ogni atto umano e questa implicazione sottrae l’uomo alla sperimentazione a cui non può sottrarsi invece un animale (pensiamo al cane di Pavlov per esempio) che all’interno della sperimentazione non può interrogare lo sperimentatore circa il suo desiderio di sperimentare. L’uomo, insomma, può parlare di ciò a cui è stato sottoposto ovvero può parlare dell’esperimento che ha scelto di sostenere mentre l’animale non ha parola per farlo, né può chiedere a nessuno di parlare al suo posto, né può organizzare una protesta se qualcosa non va per il verso giusto.
Se torniamo all’esempio clinico è necessario notare come Amanda sottragga il suo corpo organico dalla narrazione fatta all’analista, ma proprio questo togliere evidenzia la presa del simbolico sul reale nel senso della resistenza della donna in quanto lei lascia al medico il compito di occuparsi proprio del suo corpo organico; questo mette in luce ciò che nella narrazione della malattia il malato vuole evitare: vuole evitare di mettere in gioco, elaborandola, la sofferenza e di mettere in gioco “la propria pelle” che corrisponde alla questione della propria morte.
L’esempio di Amanda ci induce a rispondere alla seconda questione posta all’inizio di questo contributo circa la legittimità della psicoanalisi nell’occuparsi della malattia organica: “è legittimo che la psicoanalisi si occupi della malattia organica proprio perché il paziente, evitando di parlare durante la seduta, cioè nel luogo dove la parola non è chiacchiera ma verità scientifica, intorno a tutto ciò che sostiene la malattia stessa, dimostra che l’organico-biologico nel campo dell’uomo non va da sé completamente, ma è incluso, seppur come limite di dicibilità nell’ordine del linguaggio e del godimento, ordini che strutturano l’inconscio.”
Vi sono altre motivazioni che ci indicano come sia legittimo che la psicoanalisi si occupi della malattia organica nella clinica che la riguarda, cioè quella del sintomo in collegamento alla narrazione del paziente.
Per esempio sulla base del livello narrativo psicosomatico il paziente narra, mentre parla del suo sintomo, il disturbo somatico che non ha alcuna connessione apparente con il sintomo stesso e con la sofferenza che lo ha indotto a chiedere aiuto all’analista: il disturbo può riguardare l’apparato digerente (dalla colite spastica alla colite duodenale), può riguardare il derma (dall’acne giovanile alla psoriasi fino all’herpes), può riguardare l’apparato cardio-circolatorio e osteo-articolare.
In questi casi il paziente riferisce il proprio disturbo e lo fa spesso facendolo cadere nel discorso quasi per caso, lo racconta all’analista come se raccontasse qualunque altra cosa contingente e comunque come qualcosa di estraneo alla competenza clinica dell’analista. Il paziente racconta il disturbo per informare semplicemente l’analista che è in cura da un dermatologo, da un gastroenterologo, da un neurologo ecc. Nei migliori casi il paziente racconta del suo disturbo e della sua cura perché sente l’esigenza di lamentarsi di ciò che gli accade e questa lamentazione è comunque una prima forma di richiesta psicoterapeutica nella relazione con l’analista al quale il paziente consegna la propria domanda implicita quando chiede di essere sostenuto in relazione alla propria sofferenza antica. Tale sofferenza riguarda ciò che il livello sintomatologico-psicosomatico e i suoi effetti mettono in gioco rispetto al corpo che gode e rispetto alla relazione che il soggetto ha con ciò che ha indotto tale godimento sul corpo in forma di scrittura cartigliare[9]: anche se di questa scrittura il paziente non sa niente egli tuttavia sente l’esigenza di scaricare altrove, sull’analista, appunto, questa scrittura materna, acida, scritta a guisa di scarificazione sul corpo interno, (ferita e lesione psicosomatica ) o sul soma esterno. Ciò che fa spostare l’attenzione narratologica del paziente verso la sua sofferenza è il fatto di avere la conferma della sua patologia organica che lui ottiene come diagnosi dallo specialista di riferimento e questa conferma cattura l’attenzione del paziente fissandola sul disturbo organico diagnosticato. Pertanto, dal momento della conferma, il livello narratologico del paziente trova nell’analisi un punto di ancoraggio che ha la funzione di mettere tra parentesi il sintomo, lo sospende temporaneamente e sospende anche il livello associativo del paziente circa il sintomo in gioco e questo perché la funzione associativa è assorbita da quella reale del disturbo enunciato e confermato dal paziente: salta in questo modo il nodo tra sintomo e disturbo per la potenza reale dell’angoscia che invade il discorso del paziente.
In quest’ultimo caso l’angoscia che si scatena nel paziente, per l’invasione del reale organico a danno dello stesso paziente durante l’analisi, è il segno da interpretare offerto all’analista, insieme al limite della stessa interpretazione, limite inscritto nel corpo reale del paziente stesso e della sua malattia: “L’angoscia è appunto qualcosa che si situa altrove, nel nostro corpo, è il sentimento che sorge dal sospetto di essere ridotti al proprio corpo.[10]
 

[1] S.Freud, Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva, VI, Bollati Boringhieri, Torino p.36
[2] S.Freud, Il disagio della civiltà, Boringhieri, Torino, 1977, p. 212
[3] S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, Bollati Boringhieri, vol. XIII, Torino, p.570
[4] S.Freud, cit. p. 574
[5] S.Freud, Epistolari, Bollati Boringhieri., Torino 1990, pag. 132
[6] J. Lacan, Psicoanalisi e medicina, in Il Piccolo Hans, n°15, Dedalo, Bari,1977, p. 11
[7] A.Vergote, Le corps, in La signification du corps  Louvin-la Neuve, 1981
[8] J.F: Malerbe, Per una etica della medicina, Edizioni Paoline, 1989, pag, 51
[9] Cfr. Mi permetto di fare riferimento, a questo proposito, al mio contributo sulla psicosomatica dal titolo “Alcune note psicoanalitiche sulla psicosomatica” presente in Notes Magico n°3 Clinamen Editrice , Firenze, 2003
[10] Jacques Lacan, La terza in La psicoanalisi n°12 Astrolabio, Roma, 1992 p. 33

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