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CONTRO TUTTI I MURI. Franca Ongaro Basaglia nella biografia di Annacarla Valeriano

19 Feb 22

A cura di chiclana

CONTRO TUTTI I MURI. Franca Ongaro Basaglia nella biografia di Annacarla Valeriano
 
Autore: Annacarla Valeriano
Titolo: Contro tutti i muri. La vita e il pensiero di Franca Ongaro Basaglia
Editore: Donzelli
Anno: 2022
Pagine: 133
Prezzo: 17 euro
 
Di Annacarla Valeriano abbiamo già avuto modo di apprezzare gli studi sugli archivi del manicomio di Teramo: Ammalò di testa. Storie dal manicomio di Teramo (1880-1831) (Donzelli, 2014), e Malacarne. Donne e manicomio nell’Italia fascista (Donzelli, 2017), quest’ultimo recensito dal sottoscritto per questa rivista (vai al link) e da lei presentato a Genova nell’ambito del percorso di letture della manifestazione 180 x 40 (vedi il video allegato).
Questo nuovo volume – che nasce evidentemente dal suo duplice interesse per la storia della cura della follia e per la questione femminile – ha al centro la figura di Franca Ongaro Basaglia, nata a Venezia nel 1928.
Attraverso la consultazione dell’Archivio Basaglia di Venezia, Valeriano recupera gli appunti scritti per interventi inediti a convegni di quegli anni, le risposte a interviste o gli articoli destinati a periodici, che miscela sapientemente con gli interventi pubblici, più noti, svolti da Ongaro da sola o a quattro mani con il marito nei libri collettanei del gruppo: Che cos’è la psichiatria (1967, vai al link), L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico (1968, vai al link), Morire di classe (1969), sul quale Valeriano si sofferma particolarmente, e Crimini di pace (1975).
Tra gli appunti cui l’Autrice fa riferimento, mi ha colpito ritrovare quelli per il suo intervento all’XI Congresso internazionale di legge e psichiatria, al quale ricordo di avere preso parte a Firenze dal 18 al 20 marzo 1985; o al convegno Isole. Percorsi delle difese e delle libertà organizzato da Antonio Slavich a Genova dal 7 al 12 ottobre 1992. Fu lì che Antonio mi presentò a Franca Ongaro, e la scena mi è rimasta impressa; fui colpito dagli occhi chiarissimi, l’atteggiamento autorevole e dalla deferenza con la quale mi parve allora che gli altri “goriziani” (ricordo tra loro Slavich stesso, Pirella, Venturini) la trattassero.




Scrive Valeriano che «le carte d’archivio rivelano che Franca Ongaro, negli anni di Gorizia e all’interno del gruppo dei basagliani, si spese moltissimo per sviluppare una riflessione compiuta sulle pratiche di de-istituzionalizzazione e in questo fu agevolata dalla sua capacità di non semplificare mai la complessità dei problemi e di restituire profondità a tutte le dimensioni possibili dell’esistenza».
Il libro potrebbe essere idealmente diviso in due parti: la prima, nella quale è ricostruito il lavoro della Ongaro prima dell’approvazione della legge 180 ea fianco del marito, che aveva sposato nel 1953, con il quale trovò nella vita, nel lavoro, nel pensiero e nella scrittura una sintesi straordinaria, condividendone l’indignazione, la passione e i progetti; e la seconda, quando si impegnò a portare avanti le idee che avevano maturato insieme in un’Italia trasformata dall’approvazione della legge 180 e dalla nascita faticosa dei servizi. Consapevole che occorreva da un lato consolidare la rivoluzione avvenuta, ma dall’altra andare oltre la psichiatria, «a conferma» – scrive Valeriano, del fatto – «che la de-istituzionalizzazione non poteva fermarsi semplicemente alle soglie del manicomio, ma doveva rappresentare un processo continuo contro tutti i muri di parole, contro i pensieri, i pregiudizi, le culture che potevano limitare la dignità degli uomini e delle donne».
L’impatto con la spaventosa condizione degli internati e con l’odore dell’istituzione, questa volta è affrontato con gli occhi e il naso di Franca che, per raccontare il manicomio nel 1982, scrive di «un odore spaventoso che ti impregnava i vestiti e che non ti andava via neanche quando tornavi a casa, ti facevi la doccia e ti cambiavi. L’odore del manicomio. Odore di chiuso, di feci, di orine e di sofferenza».
Secondo Valeriano, poi, per Franca Ongaro il lavoro fatto a Gorizia era costituito da «“due elementi complementari l’uno all’altro”: da un lato, opporsi a Gorizia aveva significato lottare contro un’ideologia scientifica che, coprendo la realtà, si era tradotta in un dogma utilizzato dai medici per sancire l’incomprensibilità della malattia mentale e non occuparsi dei malati. Dall’altro, il rifiuto della realtà istituzionale aveva comportato anche un cambiamento della pratica manicomiale. In questa lotta, condotta su due versanti, le persone ricoverate erano sempre state l’unico punto di riferimento e di verifica da non perdere mai di vista».
Mi hanno emozionato le parole che Ongaro dedica ai giovani che, da ogni parte d’Italia e non solo, affluivano a Gorizia per prendere parte a quell’esperienza che, partita quasi in sordina in un piccolo ospedale psichiatrico di confine, coll’avvicinarsi del ’68 diventava un’occasione di vivere nella pratica quelle parole di comunità e solidarietà che venivano gridate, cantate e “scritte sui manifesti appesi contro i muri” (Finardi): «”Anche per loro fu un’occasione, un’esperienza ricca di significato” – ricorda Franca Ongaro – “vivevano in ospedale la vita dei pazienti e con la loro presenza numerosa servirono a rompere la monotonia, portando attività, iniziative nuove, movimento, vita e la loro gioventù. Chi suonava la chitarra, chi insegnava a scrivere e a far di conto, chi organizzava corsi di ginnastica per la riabilitazione, chi accompagnava i più anziani e regrediti a passeggiare per il parco o a trovare qualche amico in altri reparti, chi si assumeva l’incarico di restare tutto il giorno, tanti giorni, con un paziente che era entrato in crisi. Tutto questo servì più di quanto la psichiatria fosse mai riuscita a fare”. I volontari sapevano poco o nulla della malattia mentale, ma “la loro azione pratica, la loro disponibilità di fronte a persone che erano state sempre rifiutate davano risultati inaspettati”».
Si realizzava così quello che altrove ho definito l’incontro fortunato tra Basaglia e il ’68 (vai al link).
Altre parole ancora della Ongaro, rinvenute da Valeriano nelle buste dell’Archivio e riproposte in questo libro interessante e piacevole alla lettura, contribuiscono a rendere il calore e la passione di quel momento: «”ci volevamo bene tutti” – ricorda Franca Ongaro – e si era scoperto che era anche attraverso questo volersi bene che diventava terapeutico tutto all’interno del manicomio, perché i malati lo sentivano ed erano oggetto di una circolarità di comunicazione e di affetto”».
Ma non si deve pensare che tutto a Gorizia fosse spontaneismo, improvvisazione, affetto. No. Il gruppo di Basaglia studiò sodo, più di molti altri gruppi nell’Italia di quegli anni nei quali pure al “fare” si era forse più capaci di oggi di associare il “pensare”, sforzandosi di attingere dalle esperienze di psichiatria in quel momento più avanzate, in Gran Bretagna e Germania Federale soprattutto. E Valeriano ricorda così che anche Franca Ongaro fece la sua parte, trasferendosi per un periodo nel 1963 a Dingleton, in Scozia, presso la Comunità Terapeutica fondata da Maxwell Jones nel 1952. Non solo. Ricostruisce anche come sia stato prezioso in quegli anni per l’équipe, e per Franca Ongaro particolarmente, la scoperta di Erving Goffman, che presentò nel 1967 al lettore italiano nel suo capitolo di Che cos’è la psichiatria, e poi attraverso la traduzione integrale nel 1968 di Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza e nel 1971, insieme a Enrico Basaglia, de Il comportamento in pubblico.
Centrale appariva infatti a Ongaro – in quella rivoluzione alla quale quanto accadeva a Gorizia andava sempre più somigliando – per Valeriano il ruolo dello studio e degli intellettuali: «coloro che possedevano mezzi culturali adeguati, erano anche nelle condizioni di utilizzarli per trovare una via d’uscita, per reagire e “lottare con gli stessi strumenti di chi ha il potere”, poiché ”avere un nome, un volto, una qualifica agli occhi del mondo” significava avere una risorsa in più per ottenere la liberazione».
Certo, tutto pareva andare abbastanza bene nonostante barriere e incidenti, finché si trattò di umanizzare, democratizzare, trasformare l’interno dell’Ospedale; i problemi nascevano, e Valeriano illustra bene la consapevolezza che Ongaro ne ebbe da subito, quando si trattava di affrontare quello che definiva “il malinteso della porta aperta”, cioè il fatto «che non era sufficiente scardinare la porta sbarrata del manicomio per restituire una reale libertà alle persone che vi erano rinchiuse. Per consentire agli internati di riconquistare il loro posto nel mondo, per mettere in crisi il manicomio, bisognava forzare le sue porte e fare in modo che si spalancassero su una comunità pronta ad accogliere gli esclusi, pronta a rimettere in discussione anche il proprio modo di pensare l’abnorme».
Ma la rivoluzione basagliana, che aveva fino a un certo punto navigato con gli anni ’60 in poppa, si trovò a navigare sempre più controcorrente in un mondo e un’Italia che andavano chiudendosi anziché aprirsi già dagli anni ’70, e più ancora nei quattro decenni che sarebbero poi seguiti. E finiva così per essere una rivoluzione interrotta, incompleta; sospesa a metà.
E l’accostamento operato da Valeriano poco oltre di Franca Ongaro a una figura tragica come Rosa Luxemburg  può far pensare proprio a questo.
Così, a partire dalla morte di Franco il 26 agosto 1980 (vai al link), Franca Ongaro si trovò, senza più il compagno di una vita e di tante lotte accanto, da un lato a presidiare ciò che era stato conquistato e dall’altro a lottare perché alla chiusura dei manicomi corrispondesse l’apertura di servizi forti nei territori e, cosa ancora più difficile, di spazi di tolleranza e accoglienza per il diverso (ogni diverso) nella società.
E qui, ha inizio quella che mi pare la seconda parte del volume, che ha al centro l’impegno politico diretto che vide Franca Ongaro eletta per due legislature consecutive – dal 1983 al 1992 – in Senato come indipendente nel PCI nel gruppo della Sinistra indipendente. Valeriano ricorda che fece sempre parte della XII Commissione, Igiene e Sanità, e si occupò di temi che vanno dall’organizzazione dei servizi per la salute mentale, all’assistenza sanitaria, le tossicodipendenze, e poi eutanasia, trapianti, violenza sessuale, carcere.
In Senato, Valeriano ricorda che Ongaro scrisse su “Nautilus”, il supplemento che “Il manifesto” pubblicò per qualche tempo su salute mentale e temi affini, di avere avvertito «la “percezione di una sorta di svuotamento” degli argomenti su cui si dibatteva, “come fossero purgati del loro peso e della loro concretezza”. Inizialmente, dunque, si era sentita “estranea alle regole interne” e aveva avuto bisogno di qualche tempo per capire i processi attraverso i quali le questioni finivano per assumere una “forma rarefatta”. Avrebbe presto rilevato come “gli interessi da tutelare e da difendere” sembravano spostare la discussione in “una dimensione quasi senza oggetto, in cui ciò di cui di fatto si parla non viene mai nominato, mentre ciò che si nomina non viene in realtà discusso”». E sono osservazioni dei meccanismi di funzionamento che a volte il potere  assume che mi hanno immediatamente ricordato quanto Toni Negri raccontò in un’intervista a proposito dei pochi giorni di attività parlamentare che in quegli stessi anni gli vennero concessi, dei quali lo colpì soprattutto la distanza siderale dalla realtà vissuta dalle persone. Per non dire poi della fustigante espressione usata sempre negli anni ’80 da Giorgio Gaber, che al termine di una condanna generale del ceto politico e intellettuale italiano cantava che “la politica è schifosa e fa male alla pelle”.
Ma ciò nonostante la politica che Ongaro cercò di fare in quegli anni dentro e soprattutto fuori il Parlamento era strettamente legata ai bisogni e ai corpi delle persone.
Continuò così a occuparsi, scrive Valeriano, di trovare e inventare «”assieme – malati, operatori, politici, amministratori e popolazione – delle soluzioni che, di volta in volta, riescano a rispondere ai reali bisogni di chi soffre di disturbi psichici”». A lottare perché la comprensibile indignazione delle famiglie abbandonate spesso a se stesse dopo il 1978 non si lasciasse strumentalizzare da chi voleva tornare indietro rispetto alla “svista” che il Potere aveva commesso nel lasciare chiudere il manicomio (nei primi dieci anni furono presentate ben dodici proposte di modifica della legge). A dire che «”io sono con loro semplicemente perché quello che si dice è stato fatto della 180 non è la 180”». A evitare il rischio di vedere contrapporre famiglie da una parte, a spngere dentro i muri, e servizi e pazienti dall’altra, a spingere fuori. E a cercare anzi con le famiglie «alleanze “per lottare insieme e ottenere quanto la legge prevede: un complesso di soluzioni diversificate che riescano a far fronte al problema senza ricorrere all’internamento”».
Erano gli anni degli attacchi alla 180 e a quella che veniva definita la sua applicazione a pelle di leopardo. E l’impegno parlamentare di Ongaro la vide quindi avanzare proposte volte a obbligare (tutte) le Regioni all’applicazione della legge, fornendo loro indicazioni concrete e cogenti. E Valeriano ricorda la proposta di legge presentata in Senato dal Pci nel 1983 e sottoscritta anche da Ongaro,  che «conteneva norme di indirizzo alle Regioni per l’istituzione dei Dipartimenti di salute mentale e per la realizzazione di servizi aperti 24 ore, dettandone tempi di attuazione e prevedendo un finanziamento specifico».
E poi il disegno di legge elaborato nel 1987, base del Progetto Obiettivo 1994-1996.  
Si discuteva già dal decennio precedente di Ospedale Psichiatrico Giudiziario, che la 180 aveva lasciato indietro, e del quale la Corte costituzionale, con sentenza n. 141 del 1982, aveva condannato il fatto di non corrispondere più ai criteri generali dell’assistenza psichiatrica, al cui rispetto anche i condannati – che avrebbero dovuto attendere invece più di trent’anni – avevano diritto.
Ma il discorso era ed è più ampio. Così, Valeriano ricorda che «nel 1983 Franca Ongaro presentò in Senato, insieme ad altri senatori, un disegno di legge sull’imputabilità del malato di mente autore di reato e sul trattamento penitenziario a esso riservato, proponendo di abolire la nozione di incapacità di intendere e di volere del reo sofferente di disturbi psichici per equipararlo ai soggetti che commettevano reati in stato di ubriachezza, di stupefazione o per cause emotive e passionali».
Come è noto, la questione è ancora aperta oggi.
Poi, ricorda ancora che «con un intervento in Senato pronunciato il 24 novembre 1989 in occasione della discussione del disegno di legge Jervolino-Vassalli sulle droghe, sostenne con forza l’idea che la tutela non potesse prevaricare l’autonomia individuale e che la solidarietà dovesse consistere nel farsi carico della persona nella sua globalità». Che si occupò di eutanasia, un tema al centro del dibattito in questi giorni. Che nel 1987 prese parte alla presentazione di un Progetto di legge sulla violenza sessuale, e si trovò in quell’occasione nella difficoltà di voler vedere certo punita l’offesa odiosa contro la donna, ma anche che «le donne si sforzassero di dare prova della propria “diversità” mostrandosi “sufficientemente forti per poterci permettere un gesto più forte di noi”, come ad esempio esigere per i colpevoli un modo diverso di vivere la pena che fosse emancipatorio e non solo punitivo e vendicativo». Ricordo che in quegli anni mi interessai al fatto che Franca Ongaro promuovesse con l’amico Mario Tommasini – al quale dedicò un libro-intervista nel 1987 – con Franco Rotelli e altri, il comitato Liberarsi dalla necessità del carcere, volto a cercare una strada abolizionista che mettesse il carcere in archivio, come vi era stato messo il manicomio.
E quindi si comprende come sostenesse che «”per cambiare la cultura della violenza e dello stupro”» non si poteva certo «pensare di fare ricorso alla violenza delle carceri nelle quali – come in tutte le istituzioni totali – si riproponeva la medesima logica della sopraffazione, seppur a un livello diverso».
Ancora, Valeriano ricorda che «la senatrice Ongaro Basaglia, tra l’altro, fu colei che, nel 1989, propose l’istituzione dei centri antiviolenza, ravvedendo la necessità che questi luoghi rispondessero ai bisogni delle vittime nel modo più globale possibile». E ricorda, ancora, il suo impegno in favore della depenalizzazione dell’aborto.
Le ultime pagine del libro le dedica all’attenzione di Franca Ongaro per la questione femminile. Da un lato l’impatto particolare che la follia ha sulla donna. Dall’altra la questione del rapporto uomo-donna, a proposito del quale raccolse nel 1982 i suoi scritti nel volume Una donna;, la necessità di riconoscere una diversità, ma insieme di perseguire una parità che non può essere data per scontata e una volta per tutte acquisita.
Per questo incessante e straordinario impegno civile, Franca Ongaro è stata insignita della laurea honoris causa in Scienze politiche da parte dell’Università di Sassari nel 2002. È morta a Venezia il 13 gennaio 2005.
E a lei viene oggi dedicato questo libro da parte di Annacarla Valeriano che ne ricostruisce la vita dedicata incessantemente alla lotta per il riconoscimento dell’universalità dei diritti della persona, davvero “contro tutti i muri”. E insieme il pensiero, volto ad affrontare in modo mai semplicistico né scontato molte questioni fondamentali: il rapporto tra normalità e follia, tra salute e malattia, quello tra i generi, quello tra colpa, follia e pena, tra colpa e pena, tra gli altri.
Mi pare che questo libro rappresenti il giusto riconoscimento della statura di protagonista dell’Italia tra gli anni ’60 e ’90 di un’intellettuale e una militante che merita, come mi pare che Valeriano al di là di ogni dubbio dimostri, molto più che essere solo ricordata come la moglie di Franco Basaglia.

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