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ALTRO NULLA DA SEGNALARE

21 Ago 22

A cura di gilbertodipetta

 

“Avremo anche noi dei bei giorni”

Zehra Dogan, “Lettere dal carcere di Diyabark"

Il libro che stanotte, sulla branda del medico di guardia, mi fa compagnia, nell’attesa che il cicalino mi annunci l’epifania della follia in PS, è “Altro nulla da segnalare”, di Francesca Valente.  Diversamente dalla letteratura “manicomiale” (da “I tetti rossi, di Tumiati a “Per le antiche scale di Tobino) i “repartini” SPDC (istituiti precipitosamente dopo la chiusura degli OP e rimasti, incredibilmente, con lo stesso acronimo per tutti questi anni) sembra non abbiamo lasciato tracce “liriche” dietro di sé, se si eccettua qualcosa (di negativo) scritto da pazienti una volta “fuoriusciti”, e il recente "L'arte di legare le persone", del collega Paolo Milone, che diversi cori di protesta ha suscitato. Oggi gli SPDC (“l’ultima Thule”, li definiva De Martis, l'isola leggendaria di di fuoco e di ghiaccio dove il sole non tramonta mai) sono considerati gli emblemi della psichiatria retriva e violenta, il bersaglio “antipsichiatrico” per eccellenza. Salvo ricorrervi in maniera plebiscitaria turandosi il naso e voltando la faccia quando il drago della follia sputa fuoco e fiamme, senza riguardo per buoni e cattivi. “Altro nulla da segnalare” è un testo, dunque, oltre che unico nel suo genere, oltre che reperto “fossile” di un altro secolo,  scritto del tutto “a più mani” (l’Autrice e i suoi fantasmi), polisemico (e polifonico). La struttura del testo è costituita dalla trascrizione fedele degli scartafacci dei ruolini di consegna compilati dagli infermieri, nel testo riportati in caratteri ben distinti dal corpo delle pagine,  quasi da “Lettera 22”. Il materiale fu salvato dal macero degli archivi dal dott. Sorrentino, e portato all’Autrice con la sacralità proibita con cui il libro secondo della Poetica di Aristotele veniva tramandato tra i Domenicani. Il connettivo tra le vertebre e le ossa, invece, è dato dalla reverie dell’Autrice, Francesca Valente, tra le cui righe si legge tutto il pathos narrativo e vocativo dello psichiatra italo-americano Lucio Sorrentino, ex responsabile del repartino. I fatti si riferiscono ai primi anni Ottanta del Secolo scorso. La legge 180 è stata promulgata da poco (maggio 1978), ed anche Franco Basaglia, portata a termine la sua rivoluzione, ha purtroppo prematuramente già lasciato la scena (1980).




Come in una  piece teatrale dell’assurdo, in questo repartino “aperto”, la follia si esibisce in solitudine,   in notti e giorni uguali, come il clown di Starobinski, su un palcoscenico senza più spettatori, perché ciò che doveva accadere di importante è già accaduto (“consummatum est”): le mura di pietra erano crollate, quelle mentali sono in costruzione, “rimane la derisione”. Come a seguito dell’urto di un meteorite con la terra, qui i frammenti incandescenti, o la polvere di stelle, vengono fatti ritornare indietro dall’Autrice come in una moviola immaginaria. I “paz” che incontriamo tra queste pagine, protagonisti assoluti del libro, sono i pazienti dell’SPDC dell’Ospedale “Mauriziano” di Torino. I pazienti si chiamano “ospiti” ed hanno la facoltà di uscire e rientrare quando vogliono (oggi cosa assolutamente impensabile), portando con sé oggetti, bottiglie, coltelli, e varie, raccattati dal mondo, pertanto il tempo apparentemente fermo del repartino è in realtà scandito da un continuo sisma di colloqui tesi di descalation ante litteram o, alla peggio, di colluttazioni disperate. Gli interlocutori dei pazienti sono essenzialmente gli infermieri, talvolta (raramente) i medici, e la scrittura delle consegne è a metà tra un rapporto ed uno sfogo. La descrizione secca e naif dei comportamenti e degli atteggiamenti dei “paz” si mescola all’inventario degli oggetti rotti dagli stessi o dall’incuria e dallo squallore decadente dei luoghi deputati alla cura (e alla custodia) della follia.  Il testo ha vinto (cosa non ordinaria per uno scritto a tema psy) all’unanimità la XXIV edizione del premio Italo Calvino. Il dottor Sorrentino e l’infermiere Tornior, due che più di tutti “ci credono”, finiscono, alla Gericault, anch’essi nella galleria che la pennellata lirica dell’Autrice restituisce alla vita per sempre, tra i ritratti della follia. Entrambi, in fondo, incarnano la parabola discendente di un’illusione: Sorrentino si dimette quando scopre che il repartino aperto si va trasformando “di necessità” in luogo di contenzione, e Tornior sembra portare fuori dal reparto, come in una prolunga, l’ideale utopico di metamorfosi del mondo, tipico dei matti, purtroppo tragicamente stroncato da un accidentale colpo di fucile. Sullo sfondo brulica una Torino dall’ombelico torbido, nella quale questi minuscoli frammenti di esistenze turbinano, chiusi in un cono d’ombra e di luci policrome: è il caleidoscopio di un’Italia che vive la metamorfosi antropologica preconizzata da Pasolini (già andato anche lui) da una parte, da un’altra parte annaspa in una modernità che essa lambisce, tra le cariche dei Celerini e i rigurgiti rivoluzionari, senza mai però riuscire ad abitarla. In fondo la linea di demarcazione tra l’esterno e l’interno del repartino assomiglia alla strozzatura pervia di una clessidra di vetro, tra le cui ampolle le sabbie si mescolano. Quella follia che i singoli brucia come un fulmine caduto su un albero, nella prosa del mondo si spalma a guisa del sarcastico e tragico fatalismo di eventi annichilenti. Che cosa resta di tutto ciò? Que-rest’et il du notre amour? Gli psicofarmaci dai nomi di sempre (Valium, Largactil, Entumin) si ha l’impressione, qui, che vengano usati non come terapia, bensì esclusivamente come estintori della crisi, quasi on demand. La tolleranza nei confronti della follia degli operatori di allora, tutti di origine contadina, confrontata con quella degli operatori di oggi,  sembra una qualità marziana. E’ evidente che tutto il personale era di leva manicomiale (dove ne avevano vissute di ogni) e che il rapporto infermieri/pazienti era soverchiante per i primi (carica idealistica a parte). In un clima, tra l’altro, dove tutto era possibile, nel senso che la follia era data per scontata, al punto tale che nessuna meraviglia traspare dai ruolini di marcia. Le trascrizioni degli infermieri sono ispirate, senza consapevolezza, ad una minuziasa “jaspersiana fenomenologia della prima persona”. Dagli scartafacci delle cartelle cliniche, per converso, non si sarebbe tratto nulla, come da un limone secco. La nosografia, infatti, è un tipo di linguaggio non ulteriormente riducibile, soprattutto  dopo il consumato “genocidio della psicopatologia” (Stanghellini). Il linguaggio comune e concreto degli infermieri, invece, puntellato di frasi tipo  il cesso si è rotto, la luce manca, la stanza è piena di merda,  è un linguaggio concreto, l’unico che trattiene il mondo. E’ proprio nel rapportino mattutino degli infermieri, del tutto digiuni di psichiatria  che, in fondo, questi matti si giocano, a loro insaputa, l’ultima chance di danzare dionisiacamente con il mondo. In un momento come quello attuale in cui, a dispetto di tanta sofferta e sofferente domanda (adolescenti, tossici, dementi, autori di reato etc), i Servizi si chiudono tra l’ambulatorio territoriale e l’emergenza ospedaliera, e la disattenzione globale cala sulla più umana delle “malattie”, questo testo restituisce, sine ira et studio, il fremito di voli congelati dal tempo, la grinta di colori sbiaditi, la dodecafonia di melodie sommerse. Dentro questo testo si avverte, tutto, il retrogusto amaro di un sogno, quello di tenere aperto “ad oltranza” il dialogo con l’insensato, pur nella sua fase più eclatante, quella acuta. Gli SPDC di oggi, quaranta anni dopo, nel bene o nel male, sono gli ultimi eredi di quell’utopia. Chiudo il libro, l’ultima riga è quella della notte di Capodanno del 1982: “Altro nulla da segnalare”. Il cicalino squilla. I Carabinieri hanno riportato la seconda volta da oggi Raffaella, una madre bruna ed esile, convinta che la stanno avvelenando. Nel pomeriggio, incontrando gli occhi e i riccioli della sua bambina, avevo chiuso i miei occhi di psichiatra, ma ora scendo sapendo che non risalirò da solo, in un modo o nell’altro. E stanotte, comunque, oltre ai miei “paz”, mi sento già meno solo. Sto in compagnia di Petri, di Libera, del Calzolaio, di Danni, di Mirna, di Alma e degli altri, compresi i “compagni” Tornior e Sorrentino. Ed ho sentito, intriso di questa reverie, nel cicalino del telefono, al di là del trillo del delirio, lo stremato richiamo di incontro per il quale, nel bene e nel male, noi “portieri di notte” teniamo (quasi) sempre (ancora) aperta l’ultima porta.

 

 

Notte tra il 17/18 agosto 2022, SPDC PO S.Maria delle Grazie di Pozzuoli

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