Il “sonno della coscienza” (l’incapacità di cogliere, nel mondo esterno, inganni, pericoli e minacce) si manifesta esteriormente con apparenti ingenuità e ottusità; esso, in realtà, svolge una funzione difensiva a carattere patologico. Tale stato d’incoscienza pone l’individuo in una situazione di grave rischio. Tuttavia, se ne può uscire attraverso risvegli che possono essere traumatici e distruttivi (soprattutto quando l’individuo scopre che i danni prodotti dalla sua incoscienza sono irreparabili), oppure benefici, utilizzabili a scopo riparativo, soprattutto se avvengono sotto la protezione di un terapeuta.
Ritenendo che tale argomento sia più che mai d’attualità, ripropongo questo mio articolo, pubblicato nel 2009.
I – Il problema clinico in esame.
Un’improvvisa e inopinata esplosione di violenza, diretta verso sé e/o altri, che nulla poteva far prevedere: è questa un’eventualità piuttosto frequente, ben nota ai lettori degli articoli di cronaca. Quasi di regola, nella descrizione del fatto, viene riportato che si trattava di una persona ben adattata al proprio ambiente sociale, talora definita “socievole” e “mite”, altre volte “forte” e “decisionista”, in ogni caso “inadatta a far prevedere un gesto del genere”. Altrettanto spesso si segnala che il comportamento aggressivo è stato preceduto da un episodio di depressione. Se il paziente ha la fortuna di salvarsi e s’indaga sul recente disturbo dell’umore, spesso si scopre che esso era da intendersi come “segnale” del pericolo incombente; segnale che purtroppo è stato quasi di regola soppresso da cure antidepressive senza essere stato adeguatamente “decodificato” [11]. In alcuni pazienti in trattamento analitico da chi scrive è emerso il rapporto tra il comportamento violento ed il crollo di un atteggiamento affettivo rigido, quest’ultimo determinatosi a seguito di una situazione traumatica precoce. Il crollo consiste in una sorta di “risveglio” dal sonno della coscienza; sonno che, prodotto da un trauma antico, diviene a sua volta fattore di vulnerabilità a traumi successivi.
II – Il caso di Emilio
Riporto qui, con poche modificazioni, quanto già esposto altrove [10]: “Uomo riservato e cortese, apparentemente poco passionale, privo di grandi ideali o ambizioni, dotato di modeste capacità introspettive e di scarsa cultura, Emilio, allora trentacinquenne, si presentò alcuni anni fa nel mio studio chiedendomi aiuto per quella che risultò essere un’insidiosa e temibile tendenza autodistruttiva. In una serie di episodi egli aveva perso pericolosamente il controllo del proprio comportamento; le cose erano andate così: da quando aveva “messo la testa a posto” entrando nell’azienda commerciale paterna, Emilio sentiva il bisogno, di tanto in tanto, di evadere dal dovere e dal lavoro con “qualcosa di diverso”, ossia festini con prostitute, organizzati insieme ad un amico, in cui a volte si “sniffava” cocaina mentre i superalcolici non mancavano mai. Tutto senza problemi nella maggior parte dei casi, ma talora gli capitava d’esser preso, “come in un vortice”, da un’insaziabile voglia di bere, fino al punto di perdere quasi conoscenza. In alcune di queste occasioni, rincasando ancora ebbro in macchina, era andato incontro ad incidenti stradali nell’ultimo dei quali, particolarmente grave (aveva urtato frontalmente un palo a tutta velocità), si era salvato solo “grazie all’interessamento di qualche Santo”. La cosa l’aveva spaventato, ma, essendo egli poco incline a prendersi cura di sé stesso, e nutrendo la convinzione pessimistica che nessun aiuto avrebbe potuto giovargli, solo le insistenze del fratello maggiore (l’unico tra i familiari ad aver preso sul serio il suo problema) l’avevano convinto a venire da me. I primi colloqui furono dedicati, da parte di Emilio, a commentare la “stranezza” di quanto gli stava capitando. A dire il vero “bevute” c’erano sempre state in passato, tuttavia, prima d’iniziare l’attuale lavoro, esse erano perfettamente in linea col resto del suo comportamento: allora egli era uno “sbandato” che non era stato neppure capace di terminare gli studi; ora che, invece, il lavoro col padre aveva “messo ordine” nella sua vita, gli eccessi si erano paradossalmente intensificati e moltiplicati. Il paziente presentava ciascuna fase della sua esistenza come dominata da una o più persone, tutte di sesso maschile, da cui era stato influenzato nel bene come nel male. Ma che ci fosse stato del male sapeva dirlo solo a rapporto concluso: finché l’amico o il parente era la persona “in auge”, tutto gli pareva buono. – Al contrario, l’atteggiamento verso il sesso femminile era sfuggente: non era in grado di definire quel che provava per la madre e d’altra parte, con le altre donne, non aveva mai conosciuto esperienze sentimentali, solo rapporti sessuali mercenari.
Per il padre, di nuovo la figura dominante in quel momento (insieme al fratello maggiore), Emilio non aveva che parole di elogio, tuttavia comparvero ben presto grosse contraddizioni, di cui egli non si rendeva conto, nella descrizione che mi portava. Emerse che il genitore, incapace di accettare il trascorrere del tempo, continuava a trattare Emilio come fosse un bambino, non lasciandogli spazio nella direzione dell’azienda e continuando a monopolizzarla, con conseguenze disastrose. Quell’anziano commerciante, infatti, era rimasto all’oscuro delle nuove realtà del mercato, oltre che delle recenti normative che lo regolavano e, di carattere sospettoso e convinto della superiorità della propria esperienza, rifiutava di affidarsi a commercialisti o a consulenti di qualsiasi genere. L’azienda, perciò, stava andando piuttosto male e, per di più, le conseguenze di un eventuale fallimento sarebbero gravate sulle spalle del solo Emilio, essendo egli legalmente l’unico gestore dell’esercizio commerciale. Lo stesso egocentrismo paterno aveva sempre governato la vita familiare, essendo la madre incapace di opporvisi ed il fratello maggiore (di dodici anni più anziano del mio paziente) essendosi sempre isolato dagli altri parenti ed essendo presto andato ad abitare per proprio conto.
Dell’infanzia di Emilio, di cui egli non serba alcun ricordo, gli è stato riferito che il padre, assente per molti anni dalla vita familiare per motivi poco chiari (la sua attività; forse, per un certo periodo, guai con la legge) e privo di risorse economiche, aveva imposto alla madre un lavoro faticoso, che la portava via da casa per gran parte della giornata. Il paziente, allora di due anni, era affidato ogni giorno a parenti diversi, che spesso lo ospitavano malvolentieri, e talora era addirittura lasciato solo per ore ed ore. Ad una tale traumatica deprivazione affettiva, Emilio aveva subito opposto (e tuttora opponeva) la reazione emotiva tipica di questo genere di pazienti: l’incapacità di avvertire sentimenti di ribellione, un’idealizzazione quasi-delirante (priva di basi reali) del genitore persecutore (nel caso di Emilio, limitata al padre ed ai suoi sostituti), oltre che una dissociazione della coscienza sul tipo del “doublethink” orwelliano [13, pag. 27]: il paziente si rendeva perfettamente conto dei maltrattamenti subiti nel passato e nel presente, ma era come se, a dispetto di ogni logica, tale conoscenza non influenzasse minimamente la sua buona opinione del genitore ed i sentimenti positivi che gli pareva di avvertire per lui.
Quanto all’azienda, nel momento in cui iniziò il trattamento, Emilio era perfettamente consapevole di come stavano andando le cose, ma opporre qualche obiezione al padre gli pareva una “colpa” che non avrebbe mai potuto commettere. Si riuscì ad “ammorbidire” un poco l’obbedienza coattiva di Emilio alle figure maschili analizzandola nel rapporto transferale: risultò che sottomettersi ad un sostituto paterno, per quanto imperfetto o addirittura dispotico questi potesse essere, costituiva per lui fonte di sollievo, benché ciò costituisse una vera e propria “prigione interiore”. Come se si trattasse, comunque, di un “male minore”, essendo il “male maggiore” qualcosa che aveva a che vedere con la madre e le donne in generale e che non si riuscì a chiarire del tutto: con ogni probabilità, tendenze distruttive verso la genitrice che solo la sottomissione all’autorità paterna poteva tenere a freno. Divenne, viceversa, chiaro che le “bevute” irrefrenabili (divenute gradualmente più rare e seguite solo in un’occasione da un incidente stradale) comparivano in momenti significativi del rapporto col padre o di quello transferale col sottoscritto. Il grave incidente stradale che diede inizio al trattamento si colloca nel momento in cui la dissociazione difensiva della sua coscienza fu fortemente scossa, probabilmente quando Emilio, avendo subito severe sanzioni per scelte non sue riguardanti l’azienda, si trovò di fronte la più gelida e cinica indifferenza da parte del genitore. Fino a quando non incontrò la mia partecipazione emotiva a ciò che gli succedeva, il nesso tra le “bevute”, gli incidenti e le vicende della sua vita affettiva, era completamente sfuggito ad Emilio: ciò che egli aveva sempre avvertito era uno stato di tensione sconvolgente da cui il bere dava sollievo, così come l’orgasmo “scarica” il desiderio sessuale. [L’intera esperienza era definita da lui come una “tempesta” e questo termine, ricorrente nei suoi discorsi, fu per me e per il paziente il punto di partenza per la serie di riflessioni che riporterò più sotto] Finché lo spettacolo della sua autodistruzione con l’alcol (seguito talora da quello con l’automobile) era avvenuto di fronte a testimoni cinicamente indifferenti o complici, aveva prevalso un meccanismo asimbolico di “scarica” o “passaggio all’atto” [1] di un disagio avvertito come tensione priva della qualità di pensiero; meccanismo, con ogni probabilità, attivato dalla situazione traumatica originaria ed appartenente allo strato antico, “protomentale” o “preconcettuale”, della sua organizzazione emotiva [15]; nel momento in cui cominciarono a comparire testimoni empatici, capaci di una risposta riparativa (prima il fratello maggiore di Emilio, poi il sottoscritto), lo stesso abuso alcolico iniziò ad entrare a far parte della relazione divenendo esso, oltre che mezzo di “scarica”, anche, in misura crescente, strumento d’espressione e di comunicazione di significati emotivi e questo grazie all’attivazione di “strati” o forme d’organizzazione emotiva più evolute. Nel rapporto transferale, l’esibizione al sottoscritto e ad altri dell’attacco al proprio corpo si rivelò dotata di un significato ambiguo e plurideterminato: innanzi tutto, modo per comunicare il proprio asservimento all’oggetto arcaico persecutorio, autore dello “assassinio dell’anima” e/o la propria identificazione con l’oggetto stesso. Il corpo, infatti, con le sue caratteristiche costituzionali e istintuali, è la matrice dell’autentico sé di chi lo possiede; esso, quindi è depositario di quanto, potenzialmente o in atto, si oppone al sequestro del sé da parte di altri e quindi ciò che, in un’identificazione perversa col persecutore, tende ad essere attaccato. Lo stesso gesto, al tempo stesso, assumeva il significato di provocazione masochistica volta ad ottenere amore ed attenzione; ad ottenere, in particolare, un qualche segno della volontà di fermarlo e quindi del desiderio di tenerlo in vita e dell’affetto verso di lui. Sappiamo che, nelle vittime dello “assassinio dell’anima”, provocazioni masochistiche di questo tipo, di fronte ad un oggetto d’amore e dipendenza che rifiuta, possono ripetersi ed esasperarsi, potendosi spingere fino al suicidio. In questi casi, la coazione a ripetere è causata dall’attesa, talora delirante, che “questa volta” il genitore (o il suo sostituto) si rivelerà portatore di una salvezza “magica” [13, pag. 316].
Nel momento in cui scrivo, il trattamento di Emilio è ancora in corso; grazie soprattutto ad esso, le “bevute senza fine” sono cessate completamente da circa sei anni. D’altra parte, tutta la sua vita è profondamente mutata: crollata l’azienda paterna, deceduto il padre stesso, Emilio ha visto ridursi a zero le sue risorse economiche, ma ha retto molto bene sul piano emotivo: non si è perso d’animo, ha trovato un lavoro umile che tuttavia gli procura i mezzi di sussistenza ed anche, pur con una riduzione della frequenza delle sedute (e con sconti e crediti sull’onorario da parte mia), la possibilità di proseguire il trattamento. Si ha l’impressione che interventi direttivi del sottoscritto, regolarmente sollecitati da Emilio stesso, ed interventi sulla sfera corporea (presenti – come complemento psicofarmacoterapico, come accertamenti e come collaborazione con altri specialisti – per tutta la durata del suo trattamento) continuino ad essere fattori essenziali per il mantenimento del suo equilibrio emotivo. Tuttavia quanto di più strettamente analitico è stato possibile operare riguardo alle manifestazioni della sua autodistruttività, sembra abbia avuto sinora il potere di trasformare ciò che pareva un “Destino” infelice, inesorabile perché “forza impersonale senza volto, immagine o significato” [1], in “Moira” dalle sembianze umane e come tale inseribile nelle relazioni umane e correggibile tramite esse”. Questo fatto ha reso possibile al paziente un passaggio dal sonno della coscienza ad un “risveglio” questa volta terapeutico e sotto il controllo del suo io, e non più tempestoso e traumatico.
III – La “tempesta” e il “tempo”
Il termine “tempesta” (spesso usato da Emilio, come visto più sopra) ci porta, attraverso l’esame della sua etimologia ed il confronto con l’opera di due grandi Artisti, ad importanti suggerimenti utili per la comprensione ed il trattamento di questo tipo di paziente. Esso deriva dal latino “tempestas” che significa sia tempo “cronologico” (periodo, epoca, circostanza), sia “tempo atmosferico”, sia bufera. Tutti questi significati si ritrovano in due capolavori, il cui titolo è, appunto, “La Tempesta” rispettivamente di Giorgione e di Shakespeare. Vediamo, innanzi tutto, l’opera del pittore rinascimentale italiano.
Quel che, personalmente, mi colpisce del quadro è il contrasto fra il carattere cupo ed inquietante del paesaggio sullo sfondo e la serenità che, almeno di primo acchito, sembra emanare dai tre personaggi in primo piano. Due di essi sono rappresentati nelle loro rispettive attitudini, nettamente distinte, di tipo materno-femminile e paterno. La nudità della donna, il contatto con il corpo del bambino, comunicano ai sensi, prima ancora che alla mente, intimità e calore. L’osservatore si trova, pertanto, ad essere immediatamente coinvolto nella scena “anima e corpo”, prima ancora di averlo compreso o deciso consapevolmente. L’atteggiamento del corpo femminile, rilassato eppure proteso verso quello del piccolo, avvolgente, esprime sensibilità, prontezza a cogliere ogni possibile segno di disagio e di bisogno nel bambino. Colpisce, inoltre, l’espressione di mestizia del viso materno: l’Artista sembra, in questo modo, illustrare la caratteristica affettiva, tipica della puerpera, di “delicatezza” cioè di sensibilità estrema alle necessità del bambino, ma, al tempo stesso, d’estrema fragilità che esige protezione. L’uomo, pur irrigidito in un tipico atteggiamento da sentinella che sorveglia, pare, tuttavia, animato dalla tranquillità di chi, consapevole della sua forza, sa svolgere con sicurezza il proprio compito. Anche la distanza tra i due personaggi pare avere un suo senso: l’uomo, abbastanza vicino alla donna ed al bambino da poter vigilare sulla coppia, non lo è, tuttavia, al punto da arrecare disturbo con la propria presenza. L’uno e l’altra sono posti su due piani distinti; sono anche separati, in parte, da un corso d’acqua. Tuttavia, l’immagine del ponte sullo sfondo e la facile attraversabilità del ruscello nelle vicinanze dell’uomo, confermano la sensazione di un collegamento possibile fra i due mondi diversi. La serenità delle tre figure proviene, a mio avviso, dalla rappresentazione di un’armonia apparentemente totale fra la capacità paterna di dare protezione e quella materna d’offrire sensibilità e cure, insomma di una riuscita “integrazione” delle cure parentali. Ma l’immagine di nuvole minacciose sullo sfondo suggerisce una tempesta in arrivo e quella del lampo ci annuncia che, tra pochi istanti, un tuono turberà la pace del bambino. Di fronte a ciò, vorremmo mantenere la certezza che, con questi genitori, l’angoscia ed il disagio della tempesta potranno essere affrontati e vinti, eppure un sentimento di apprensione è inevitabile. Questo perchè non ci è chiaro se l’impressione che qualcosa sta per sconvolgere l’immobile tranquillità dei tre personaggi viene dall'esserci immedesimati del tutto nel bambino (con la sua incapacità di capire la reale dimensione delle cose) oppure derivi da un effettivo pericolo.
Proviamo, ora, ad immaginare il seguito della scena, ossia le possibili conseguenze dell’arrivo della tempesta. Nel migliore dei casi, i genitori sapranno limitare al minimo inevitabile il disagio del bambino: si produrrà una “frustrazione ottimale” del suo bisogno di conforto e protezione; frustrazione detta “ottimale” perché commisurata a quanto il piccolo è in grado di sopportare e soprattutto perché temperata, nelle sue conseguenze emotive, dalla comprensione empatica materna e paterna. Assistiamo, in questo caso, all’inizio di un processo di crescita: l’illusione di protezione e cure “perfette” da parte dei genitori è all’inizio appena scalfita e ridimensionata, non crolla; il bambino, grazie ad essa, mantiene la serenità necessaria per attuare gradualmente, passando attraverso una serie di successive frustrazioni ottimali, quella “interiorizzazione trasmutante” delle cure parentali che gli consentirà di acquisire adeguate “strutture autoprotettive autonome”, evolversi ed emanciparsi [9]. Seguendo quest’interpretazione, potremmo dire che l’Artista, ne “La tempesta”; ha colto il momento in cui la prima “frustrazione ottimale” pone fine alla quieta immobilità della “triade narcissique” [3]: l’illusione di atemporalità, necessaria al bambino nella primissima fase del suo sviluppo, sta per cessare di esistere e tra poco inizierà il fluire del tempo e con esso l’evoluzione e la crescita. “Tempesta”, “tempo” e positivo dischiudersi di possibilità future vengono qui a coincidere.
Vediamo, ora, l’eventualità più temibile, quella purtroppo verificatasi nell’infanzia di Emilio. In questo caso, l’arrivo della tempesta trova genitori incapaci di offrire la protezione e il conforto necessari, d’integrare armoniosamente le rispettive cure e, quel che è più grave, di alleviare le sofferenze del bambino con la loro comprensione empatica. Oppure trova un bambino costituzionalmente tanto fragile, che le cure parentali, per quanto attente, risultano relativamente inadeguate. Qui la tempesta non segna l’inizio di un sano processo di crescita, ma di una grave situazione traumatica. Ad essa, i pazienti come Emilio rispondono ricostituendo con un delirio o un “quasi-delirio” [13, pag. 302, 303] quell’illusione di cure parentali perfettamente affidabili che è andata brutalmente e irrimediabilmente perduta: essi operano sugli stessi genitori inadeguati (o attivamente persecutori) un’idealizzazione priva di basi reali, ossia non fondata su caratteristiche effettivamente favorevoli. Con essi (e i loro sostituti) si crea, così, un rapporto fondato sull’autoinganno e su una mal riposta fiducia che pone la coscienza dei pazienti in uno stato di “sonno”. Quando poi, in un’epoca successiva, un qualche avvenimento provoca nella stessa coscienza un “risveglio”, ecco che si scatena tardivamente quell’antica “tempesta” che il diniego della persecuzione e l’idealizzazione delirante avevano consentito di evitare. Qui la “tempesta” è portatrice di un “tempo” percepito che distrugge la vita affettiva, non offre alcuna possibilità di evoluzione e crescita e viene, pertanto, evitato e soggettivamente soppresso.
IV – La liberazione dalla “prigione interiore”
Passiamo ora a “La Tempesta” di Shakespeare [12].
La vicenda di questo tipico “romance” inizia in modo apparentemente drammatico, con la bufera che porta al naufragio la nave dove viaggiano il re di Napoli Alonso e la sua corte, insieme al fratello Sebastiano, al figlio Ferdinando ed al duca (usurpatore) di Milano Antonio. Subito, però, nella scena successiva, apprendiamo da un dialogo fra Prospero (signore dell’isola presso cui è avvenuto il naufragio) con la figlia Miranda, che la tempesta è stata un’innocua opera della sua magia, che nessuno dei naufraghi ha sofferto alcun danno e che persino la nave è rimasta intatta. Prospero è il legittimo duca di Milano, allontanato con la figlia dai suoi domini per gli intrighi del fratello usurpatore Antonio, complice il re Alonso, ed approdato dopo un naufragio (un’altra tempesta) all’isola dove si svolge l’azione. Nello stesso dialogo, egli rivela a Miranda, dopo tanti anni di silenzio, i motivi della loro presenza sull’isola; al momento di quegli avvenimenti, infatti, la figlia era troppo piccola per poter ricordare. Emerge che Prospero, immerso nei suoi studi, delegò interamente al fratello il governo del ducato; egli prestò il fianco al tradimento di Antonio grazie alla stessa fiducia morbosa verso il fratello, che riconosciamo in Emilio nei confronti del padre:
“…and my trust / Like a good parent, did beget of him / A falsehood in its contrary, as great / As my trust was; which had indeed no limit / A confidence sans bound…” [e la fiducia ch’io gli diedi – come accade a buon padre – in lui generò, per converso, falsità, così grande quanto era stato il credito, che invero non aveva alcun confine, una fiducia senza limiti 12, I, ii, vv 93 – 97, pag. 18 – 20].
Questo “credito sconfinato”, disancorato da ogni valutazione realistica, questa “fiducia senza limiti” descrivono l’idealizzazione estrema, assoluta, priva di basi reali, tipica di queste persone; fiducia che, proprio perché “cieca”, sembra produrre o favorire nell’altro “falsità” anziché lealtà e riconoscenza. L’influenza malvagia di Antonio invase progressivamente lo stato di Milano quanto la vita di Prospero:
“… now he was / The ivy which had hid my princely trunk / And sucked my verdure out on it…” [e fu ben presto come un’edera che ricoperse il mio tronco principesco, succhiandone il vigore 12, I, ii, vv 85 – 87, pag. 18 – 20)
Queste parole condensano più di un significato: alludendo agli eventi esterni, esse ci spiegano come gli intrighi di Antonio portarono ad una progressiva perdita di vigore del potere di Prospero, così come un’edera che ricopre il tronco di un albero gli toglie vitalità. Esse stesse, tuttavia, come è stato suggerito [16, pag. 446], descrivono anche un fatto avvenuto nel mondo interno del protagonista: la cieca dipendenza dal fratello, come un parassita, finì per intaccare gli altri suoi ruoli e la stessa sua identità di principe. Nella storia di Emilio, specie negli anni dell’adolescenza e della prima giovinezza, assistiamo ad alcuni tentativi, tutti falliti sul nascere, di acquisire un’identità separata dal padre, appoggiandosi a modelli maschili alternativi. Ma anche qui l’antica dipendenza dal genitore, come un’edera intorno al tronco della sua vita soggettiva, soffocò progressivamente ogni slancio giovanile volto a crearsi una propria esistenza.
Nell’opera shakespeariana di cui stiamo parlando (a differenza di quanto possiamo supporre circa gli sviluppi successivi della “Tempesta” del Giorgione, o constatare nella storia di Emilio) Prospero, dopo il tradimento del fratello, non presenta un vero risveglio “traumatico” dal sonno della sua coscienza; ossia un risveglio capace di sprigionare una violenza incontrollata e primitiva. Al contrario, egli si apparta per alcuni anni sull’isola insieme alla figlia e ai due “schiavi” Ariel e Caliban, rifugiandosi nella “magia” (un delirio con funzione auto-protettiva?); dopodichè questo personaggio riesce ad uscire nel modo più sano dalla “prigione interiore” della sua dipendenza patologica, aiutando anche gli altri a fare altrettanto con la loro prigione. Questo tipo di sviluppo differenzia nettamente “La Tempesta” dalle opere precedenti dell’Artista.
Il tema del “sonno della coscienza”, infatti, della fiducia mal riposta e del tradimento da parte delle persone che ne furono l’oggetto, attraversa gran parte della produzione shakespeariana. Basti pensare al “sonno” (qui con valore simbolico) da cui Amleto padre fu risvegliato dal tradimento del fratello, come pure alla visione ingenua del mondo propria del figlio omonimo, il risveglio dalla quale lo portò ad uno stato disforico post-traumatico e a numerose manifestazioni esplosive di violenza [8, pag. 239 e seg.]; oppure al doloroso risveglio di Lear dallo “idillio” ch’egli credeva esistere con le prime due figlie; o anche alla cieca fiducia riposta da Otello nello “onesto” Iago. Passando in rassegna tutti questi casi ed altri ancora, possiamo individuare alcuni tipici atteggiamenti affettivi rigidi, nati presumibilmente da situazioni traumatiche precoci, che costituiscono una sorta di “prigione” capace di limitare considerevolmente la libertà interiore dell’individuo, ponendo la sua coscienza in uno stato di sonno; da questo, specifici eventi esterni possono produrre un “risveglio traumatico” a carattere tempestoso e spesso violento. Tutto questo riguarda non solo le vittime, ma anche gli autori di tradimenti e usurpazioni. Schematizzando, possiamo individuare tre tipi di “prigione interiore”:
1. L’idealizzazione (quasi)delirante, priva di basi reali, delle persone amate (Amleto padre e figlio, Lear, Otello, Prospero): si manifesta clinicamente con un “Disturbo Dipendente di Personalità” (quello di Emilio) e/o con vari tipi di “addiction”, cui Emilio non è immune.
2. L’identificazione con l’aggressore (Iago, Don John, Riccardo III): si traduce in sadismo, pedofilia e vari tipi di comportamento criminale.
3. Il “sé grandioso patologico” alla ricerca insaziabile di conferme (Riccardo II, MacBeth): lo troviamo nella personalità “all or nothing type”, propria di molti leader, che crolla appena viene a mancare il sostegno esterno alla propria grandiosità [7]; a questo tipo, con ogni probabilità, appartiene il padre di Emilio, con la sua incapacità di accettare il declino della vecchiaia ed il crollo psico-fisico che, di fronte ai segni inequivocabili del suo fallimento, lo portò alla morte.
Su tutti questi temi, che Shakespeare rielaborò più volte nel corso della sua vita, l’Artista ritornò ne “La Tempesta”, l’ultima opera scritta interamente di proprio pugno. In precedenza era prevalsa la descrizione della violenza che si sprigiona di fronte all’urto dei personaggi, ciascuno con la sua “prigione interiore”, ed il “risveglio traumatico” di uno o più di essi che ne consegue; qui, invece, è in primo piano un processo riparativo che porta ciascuno ad emanciparsi ed a riappropriarsi di sé stesso.
L’aver posto una tempesta all’inizio della vicenda non è un puro e semplice modo per giustificare la presenza di Alonso, Antonio e degli altri sull’isola ed il loro soggiacere al potere magico di Prospero. La “tempesta” è, innanzi tutto, il fatto traumatico per eccellenza. Dice, Prospero, commentando quanto accaduto ai naufraghi durante la bufera:
“Who was so firm, so constant, that this coil / Would not infect his reason?…” [Chi poteva mai essere così fermo e così forte che la sua ragione, in mezzo al putiferio, ne rimanesse illesa? 12, I, ii, vv 206, 207, pag. 28]
All’inizio della vicenda, tutti i personaggi (Prospero e Miranda compresi) sono, quindi, passati attraverso l’esperienza di una tempesta, di un “coil” (tumulto, putiferio, confusione) capace di sconvolgere anche la ragione più ferma e forte. Il vissuto cui qui si allude rimanda ad un’esperienza traumatizzante antica: una sovrastimolazione precoce che infranse la “barriera agli stimoli” (“too-muchness”) e minacciò la dissoluzione dell’io [13, pag. 131]. A seguito di essa ciascuno salvò, come potè, la propria vita soggettiva (il proprio sé) dal completo collasso; chi aggrappandosi all’immagine di un “oggetto arcaico onnipotente” da cui dipendere (come Prospero e il nostro Emilio, prima del “risveglio”), chi a quella di un onnipotente “sé grandioso” immune da qualsiasi sconvolgimento o rimorso (come Antonio, il suo complice Alonso, Sebastiano e come il padre di Emilio). Si tratta delle due configurazioni narcisistiche fondamentali, fissate ad un livello arcaico della loro evoluzione e rese rigide, anomale (e fortemente limitanti la libertà interiore) dall’essere frutto di una elaborazione difensiva contro le conseguenze del trauma. Grazie all’arte magica di Prospero (e alla magia dell’Arte di Shakespeare), modi di essere apparentemente così distanti, come quello della vittima e dell’usurpatore, si trovano, così, accomunati dall’essere tutti “prigioni interiori” frutto di una “tempesta” antica. Tra loro, perciò, iniziano ad essere gettate le basi di una possibile comprensione empatica.
Non è soltanto la ragione ad essere sconvolta dalle minacce della tempesta; dice il Nostromo ai nobili della corte di Alonso che stanno intralciando i suoi sforzi di salvare la nave dalla furia delle onde:
“Hence! What cares/ these roarers for the name of King?” [Via di qui! Cosa volete che queste ‘ruggitrici’ (le onde) se ne facciano del titolo di Re? 12, I, i, vv 16, 17 pag. 6]
La “tempesta” significa, essenzialmente, impatto con una realtà troppo forte per essere negata. Essa mette in crisi ogni convenzione umana e con essa l’inganno o l’autoinganno che possono averla creata. La prima, grossa “tempesta” cui andò incontro Emilio (la “bevuta senza fine” ed il grave incidente che lo convinsero a venire da me) ebbe anche questa funzione. Fu una sorta di pericolosa “terapia d’urto” auto-somministrata che scosse fortemente la sicurezza del “ragazzo che aveva finalmente messo la testa a posto” mettendosi alle dipendenze del “saggio padre”: dopo l’incidente era chiaro che qualcosa non stava funzionando per nulla nel suo sistema di vita.
Tra la cacciata di Prospero da Milano e la tempesta che assale i suoi nemici, sembra che per questi ultimi il tempo si sia come fermato; nessun evento saliente, nessun segno di evoluzione avvenuta nel frattempo: Antonio continua a dichiararsi privo di scrupoli, così come lo era stato usurpando il potere del fratello, Sebastiano si rivela prigioniero della stessa, immobile posizione soggettiva, come pure Alonso, in cui segni di cambiamento interiore compaiono solo in occasione della presunta scomparsa del figlio Ferdinando. Allo stesso modo, Prospero prima della sua “tempesta”, prigioniero della patologica fiducia nel fratello e come al di fuori del succedersi degli eventi, rimase ignaro dei maneggi che portarono Antonio alla conquista del potere. Troviamo, qui, una notevole rassomiglianza con il comportamento di Emilio prima del suo “risveglio”: pur consapevole degli sviluppi negativi che il padre stava producendo nell’azienda, tuttavia continuava, grazie alla scissione della coscienza e al “doublethink”, a credere nella saggezza e nell’infallibilità del genitore, come quando era bambino; era come se il tempo per lui non fosse trascorso, non producendo alcun accumulo di esperienza. È tipico degli stati post-traumatici (anche di quelli successivi a traumi antichi) il prodursi di un arresto del tempo soggettivo. In questi casi, la consapevolezza del passaggio del tempo (risvegliata, ad esempio, da festività e ricorrenze) evoca la possibilità di cambiamenti, separazioni e perdite a carattere traumatico ed è causa di tale malessere che il tempo stesso viene attaccato e disconosciuto [14, pag. 1352]. Il predominio delle conseguenze inconsce della situazione traumatica, inoltre, riduce la capacità di nuovi investimenti significativi e, con essi la creazione di nuove esperienze che potrebbero arricchire la durata del tempo vissuto [6, pag. 300]. Questi casi sembrano suggerire che il fluire del tempo possa essere emotivamente accettato solo se scandito dai cambiamenti apportati da rapporti affettivamente validi; ossia rapporti capaci di evolversi e far evolvere. Viceversa la “prigione interiore”, in cui vivono i personaggi de “La Tempesta” ed il nostro Emilio, li costringe a rapporti rigidi, immutabili, inadatti a promuovere crescita ed arricchimento interiore; il tempo, qui, è solo un nemico apportatore di perdite irrimediabili.
Da quanto sopra detto, si può comprendere più facilmente come, a seguito dell’opera riparatrice di Prospero sugli altri personaggi e su sé stesso, procedano di pari passo ripristino del fluire del tempo e liberazione dalla “prigione interiore”. “La Tempesta” è caratterizzata dal passaggio del tempo più di qualsiasi altra opera shakespeariana, come attestato da una lunga serie di allusioni a momenti “giusti” (colti o mancati) per compiere una specifica azione, che altrimenti non potrà più essere compiuta [2, pag. 178]. Parallelamente, il tema della “liberazione” si diffonde su tutti i personaggi fino alla scena finale della “agnizione” e continua nell’Epilogo [2, pag. 179]. L’immobilità dei personaggi, ciascuno immerso nel sonno della sua “prigione interiore”, è cessata; le cose non sono più ferme in un momento immutabile, quello del trauma o di una sua elaborazione difensiva, ma hanno ricominciato a divenire. È questa una delle caratteristiche che distingue i “risvegli” benefici, provocati da Prospero negli altri e in sé stesso, da quelli traumatici: il tempo percepito non è solo una conseguenza della liberazione dalla “prigione interiore”, ma scandisce anche i momenti in cui essa avviene; vale a dire attraverso varie tappe e non tutta in un istante. La prima tappa della liberazione (parziale) di Emilio dalla sua rigida posizione emotiva fu la graduale acquisizione di una vera capacità di appoggiarsi al suo terapeuta. Per lui, all’inizio, era più facile e spontaneo trasporre sul sottoscritto la stessa cieca (e inautentica) fiducia che nutriva nei confronti del padre, scotomizzando ogni motivo d’insoddisfazione. Occorse circa un anno di costante disponibilità, puntualità e continuo sforzo a mettermi nei suoi panni per far sì che Emilio, parallelamente allo sviluppo di una vera confidenza con me, iniziasse a percepire i miei difetti. Le “frustrazioni ottimali” che ne derivarono scandirono le tappe successive: esse misero finalmente in moto un processo evolutivo ed il nostro rapporto cominciò ad avere una sua storia.
Analoghe “frustrazioni ottimali” delle istanze difensive caratterizzano anche i “risvegli” dalla loro rigida posizione emotiva dei personaggi de “La Tempesta”. Essi passano attraverso rappresentazioni simboliche di tipo teatrale (“ludico” ed innocuo) di ciò che il “sonno” della coscienza tendeva a negare: rispettivamente la colpa per i “three men of sin” Antonio, Alonso e Sebastiano e la reale natura degli usurpatori per Prospero. Questi, infatti, completa il proprio “risveglio” dall’idealizzazione del fratello ponendo la propria magia al servizio della rappresentazione teatrale, penetrando tramite questa nell’animo del traditore e forgiandosi di lui un’immagine realistica. L’impatto degli eventi sulla sensibilità dei personaggi è calibrato dalla capacità di comprensione empatica di Prospero, regista, oltre che protagonista, dell’intera vicenda; è principalmente questo fatto che fa sì che i risvegli risultino benefici e non traumatici. Prospero si rivela “padre” o terapeuta affidabile cui è possibile comunicare, osservandoli, i propri sentimenti e la propria disperazione in un ambiente sicuro e protettivo [4, pag. 1241]
Il risultato ultimo di quanto accade ne “La Tempesta” è ben espresso da Gonzalo, l’uomo più saggio ed onesto della corte di Alonso. Egli osserva come il viaggio da Tunisi all’isola, dove si svolge l’azione, in un colpo solo procurò coniugi ai figli di Alonso, restituì a Prospero il suo ducato e, così aggiunge:
“all of us ourselves / When no man was his own” […e a noi, tutti, noi stessi, che più non eravamo nostro possesso 12,V, i vv 212, 213, pag. 200]
Quanto, nella vita soggettiva di ciascuno, era stato “sequestrato” ed occupato dall’influenza dei traumi antichi e dalle elaborazioni difensive che ne seguirono è ora restituito alla persona; ognuno “si riappropria” di sé stesso.
Se ora ci chiediamo quanto di tutto questo si sia verificato nella storia di Emilio, dobbiamo ammettere che il “risveglio” e la “riappropriazione” di sé, nel suo caso, sono stati solo parziali: egli non si è mai liberato dalla necessità di appoggiarsi a qualcuno (attualmente il fratello, un amico e il sottoscritto) e dipenderne come un bambino fa coi genitori. È pur vero che egli, ora, ha acquisito una maggiore capacità di scegliere liberamente gli oggetti di dipendenza e, a differenza del passato, ricava da essi un effettivo beneficio, anche in termini di arricchimento interiore. Tuttavia il “sonno” della sua coscienza continua in parte a persistere: Emilio tuttora crede che il sottoscritto e gli altri da cui dipende siano in grado di dargli di più di quanto egli può dare a sé stesso. Attribuisco tutto ciò all’impossibilità di spingere fino in fondo l’analisi del nostro paziente; in particolare alle probabili tendenze ostili verso la figura materna per tenere a freno le quali egli si sottomette all’autorità paterna. Una domanda, però, s’impone: è, in generale, possibile liberarsi del tutto del sonno della coscienza? Prospero, a dispetto dei benefici “risvegli” di cui egli stesso è stato autore, sembra negarlo:
“…We are such stuff / As dreams are made on; and our little life / Is rounded with a sleep…” [La materia di cui siamo, è come quella di cui son fatti i sogni, e di sonno è avvolto il nostro breve esistere 12, IV, i, pag. 166, vv 157, 158]
Prospero intende, qui, suggerirci che liberarci del tutto del “sonno di cui è avvolto il nostro breve esistere” non è pensabile, che ciò porterebbe, forse, ad un crollo della vita soggettiva di ciascuno? È possibile, ma non è escluso che il suo messaggio contenga anche qualcosa di meno pessimistico: egli, in realtà, ha promosso, in sé stesso e negli altri personaggi, il “risveglio” da alcune convinzioni completamente ingannevoli. Esistono, tuttavia, altre illusioni, capaci di evolversi e di portare ad un arricchimento interiore: ad esempio quelle create dall’Arte, di cui Prospero stesso aveva parlato poco prima. Queste, pur nella precarietà propria di ogni illusione, costituiscono la “materia” di cui è fatta la nostra vita: in quanto specchio della realtà interiore, sono portatrici delle “verità” che più debbono interessarci. Tramite gli aspetti riparativi che esse contengono, infatti, è possibile preservare qualcosa della grandiosità originaria (anteriore alle più antiche esperienze traumatiche di ciascuno) e, tramite ciò, rendere pensabili gli eventi sconvolgenti da cui questa stessa grandiosità venne distrutta. Solo tramite illusioni come quelle artistiche, quindi, possiamo mantenere, o ripristinare, la nostra continuità interiore. Credo, a questo proposito, che un risultato importante del trattamento di Emilio, sia stato il risveglio di un interesse per una forma d’Arte, nel suo caso la narrativa di cui, stimolato da alcune discussioni fatte in seduta, è divenuto un appassionato lettore. Si tratta soprattutto dell’opera di Dickens, nelle cui vicende di bambini abbandonati Emilio riconosce molto di sé stesso e della sua storia, traendone stimolo per vedere più chiaro nel proprio mondo interno e raccontarsi. Sembra che questo tipo di “illusione” (i fatti immaginari narrati, con le riflessioni che essi stimolano e che leniscono le sue sofferenze) abbia in parte preso il posto di un’altra “illusione” che aveva soffocato sul nascere le sue capacità introspettive e che aveva prodotto in lui un sollievo del tutto ingannevole: quella di disporre di un genitore “onnipotente” capace di “mettergli la testa a posto” senza che egli avesse avuto altro da fare che sottomettersi. In altri termini: un importante e fecondo “rapporto d’oggetto-sé”, la cultura, ha in parte sostituito una forma di “addiction”, di schiavitù interiore, per lui del tutto dannosa.
V – Osservazioni conclusive
L’alexitimia, l’incapacità di entrare in contatto con le proprie autentiche emozioni, rappresenta un aspetto comune ai sopravvissuti ai traumi psichici [5, pag. 618]. Si tenga conto, per inciso, che per Emilio non si tratta soltanto dei traumi antichi, ma anche di quelli più recenti cui il suo “Disturbo Dipendente di Personalità” l’ha esposto in più riprese [ibidem]. È l’alexitimia il motivo per cui, quando questi pazienti tentano per la prima volta di descrivere le loro più intime sofferenze, le loro comunicazioni appaiono povere, “incolori” e, di conseguenza, essi sono spesso giudicati “non adatti alla psicoterapia” (come se questo autorizzasse i curanti ad ignorare il loro mondo soggettivo) oppure, tutt’al più, idonei ad una superficiale “psicoterapia di sostegno”, come se il loro mondo interno non conoscesse profondità. Per questo stesso tipo di comunicazione, poi, le sofferenze di costoro tendono ad essere giudicate “non gravi”, tali da non richiedere trattamenti impegnativi, per cui “non vale la pena di disturbare lo specialista”. Occorre tener conto di un fatto di estrema importanza: non necessariamente i primi segnali di crisi di un modo d’essere anche altamente patologico e potenzialmente “esplosivo” (come quello di Emilio), si esprime con un’urgenza psichiatrica; esso può tradursi anche in una lamentela apparentemente di poco conto, che, quindi, non è lecito definire a priori come “banale”. Poco prima della “tempesta” che lo portò da me, Emilio aveva sofferto di un “banale” episodio ansioso-depressivo, diagnosticato come tale senza ulteriori approfondimenti e trattato con una terapia psicofarmacologica antidepressiva; terapia che aveva tenuto conto solo del sintomo e dell’alterazione dei mediatori chimici che ne era alla base, senza alcun tentativo di “decodificare” la depressione quale segnale del pericolo incombente. Il mondo soggettivo del paziente, al contrario, era stato del tutto ignorato. È questo, in assoluto, il primo errore da evitare.
Come procedere, quindi, con questi pazienti, le cui comunicazioni verbali non sanno andare al di là della superficie? Il primo, difficile passo, come s’è visto, consiste nel guadagnarsi una vera fiducia da parte del paziente. Queste persone, chiuse nella loro “prigione interiore”, non hanno mai conosciuto un autentico rapporto d’aiuto, soprattutto per quanto riguarda il loro mondo soggettivo; per loro, come è successo con Emilio, è più facile idealizzare il terapeuta e nutrire per lui una sorta di “fede” anziché una vera fiducia fondata su fatti reali e aspettative realistiche. Quest’ultima può essere conquistata solo attraverso una paziente e costante disponibilità, puntualità ed un continuo sforzo a comprendere empaticamente quanto viene comunicato, evitando qualsiasi intervento che possa apparire intrusivo o moralistico. Nell’assenza di comunicazioni verbali significative, è importante prestare la massima attenzione ai vissuti ed ai fenomeni corporei: spesso fenomeni neurovegetativi (rossore, pallore, sudorazione, tachicardia, ecc.) prendono il posto di importanti emozioni di cui il paziente non è (o non è mai stato) consapevole [11]. Altrettanto importanti sono gli “agiti”: nel caso di Emilio, solo una lunga e paziente “immersione empatica” nel suo mondo soggettivo portò alla trasformazione dei più pericolosi “passaggi all’atto” con funzione di semplice scarica delle tensioni e privi di significato simbolico [1] in “acting out” significativi legati alle vicende del rapporto transferale e solo dopo molto tempo in “pensieri-azioni” [9] capaci di alimentare lo “insight”.
Si tratta di un lavoro difficile, che mette a dura prova il “narcisismo terapeutico” del curante poiché implica la rinuncia a risultati clamorosi ottenuti in tempi brevi, senza grandi sforzi (quali quelli ottenuti con interventi psicofarmacologici “puri”); risultati, tuttavia, ingannevoli. Viceversa, obbiettivi raggiunti con un lungo lavoro, spesso parziali, si rivelano, in compenso, autentici e capaci di prevenire le conseguenze più pericolose dei “risvegli traumatici”. È uno sforzo che vale la pena di fare, data la crescente diffusione dei disturbi su base postraumatico-alexitimica; essi rappresentano la patologia emergente più diffusa e forse più pericolosa dei nostri tempi.
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