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L’intersoggettività, un enigma

14 Dic 22

A cura di antonello.sciacchi16

L’intersoggettività, un enigma
di Pier Aldo Rovatti
 
Con il consenso dell’autore, riporto il testo dell’articolo di apertura del numero 395, settembre 2022, della rivista “aut aut”, dedicato al tema dell’“Altro che è in noi”, perché tratta del soggetto collettivo, del “noi”, come questa rubrica. Tra parentesi quadre ho introdotto dei titoli che suddividono il testo in paragrafi e ne facilitano la lettura. In coda poche mie considerazioni, più formali che sostanziali, sul terreno teorico in cui il testo riportato nasce.
 
[In noi c’è dell’Altro]
“L’Altro che è in noi” è un titolo che può sembrare di facile lettura, ma non lo è. Nel lavoro dei Cantieri e dei Laboratori [della Scuola di Filosofia di Trieste] cercheremo di analizzare molte facce di tale questione, perché non è una faccenda semplice. La cosa meno semplice da capire, in fondo, è quella che sembra non fare problema: è quel “noi” finale. Perché, se una frase del genere l’avesse scritta Edmund Husserl – e in certo senso l’ha scritta – avrebbe detto “l’altro che è in me”. Dicendo “in noi” ci capiamo, ed è abbastanza intuitivo pensare che stiamo dicendo “in ciascuno di noi”. Ma, al tempo stesso, lasciamo una scia di problemi molto significativa: quella di poter avere qualche idea sulla questione del noi, che oggi credo sia una delle questioni più spinose, più delicate e anche, in un certo senso, più confuse. Ha a che fare, evidentemente, con il mondo della socialità in cui a vari livelli ci troviamo.

In un primo momento avevamo pensato che il titolo generale della Scuola dovesse essere accompagnato da un sottotitolo, che recitava cosi: “Soggetti e istituzioni”. Nel mio Cantiere ho messo invece la parola “intersoggettività”, che rimanda al mondo filosofico della fenomenologia. Cercherò quindi di sviluppare la questione dell’intersoggettività intesa come enigma: non solo come qualcosa che non conosciamo, ma che sarebbe pretenzioso e illusorio conoscere davvero. In Enzo Paci, che è stato il mio maestro, questa parola ha corrisposto a una positività, a una comprensibilità. Credo invece che questa parola sia un punto interrogativo che dobbiamo porci.   
 
[Basaglia riprende da Husserl l’enigma della soggettività]
Vorrei partire con un piccolo ponte tra quello che abbiamo cercato di dire l’anno scorso intorno a Franco Basaglia, intorno a quel “Ripensare Basaglia”, che era il titolo dell’edizione passata, e il titolo di quest’anno. Non vorrei fare questo collegamento in modo generico, ma in modo molto specifico. Comincerò da qualche riga di Basaglia, l’incipit di un testo del 1965 che si intitola Corpo, sguardo e silenzio, uno dei suoi testi più noti, di cui abbiamo parlato l’anno scorso. È un testo continuamente citato dai commentatori, perché contiene cose molto significative sulla questione già annunciata nel titolo. Ha anche un sottotitolo che comporta l’entrata in scena della parola “enigma”: “L’enigma della soggettività in psichiatria”.

Non parliamo subito di psichiatria, ma di questo enigma che possiamo definire come enigma della soggettività. Lo chiama così Basaglia, prelevandolo proprio dalla fenomenologia e da Husserl, il quale si esprime con la parola tedesca Rätsel, che vuol dire appunto enigma. Ecco allora l’inizio di questo testo; sono poche righe, prese dall’opera più nota di Edmund Husserl, in qualche misura la sua opera maggiore, La crisi delle scienze europee, che risale alla metà degli anni Trenta, quindi alla fine della sua opera filosofica. Il passaggio che Basaglia ricorda con tre puntini di sospensione all’inizio e alla fine citazione è questo: “Alla problematica che è propria della psicologia, non soltanto ai giorni nostri ma da secoli, alla crisi che le è peculiare, occorre riconoscere un significato centrale. Essa rivela un enigma del mondo di un genere completamente estraneo alle epoche passate. L’enigma della soggettività”.[1]

Voglio cominciare da questa citazione proprio per far vedere come uno dei testi principali di Basaglia cominciava da una citazione della Crisi di Husserl. È curioso, e io stesso, quando l’ho riletto, non me lo ricordavo. Quindi doveva aver ben presente la questione, al punto che nelle prime pagine di questo testo entrano in scena anche altre posizioni filosofiche: Merleau-Ponty, e soprattutto Sartre, ma fondamentalmente come appoggio al senso di punto interrogativo sulla parola soggettività. Il soggetto è una cosa enigmatica; dove voleva arrivare Basaglia, dopo aver messo in evidenza, in riferimento a Merleau-Ponty, la bipolarità del corpo (la parola “corpo” entra subito in scena in questa faccenda), e dopo essersi riferito anche a Sartre, che pure introduce un’impenetrabilità del corpo stesso e una sua opacità?
 
[La passività è simmetrica all’alterità]
La parola più giusta la dice ovviamente anche Husserl e poi la ripete di continuo quando si passa attraverso questa strada: è la parola “passività”. Pensate soltanto alla situazione attuale, in cui stiamo gridando “libertà” nelle piazze, e questa libertà è una libertà individuale, che ha alle spalle la convinzione che della soggettività possiamo fare quel che vogliamo. C’è invece un problema di opacità che ha a che fare con il corpo e con una sorta di contraddizione, messa in contatto, in contestazione tra passività e libertà. Siamo poco abituati a pensare che la libertà sia qualcosa che ha a che fare con la passività; ma vediamo dove arriva questo testo di Basaglia, perché è molto interessante. Si parla ovviamente anche di “alterità”, quindi entra in scena quell’“altro”, che fa da titolo alla nostra Scuola di quest’anno.
 
[Nella soggettività c’è un intervallo topologico]
Secondo Basaglia, che ha preso spunto dalla fenomenologia e dagli autori che ho nominato, questa alterità comporta la costruzione di un intervallo. Se non vogliamo cancellare subito la questione dell’enigma come problema, dobbiamo mettere in campo la tematica [topologica] dell’intervallo. C’è qualche tipo di rilancio filosofico? Sì, certamente, ma non importa che questo intervallo lo intendiamo come un’applicazione, una pratica dell’epoché, quella sospensione di giudizio di cui parla Husserl. Sta di fatto che ci vuole un intervallo, che ha evidentemente a che fare con lo sguardo e il silenzio. Ci vuole uno sguardo e ci vuole un silenzio, che è ciò che permette allo sguardo di non essere immediatamente quello che afferra il proprio oggetto o lo ingloba. Permette cioè di prendere una distanza, un intervallo [topologico, appunto].

La chiusura di questa mia breve incursione potrebbe essere quella che ricavo proprio dal testo di Basaglia: che l’alterità, come costruzione dell’intervallo, si oppone, è proprio dall’altra parte rispetto a quella che chiama l’“alienità”. Siamo in un mondo psichiatrico: potremmo anche leggere nella parola “alienità” non solo l’alieno, ma l’alienazione, se volessimo allargare la prospettiva. Credo allora che Basaglia, in questo testo che ho preso per la sua funzione di ponte, ci indica quella che è una rivalutazione del pensiero critico – ed ecco la continuità che vedrei nella Scuola di quest’anno. Il fatto che l’altro, l’altro che è in me, che è in te, che è in noi, può essere letto innanzitutto come qualcosa che è o un dentro o un fuori. L’altro dentro di noi, l’altro fuori di noi.
 
[Dentro e fuori come aperto e chiuso]
Sto toccando una questione che si ripercuote anche nella fenomenologia stessa; non c’è chiarezza riguardo a questa opposizione tra fuori e dentro, se questo altro è dentro di noi, se questa passività è la nostra passività, se questa “estraneità” – un’altra parola chiave – è la nostra estraneità ed è qualcosa che ha a che fare con noi, con lo sguardo rispetto a noi stessi, che è lo sguardo della fenomenologia, oppure se l’alterità è qualcosa che viene da fuori e, per dirla in breve, se ha un elemento di oppressività, se è quell’alterità che tutto sommato ci dà delle limitazioni, ci porta a una situazione in cui la passività non è più un elemento da cui possiamo prendere uno slancio, ma è ciò che ci blocca.

Secondo me la Scuola di quest’anno potrebbe configurarsi come una discussione critica nei confronti dell’attività, dell’attività e della positività assoluta, senza però contrapporre a questa positività la negatività assoluta, cioè l’altro come negazione. Ma che contrappone – userei una parola un po’ abusata – una dialettica tra dentro e fuori. Al posto di dentro e fuori possiamo mettere altri due termini: apertura e chiusura, perché evidentemente l’oppressione dell’altro può essere qualcosa che ci chiude, mentre la funzione, l’importanza, la significatività di far agire l’estraneità e la passività come elementi costruttivi, possono equivalere a un’apertura. Quindi l’aperto è il chiuso come il fuori e il dentro. Avete capito dove mi piacerebbe arrivare: a non essere tra quelli che fanno l’apologia del dentro, che sarebbe un’apologia di una situazione psicologistica – che forse non interessa nessuno – ma non fare neppure un’apologia del fuori, che sarebbe una posizione che in fondo dice “noi siamo passivi difronte alla violenza che ci viene da fuori”. Chi vuole intendere intenda, perché in definitiva siamo stati in una situazione di questo genere in tutta la discussione intorno alla pandemia.

Non so se riusciremo a dire qualcosa di significativo, a dare un po’ di respiro al pensiero filosofico. Come sapete, temo la filosofia con la F maiuscola; la vedo come un pericolo. Dobbiamo abbassare questa F; dobbiamo fare un’etica che sia minima. Dobbiamo avere un po’ di pudore di fronte alle affermazioni che facciamo.
 
[Quale altro?]
Ma di quale altro abbiamo bisogno? Possiamo fare a meno dell’alterità? No. Abbiamo bisogno di essere succubi dell’altro? Non vogliamo esserlo, e allora cosa facciamo? Penso che già l’intervento di Pierangelo Di Vittorio, che seguirà questa mia introduzione, saprà indicare una direzione, perché tenterà di far vedere cos’è questa terra estranea all’interno del discorso.
Ora aggiungo alcuni riferimenti per arrivare a darvi ulteriori elementi che possono essere utili. Oltre al testo di Basaglia, vi rimando a un testo chiave di Husserl, che si chiama Meditazioni cartesiane, passando attraverso una riflessione che ho tentato di fare io stesso e che ho consegnato in un volume intitolato La posta in gioco, uno dei primi lavori impegnati che ho scritto.
 
[Ritorna la passività come “cosa nostra” ma altra]
Il mio libro affronta la questione della passività. C’è un capitolo che si intitola appunto “Passività”. Lì trovate diverse riflessioni che possono essere utili per comprendere il punto che sto cercando di introdurre. Un autore circola in queste pagine: è Lévinas, il quale ha fornito diverse indicazioni per quel che riguarda il tema della passività. A un certo punto traduce in francese il testo di Husserl ricavato da un suo intervento alla Sorbona alla fine degli anni Venti, i famosi Discorsi parigini, cui seguono come analisi ampliata le cosiddette Meditazioni cartesiane. La Quinta meditazione mette in gioco proprio il modo in cui si costituisce l’intersoggettività. Che cosa fa Husserl? Che cosa riprendo io in questo capitolo sulla passività, in qualche misura anche opponendomi criticamente a Lévinas, che pensa che questa passività la ritroviamo perché è fuori di noi? In un famoso esempio Lévinas, che dopo averci lavorato su si è allontanato criticamente dalle Meditazioni cartesiane, dice: “Si affaccia qualcuno alla porta e dice ‘Eccomi’, e questo qualcuno è l’altro”. Dà per scontato, in un certo senso, che l’altro sia qualcosa di esterno. L’altro è fuori di noi, l’altro arriva, l’altro è – come in qualche modo correggerà in meglio Derrida – l’arrivante, colui che arriva. Noi non siamo soli. Bussano alla porta, compare una persona, può essere una persona a noi nota, può anche non esserlo, può essere un nostro amico, ma può anche essere qualcuno che nostro amico non è. E comunque ha la caratteristica dell’estraneo.

Questa è l’impostazione che dà Lévinas. Ma con questa impostazione dobbiamo fare i conti, perché effettivamente si tratta di sapere – e qui Lévinas secondo me non legge a fondo Husserl – come mai questa alterità riusciamo a farla nostra. La risposta potrebbe essere: riusciamo a farla nostra perché questa estraneità/alterità è già dentro di noi, ce l’abbiamo già. Ricordate che Husserl è anche quello che, soprattutto nei suoi manoscritti, ha lavorato molto sul concetto di “sintesi passive”: quelle sintesi passive di cui noi siamo fatti. Ciò che è in noi ma non sappiamo che c’è. L’altro che è in noi lo conosciamo? No. Pensate solo alla nozione di inconscio messa in gioco dalla psicoanalisi. Allora il problema è che noi siamo fatti di questa passività, ma questa passività a cosa ci serve? È questa la vera domanda, l’enigma.
 
[L’altro è decisivo per la socialità]
Questa passività ci serve per costituire, per ricostituire, per cercare di mettere in piedi un quadro dell’intersoggettività, un quadro della socialità che ci sta intorno? Ma allora in questa intersoggettività, in questa socialità, che ruolo ha l’altro? È un ruolo che noi dobbiamo cancellare per farlo diventare un medesimo? Ricordate come si è giocata in filosofia tutta la tematica dell’altro e del medesimo. Oppure questo altro va mantenuto nella sua caratteristica di altro, e proprio per questo agisce come un fattore che ci fa entrare all’interno di una situazione intersoggettiva, cioè lo stare con gli altri, come diciamo banalmente. Noi riusciamo a stare con gli altri proprio perché riusciamo, se ci riusciamo, a costituire questa intersoggettività anche come un’alterità. Cioè non siamo noi, oppure questo noi è fatto anche di qualcosa che non è il medesimo di noi stessi. Husserl lo chiama solipsismo, noi oggi lo chiamiamo piuttosto io, un ego che dobbiamo forare, dobbiamo perforare: o riusciamo a perforare questo ego, o riusciamo a bucarlo, a farci entrare l’elemento dell’alterità, oppure restiamo intrappolati, chiusi dentro questo ego.

È la situazione difficile in cui ci troviamo oggi, sempre di più all’interno di una società che ci ha spinto in quella direzione. Cosa si può fare per uscire dalla trappola? Non saprei dirlo in poche parole. Ma il problema è che da questa trappola bisogna uscire e, per uscire, il tema dell’altro, l’esperienza dell’altro è decisiva. Non possiamo uscire dalla trappola dell’ego se non costruiamo un’esperienza in cui l’altro ha una funzione.
 
[L’intersoggettività si costituisce nell’intervallo interno al soggetto]
Basaglia diceva intervallo. Dobbiamo intervallarci rispetto al nostro ego. L’intervallo va costituito non solo rispetto a quello che abbiamo di fronte ma rispetto a noi stessi. Ecco l’operazione veramente filosofica. Riuscire a costruire questa operazione di spaziatura rispetto alla realtà che abbiamo di fronte, rispetto a noi stessi, a quello che pensiamo, al nostro stesso desiderio. Quindi applicare quel qualche cosa che ha a che fare con la sospensione, con l’epoché, come la chiamava la fenomenologia. Non voglio sembrare innamorato dei termini fenomenologici e riproporli dicendo: “Siate fenomenologi!”. Non è questo il punto. Voglio sapere come si esce dalla trappola in cui siamo oggi. Cosa bisogna fare? La trappola ha evidentemente una serie di rimandi, come vedremo, al tema delle istituzioni, che si riproporrà continuamente all’interno del lavoro di quest’anno, per esempio attraverso la questione della famiglia e cioè di quella situazione sociale che è in qualche modo già un allargamento, un perforamento dell’ego.

Adesso andiamo ad analizzare un po’ quello che è stato chiamato lo “scandalo filosofico”, cioè la questione della passività; andiamo a vedere alcuni testi di base. Vi ho detto che bisogna fare attenzione ad avventurarsi nella Quinta meditazione di Husserl. Tanti ci hanno provato, ma si sono incagliati lì. Lo stesso Lévinas e poi Merleau-Ponty, Ricoeur e Sartre, di cui parleremo tra un momento. Chi vuole vada a leggere la Quinta meditazione, ma vi avverto, si tratta di filosofia in senso pesante. In ogni caso, se vi serve una sintesi da parte di qualcuno come me, che ha tentato di fare questa esperienza, cosa viene fuori? Che cos’è questo scandalo filosofico della Quinta meditazione, il cui titolo potrebbe essere appunto “come si costituisce l’intersoggettività”?
 
[Contro il supersoggetto diminuire la soggettività]
Per costruire l’intersoggettività, occorre fare a meno, difendersi, combattere, sconfiggere l’idea di un supersoggetto. Non lo chiamo Super-io perché, come sapete, è una nozione psicoanalitica specifica, ma supersoggetto. Tutti i riferimenti su come si è tradotto questo supersoggetto nella storia recente, nella politica recente, nell’economia recente, nella società recente, vengono da soli e poi li faremo durante il lavoro di quest’anno. Se ci avviamo verso il supersoggetto per cercare di trovare l’intersoggettività, non la troveremo mai. Sembra banale dire così, ma significa che per trovare l’intersoggettività dobbiamo diminuire la soggettività. Non mi interessa che si chiami pensiero debole, qui è Husserl che parla. Bisogna che da questo supersoggetto ci difendiamo. Tutto questo discorso lo potremmo fare attraverso la lettura di Nietzsche, del suo superuomo. Che cos’è il superuomo? In un certo senso, è l’opposto di una superfetazione dell’io in quanto soggetto e di noi in quanto soggetti.
 
[Die Paarung, l’appaiamento]
Cosa mette in campo Husserl?  Che cosa tenta di fare per costruire quel che chiama “appaiamento”, l’appaiamento tra me e un altro, in tedesco die Paarung, cioè per costruire einPaar, un accoppiamento? Che cosa bisogna fare per andare in questa direzione? Husserl avanza due temi, ma forse nessuno dei due funziona, e questo la dice lunga sull’enigma. Da una parte, c’è il tema dell’analogia, cioè l’altro che fa coppia con me – o con ciascuno di noi – è in qualche modo un alter ego che è analogico dell’ego che noi siamo. È curiosa la parola che usa, “analogia” [Analogie], ma non la spiega fino in fondo. È una parola che ci dà delle indicazioni, ma queste indicazioni non riusciamo davvero a tradurle. Fa intendere che l’altro è come noi. Dove sta l’equivoco? Perché, evidentemente, è molto difficile che una posizione di tipo fenomenologico esca fuori e non tenga conto del dentro. Quindi siamo in una posizione di dentro, ma siamo anche in una posizione, che è quella che cerchiamo, di dentro e fuori. Se lo mettiamo fuori, noi ci siamo già costruiti la nicchia del supersoggetto. Quindi la Paarung, l’altro, è qualcosa di analogo a noi stessi, ma questa analogia deve fare i conti con l’interno di noi stessi. Qui c’è uno sdoppiamento. Se non ci fosse uno sdoppiamento, non avremmo bisogno di un’analogia: l’altro lo facciamo diventare noi stessi. Ma noi stessi chi siamo? Siamo una costruzione che già è fatta di ego e alter ego, è già fatta di qualcosa che ha dentro di sé l’analogia di cui parla Husserl. Questa è la prima strada che Husserl tenta, ritenuta una strada poco percorribile da tutti quelli che hanno lavorato sulla Quinta meditazione, anche dallo stesso Husserl.
 
[Die Einfühlung, o sentire insieme; con-sentire non è empatia]
La seconda strada è quella che in tedesco viene chiamata Einfühlung. L’altro, che prima era l’analogo, adesso è quel “soggetto”, quella X con cui noi con-sentiamo, rispetto alla quale noi sentiamo insieme. Ein-fühlung, sentire, sentimento, insieme, uno, ein. Quanti equivoci nascono da qui! Vi indico un percorso di equivocità molto interessante, che ha prodotto effetti di grande interesse. È la traduzione della parola Einfühlung privata dell’elemento dell’estraneità, perché da questo punto di vista la parola è già scivolosa. Nell’analogia rimaneva un fondo di estraneità, nell’Einfühlung si suppone che l’estraneità possa essere assorbita. E infatti come viene tradotta talvolta questa parola? Con “empatia”, una parola che assembra, unisce, produce una coalescenza, una coalizione, un’unitarietà. Ma non è questo che cerca Husserl.

Il problema che pone Husserl è complesso e la soluzione che ci indica nella Quinta meditazione è inadeguata. Non possiamo prenderla come un esempio di analogia, perché anche l’Einfühlung non rispetta l’alter ego, non rispetta l’alterità di questo altro che sta in noi stessi, quell’altro che noi siamo per noi stessi. Che l’altro che bussa alla porta ed entra sia davvero un altro è abbastanza evidente che sia una sorpresa. Cosa farà questo altro, mi sorriderà o mi ucciderà? Che intenzioni ha questo altro? Pensate di tradurre questo discorso dell’altro come volete. L’altro in questa esternità è, in definitiva, un elemento di sorpresa e al tempo stesso di pericolo.

Invece l’alter ego di cui ci vorrebbe parlare Husserl o che almeno ci indica – inteso come la passività che è dentro di noi – è qualcosa che tutto sommato non può essere un completo simpatizzare; non possiamo fare lega, concordare con questo altro, farlo completamente nostro. Questo altro rimane un altro. Penso che Basaglia non fosse così ingenuo filosoficamente come qualcuno ha detto. Pensate solo all’importanza della parola intervallo: uno spazio messo tra noi e noi [ein Abstand, in tedesco]. Ed è questo spazio che ci permette di non soggiogare l’altro soggetto alla nostra soggettività e nemmeno permette il contrario, ovvero che siamo noi sottoposti alla sua soggiogazione. Quindi questo altro è qualcosa che dobbiamo mantenere nella sua enigmaticità. Proprio perché, se vogliamo cancellare questo enigma, allora ci troviamo a essere dipendenti da un’alterità esterna.
 
[Le istituzioni]
Pensate non tanto al problema delle istituzioni che si radicalizzano nella loro violenza, ma a come funziona una normale istituzione, che rapporto ha il singolo all’interno di esse. Il discorso filosofico se la cava dicendo: quel che voglio fare è proporvi delle domande. E noi, invece, vogliamo sempre delle risposte. Vogliamo risolvere i problemi. Ma se in questo caso la risoluzione del problema fosse proprio capovolger la questione e far diventare questa passività, questa alterità, un elemento significativo per costruire qualche cosa? La risposta non è semplice.

La domanda è: la costituzione intersoggettiva, a cui diamo molta importanza – pensate solo che tutta è fatta così, perché una politica senza costituzione intersoggettiva è una fallacia, una finzione, una retorica – come tiene conto dell’enigma della soggettività? La costituzione intersoggettiva come rispetta l’enigma della soggettività? Su questo punto siamo d’accordo, ne parla anche Basaglia, ma abbiamo poco da dire. Mentre siamo molto più assisti sull’enigma dell’intersoggettività, come se avessimo la soluzione in tasca.

Pensate alla nozione di classe di Marx, o a nozioni di questo genere, sulle quali ci siamo sdraiati come su un divano e ci siamo fatti portare dalla storia, come se sapessimo perfettamente che cosa era una classe. L’enigma della soggettività, in questa costituzione intersoggettiva, viene valorizzato oppure eliso, cancellato? Questa era la seconda parte della domanda che proponevo di introdurre. Mentre la terza parte della domanda è: l’operazione della costituzione intersoggettiva valorizza questo enigma? Che ruolo gioca la passività nella nostra idea e pratica del noi?
 
[Il noi]
Di solito questo noi ci sembra superato, ma non possiamo buttarlo via. E allora pensiamo che il noi sia qualcosa in cui la passività non gioca un suo ruolo, pensiamo che sia un noi attivo. Ma poi non possiamo pensare che il noi sia qualcosa di attivo, il noi adesso, il noi socializzante. Dobbiamo mettere in gioco la passività, quel passo indietro sulla soggettività che ha a che fare con il suo enigma, senza di cui l’intersoggettività è in qualche modo una chimera. Quante chimere di questo tipo si sono create nella storia dell’umanità si sono create negli ultimi due secoli!
 
[Su Husserl e Sartre]
Voglio dedicare l’ultima parte del mio intervento alla questione del rapporto tra Husserl e Sartre. Anche qui c’è un ponte con Basaglia. Vi ho fatto vedere come uno dei testi più significativi di Franco Basaglia inizia con una citazione della Crisi delle scienze europee di Husserl, ed è un po’ una sorpresa. Ma non è una sorpresa quando ci raccontano che Basaglia teneva dietro di sé l’immagine di Sartre. E non siamo sorpresi di una serie di altre considerazioni che vengono fatte su Sartre da parte di Basaglia. Ma anche da parte di Enzo Paci, il quale considerava Sartre un amico-nemico. Considerava la Critica della ragione dialettica un testo importante, ma al tempo stesso un testo a cui bisognava dire no, perché Sartre non aveva capito bene cos’era la fenomenologia. Posizione alla quale aveva aderito esordendo, sul piano delle cose scritte, con un libretto su Sartre, in cui in modo un po’ gregario – gli allievi sono sempre un po’ gregari – avevo fatto mia la posizione di Paci proprio rispetto a Sartre. Diciamo pure che Sartre non entra davvero in sintonia con la fenomenologia di Husserl, ma i problemi che pone nella Critica della ragione dialettica, all’inizio degli anni Sessanta, sono decisivi per il nostro discorso.
Sartre mette in campo la coppia serie-gruppo. Una serie che è un tipo di passività in cui tutti gli elementi in qualche modo si ripetono, e un gruppo che invece è presentato come un esempio di attività. Quando il gruppo è un gruppo vero – quasi mai, o forse qualche volta, per esempio in certi momenti rivoluzionari, come la presa della Bastiglia nella Rivoluzione francese – diventa un “gruppo in fusione”.

Allora che cosa possiamo dire? Possiamo prendere la cosa così com’è e dire che Sartre ci avverte che la passività, intesa come “pratico inerte”, quell’inerzia che è dentro ogni agire, non la sconfiggiamo mai. Quindi, quello che si può fare, in fondo, è solo difendersene. Se quel “pratico inerte” è, in qualche modo, l’equivalente della passività di cui si parlava un attimo fa, è però un equivalente pratico-politico. È ciò per cui una certa pratica, quando la ripeti, si fossilizza, si oggettiva, si indurisce, diventa quello che tu non vorresti che fosse. Quella passività è diventata qualcosa di duro, di sassoso, di granitico, contro cui si sbatte la testa. E quindi l’unica cosa che si può fare è avere in mente l’idea di tentare una “fusione”, di fermare questo processo. È questo che in fondo sembra dire Sartre indicando la condizione difficile, quasi impossibile, perché si dia intersoggettività. Come dire: l’intersoggettività è qualcosa di raramente possibile.

C’è una condizione per cui questo “pratico inerte” possa venire sconfitto? Oppure siamo condannati? Quando uno entra in una situazione di pratica politica, non può non pensare che il “pratico inerte” non venga sconfitto. E quindi deve credere che, tutto sommato, riesce a sconfiggerlo esponendosi così al fallimento.
 
[“Il manifesto”] 
Apro una parentesi: pensate a cosa fu in Italia [nel novembre 1969] la costituzione di un gruppo che si chiamava “il manifesto”. La persona che era la chiave di questa operazione era Rossana Rossanda, molto legata a Sartre, ma anche a Paci e alla fenomenologia. È curioso, perché “il manifesto” esce come rivista mensile prima ancora che come quotidiano e c’è un grande dibattito sulla serie e sul gruppo, un dibattito molto interessante, e forse è proprio quello che sto cercando di dire ora: non indurirsi in un’azione di classe, non indurirsi in un’azione di partito, in un’azione d’istituzione politica. Ma questo non indurirsi come poteva accadere? Cosa ne fai della passività e dell’inerzia nel momento in cui decidi che non devi indurirti? Fai finta che non ci siano? Le elimini, le metti da parte? Cosa dovresti fare per non indurirti, visto che questa scintilla poi si spegnerà di sicuro?

Ecco quello che cerchiamo di fare oggi. Nessuno di noi vuole idealizzare questo non-indurimento, nessuno vuole fare questo, perché abbiamo capito che la parola “classe” può essere una parola che poi potrà decadere. E quindi, a questo punto, cosa ne facciamo dell’istituzione? Come mettiamo la passività e l’alterità dentro l’istituzione? Come ci mettiamo l’altro, perché l’istituzione viva, vada aventi e respiri? Lo lascio come interrogativo, una domanda aperta.
 
[Nota finale]
Una nota finale potrebbe essere allora osservare che l’individuazione dell’estraneo come motore attivo del soggetto è rimasto un problema non risolto, ma è deludente. In questo modo togliamo anche il trauma della sconfitta. C’è semplicemente il senso che non abbiamo capito bene. O a questo estraneo diamo il ruolo che deve avere e che ha per la costituzione del rapporto con gli altri, per la costituzione del rapporto con noi stessi, per la costituzione di un rapporto sociale, per stare dentro l’istituzione in un senso specifico, dunque anche per stare dentro a un movimento politico, quindi o diamo a questa estraneità il senso che deve avere, l’importanza, il ruolo che deve avere, forse anche la positività che deve avere, anche se sembra paradossale, oppure credo che, alla fine, da una questione simile non ci sia uscita.
 
[Appendice. Considerazioni statistiche di AS tra soggetto e oggetto]
L’analisi statistica di un testo così denso e così ampio come quello qui proposto può non essere inopportuna. Si fa in due modi complementari: si cercano o le parole più frequenti o quelle meno ricorrenti.

Un esempio chiarisce l’approccio. L’analisi statistica delle 7000 pagine delle Sigmund Freud gesammelte Werke dà ovviamente Unbewusste come una delle parole più ricorrenti. Ma, a sorpresa, la “vita psichica” (das Seelenleben) insidia il primato dell’inconscio, ricorrendo ogni venti pagine circa. Nasce il sospetto di essere difronte a un testo non scientifico. Il sospetto si conferma (per quel che valgono le conferme statistiche) considerando le parole a bassa frequenza. Tipici significanti della scienza “dura”, come Variabel e Interaktion, hanno frequenza nulla. Per altro Freud non cita mai autori scientifici “duri” come Galilei o Mendel, i cui scritti, fondanti la nuova genetica, dopo 40 anni uscirono dalla rimozione e tornarono a circolare ai tempi in cui lo psicanalista scriveva i Tre saggi sulla teoria della sessualità, ma Freud non se ne accorse.

Perché questo discorso? Perché calza come un guanto al discorso di Rovatti e lo situa nel panorama culturale. La risultanza statistica è lapidaria. “Soggetto” è la parola più frequente nel testo riportato; “oggetto”, invece, è addirittura assente. Il dato statistico è imparziale; non è una critica; segnala la caratteristica del discorso filosofico, almeno di quello contemporaneo, dove non si parla di oggetto. L’oggetto è lasciato alla scienza, “che non pensa” il soggetto, secondo Heidegger. Il dualismo oggetto/soggetto sarebbe isomorfo al dualismo scienza/filosofia. Viceversa, sottoponendo alla stessa analisi statistica la fisica teorica di Landau i risultati sarebbero simmetricamente capovolti.

Capitolo chiuso? No, l’assenza di un significante caratterizza il discorso dove non ricorre, non meno dei significanti che effettivamente vi ricorrono. Il significante assente non è meno importante di quello presente, quasi fosse la sua ombra. Il discorso filosofico è oggi soggettivo, non più oggettivo. Lascia l’oggetto alla scienza, dicevo. Il discorso filosofico ha per altro una sua indiscutibile dignità e una sua certificata utilità, pur nella sua unilateralità: richiama il soggetto alla propria responsabilità; presuppone un impegno etico. In questo senso il discorso crea legame sociale, come intuì Lacan. A chi voglia intraprendere un’attività politica, il discorso “soggettivo” di Rovatti può essere molto utile per definire l’orizzonte collettivo in cui il politico opera; delinea l’orizzonte molto vicino a quell’etica che Rovatti ama chiamare “etica minima”. Produce legame sociale come qualunque altro discorso, insegna Lacan. Il discorso di Rovatti ha prodotto la Scuola di filosofia di Trieste: un risultato storico. Che centri il “pensiero debole”, il pensiero senza oggetto?



[1] [Nota di AS. Mi sembra opportuno riportare per esteso il testo originale Husserl. “Ci renderemo ben presto conto che alla problematicità, che è propria della psicologia, non soltanto ai giorni nostri ma da secoli, – alla ‘crisi’ che le è peculiare – occorre riconoscere un significato centrale; essa rivela le enigmatiche e a prima vista inestricabili oscurità delle scienze moderne, persino di quelle matematiche; essa rivela un enigma del mondo di un genere che era completamente estraneo alle epoche passate. Tutti questi enigmi riconducono all’enigma della soggettività e sono quindi inseparabilmente connessi all’enigma della tematica e del metodo della psicologia.” E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1935-36), trad. E. Filippini, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 35.]

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