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Combattere il razzismo nei trattamenti psichiatrici anche in Italia

1 Ott 23

A cura di Luigi Benevelli

Nel lavoro per la salute mentale, scrive Kamaldeep Bhui, “lo sviluppo di pratiche soddisfacenti dal punto di vista culturale richiede un esame attento, minuzioso avendo in mente ciò che il paziente desidera, fin dove e quanto è disponibile, dove maggiormente accentrare gli sforzi in modo che assicurare la giusta assistenza sia una realtà piuttosto che una fuggevole speranza”

Nel lavoro per la salute mentale, scrive Kamaldeep Bhui, “lo sviluppo di pratiche soddisfacenti dal punto di vista culturale richiede un esame attento, minuzioso avendo in mente ciò che il paziente desidera, fin dove e quanto è disponibile, dove maggiormente accentrare gli sforzi in modo che assicurare la giusta assistenza sia una realtà piuttosto che una fuggevole speranza”1.

L’arrivo in corso di milioni di persone nel nostro Occidente è oggetto di grande attenzione, preoccupazione, spesso allarme. I migranti, di solito facilmente riconoscibili dal colore della pelle e dalle lingue che parlano, hanno vissuto esperienze traumatiche, laceranti dal punto di vista della sicurezza personale, esperienze che, sappiamo, producono sofferenza mentale fino a quadri patologici di competenza dei servizi di assistenza psichiatrica occidentali.

Non mi soffermo qui sulla assai difficile condizione in cui versano i Dipartimenti di salute mentale (DSM) italiani perché voglio invece evidenziare i gravi limiti di fondo dei loro assetti e culture professionali in rapporto alle dimensioni dei bisogni di salute dei migranti. Ritengo infatti sia necessario monitorare, verificare severamente le culture professionali degli operatori della salute mentale e, più in generale, quelle dei servizi sanitari e sociali italiani perché allo stato delle cose, è molto alto il rischio di razzismo nell’incontro con persone provenienti da altri continenti e civiltà. In altri paesi dell’Occidente, soprattutto quelli di lingua inglese e francese, la situazione appare diversa, come dimostra il fatto che il problema è riconosciuto, studiato e discusso pubblicamente.

I gruppi etnici sono costruzioni sociali nate dalla messa insieme di vari elementi quali paese di origine, colore della pelle, lingua; l’attribuzione di appartenenza di una persona ad un gruppo etnico di solito non tiene in considerazione l’età, il luogo di nascita, la religione, la classe sociale, la condizione di occupato/inoccupato.

Quando, come in questi mesi, le persone migranti sbarcano sulle coste italiane, al loro arrivo, ma anche successivamente possono presentare sintomi attribuibili a patologie del corpo e a disturbi mentali più o meno gravi, secondo la medicina scientifica che si insegna nelle Università e si pratica nel Servizio sanitario nazionale.

Cosa accade allora in Italia al paziente migrante, magari dopo una sedazione farmacologica, nel tempo che segue al suo arrivo, se il suo disagio prosegue, nel contesto di gravi difficoltà nella comunicazione ? Qui si possono facilmente strutturare modalità assistenziali razziste, basate su pregiudizi, stereotipi, ignoranza con grave danno delle minoranze etniche con cui dovremmo sapere e imparare a relazionarci. Per quanto riguarda il Ssn, le situazioni più pesanti si verificano in particolare nella gestione dei trattamenti coatti, mentre perennemente drammatica è la situazione nelle strutture forensi per la scarsa disponibilità di risorse di operatori, tempi e spazi di lavoro. Quanto tempo “porta via” il lavoro di interlocuzione, ricerca di senso, traduzione, interpretazione? È qui di fondamentale e preliminare importanza il lavoro di base e permanente per la messa a fuoco dell’esistenza dentro i singoli operatori professionali di pregiudizi razzisti di vario grado. Solo a partire da qui è possibile riconoscere dignità e rispetto alle altre culture, ad altri modi di dare senso alla sofferenza e alle esperienze psichiche e di vita. Il fenomeno migratorio in corso propone, impone infatti agli operatori della salute mentale di fare luce sulle proprie difficoltà a operare in mondi culturali diversi rispetto alla propria tradizione culturale, che non è quindi l’unica al mondo ad avere valore.

Insieme, diventa di fondamentale importanza il lavoro con gli interpreti dei mondi dei migranti per lo sviluppo di pratiche rispettose di tutti i sofferenti psichici. Ma, come stiamo vedendo, in tutto il mondo occidentale, da una sponda all’altra dell’Atlantico, le persone di colore sono sovrarappresentate nelle carceri e istituzioni psichiatriche chiuse: per quanto riguarda l’Italia, si pensi alla scelta dei CPR come luoghi di internamento dei migranti per un anno e mezzo “ a prescindere”, perché “irregolari”. Quanti psicofarmaci saranno somministrati non per curare, ma per mantenere ordine e disciplina?

Al posto della reclusione di massa, un sistema di accoglienza diffuso, centrato sul protagonismo delle comunità locali potrebbe consentire, invece, una migliore e più rispettosa presa in carico anche dei migranti con problemi di salute mentale. Ma se questa scelta fosse fatta, occorrerebbe attrezzare adeguatamente i nostri DSM, riorganizzarne le funzioni in rapporto alle relazioni con le culture dei nuovi utenti, a partire dalla scelta preliminare di almeno un dirigente che coordini il lavoro di assistenza delle persone non-europee. E, insieme, da subito, l’Università italiana dovrebbe aprirsi allo studio del manifestarsi della sofferenza mentale nei molti mondi culturali che abitano da tempo accanto a noi per conoscere i tanti modi con cui gli umani declinano la sofferenza e le sue cure. Altrimenti saremmo al razzismo istituzionale, quello che MacPherson (1999) definisce come “il fallimento collettivo di una organizzazione nel provvedere adeguati servizi professionali in ragione del colore della pelle, della cultura o dell’etnia di origine”.

Luigi Benevelli

Mantova, 1 ottobre 2023

 

1 V. Kamaldheep Bhui, The future of mental health care. Essential elements, (pp. 216-227) in Racism and mental health – prejudice and suffering, Jessica Kingsley Publications, 2002.

 

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