Primo Levi, I sommersi e i salvati, 1986.
È stato un vero piacere ascoltare Vittorio Gallese intervistato da Francesco Bollorino sul tema della memoria, prendendo il metaforico caffè mattutino, che ha recentemente inventato come rubrica culturale per i lettori della sua Rivista telematica POL.it – Psychiatry on line Italia. L’argomento rimanda immediatamente, per quelle che sono le mie esperienze lontane, alla “buca del suggeritore” dei teatri dell’Ottocento. Infinite suggestioni – ho pensato tra me – giocate dal direttore-regista della scena e della Rivista, sul filo della memoria, per destare l’interesse e i ricordi degli uditori, indipendentemente dalla miscela dei chicchi della bevanda nera, se “arabica”, “robusta”, “liberica”, o altro. Non solo perché le domande erano dettate da una curiosità legittima e competente, ma soprattutto perchè le risposte erano di una chiarezza esemplare anche per i non addetti ai lavori, ma di buona cultura. Il colpo formidabile è stato quando Vittorio Gallese – uno degli scienziati di punta nel panorama mondiale fra coloro che studiano le funzioni del cervello – ha ammesso di avere più incertezze adesso di quando cominciò a frequentare le più rinomate scuole di ricerca neuropsicologica: «… su molti temi mi sembrava di avere le idee molto più chiare vent’anni fa di oggi». Infatti, allora, le scoperte sembravano talmente a portata di mano che non si smetteva mai di cercare e non si sapeva quale potrebbe essere stata la tappa successiva, degli infiniti e incredibili segreti che andavano svelando le connessioni dei circuiti cerebrali. Realtà inimmaginabili agli inizi dei Cinquanta del secolo passato, quando il cervello pareva un organo “equipotenziale” come giustamente ci ha ricordato Vittorio Gallese, idea approssimativa e inesatta sulla traccia del vecchio pensiero di Lashley [01].
Di certo, i laboratori di neuro-psico-fisiologia cerebrale si sono moltiplicati negli ultimi cinquant’anni, sfornano sorprese a ripetizione – date quasi per scontate, anzi quasi ovvie, come i “neuroni specchio”, tanto per dire, di cui il Nostro è uno degli scopritori. Chi avrebbe mai immaginato che dei particolari neuroni motori i cosiddetti “neuroni specchio”, per l’appunto, oltre a trasmettere impulsi di moto, rimandano contemporaneamente anche input sensitivi che ci portano a comprendere e scimmiottare quello che fanno i nostri simili. Non solo, ma sono diventati essenziali per avanzare ipotesi sulle basi neuropsicologiche dell’empatia, del pensiero, della parola, di supporto nelle funzioni cognitive, nell’uso del linguaggio sulla “teoria della mente” e via dicendo, fino a fare irruzione nella grande letteratura di tutti i tempi. A quel punto della conversazione ero talmente inondato dalla caffeina autoprodotta che ho pensato immediatamente di dare una bella scozzonata al mio ippocampo, alla mia corteccia entorinale con tutto il contorno encefalico, per tirare a lucido la mia memoria autobiografica che pesca ormai dalle parti del cinema appena sonorizzato, quando un magrissimo Vittorio De Sica cantava a “Mariuccia” (Lia Franca) “Parlami d’amore Mariù”, dopo averla condotta con l’automobile sottratta al padrone, in riva a Lago Maggiore per la colazione [02]. Ebbene, quando Vittorio Gallese dopo la laurea e la specializzazione in Neurologia a Parma, iniziò con grande entusiasmo il suo giro del mondo per le più prestigiose unità di ricerca, dall’Università di Losanna, alla ultracentenaria “Nichidai” di Tokyo, dalla californiana “Berkeley”, all’Institute of Philosophy di Londra, non tralasciando la Mind and Brain della “Humboldt” di Berlino, ha maturato una serie di osservazioni e di esperienze di prim’ordine. Mi si è spalancato il portone dei ricordi personali e non sono riuscito a frenare una quantità di nomi famosi, scienziati, e scuole storiche che un tempo molto lontano – quando ho scelto la mia specializzazione post-laurea – albergavano nelle “Cliniche delle Malattie Nervose e Mentali” (o nei dintorni, dove si svolgeva la ricerca), per tenerle ben distinte dagli “Ospedali Psichiatrici”, i manicomi, gli asili della follia, dove si rinchiudevano i matti. Io ho svolto la mia tesi di laurea sui meccanismi del sonno da Mario Gozzano, il quale aveva appena introdotto in Italia le metodiche scoperte dal neuroscienziato vallone Frédéric Bremer, maestro di Moruzzi, per la registrazione elettroencefalografica delle onde cerebrali.
I neuropsichiatri di una volta, anche quelli che erano particolarmente inclini alla psichiatria, o avevano abbracciato la psicopatologia fenomenologica, come Lorenzo Calvi, tanto per ricordare un caro amico, come pure il suo maestro Danilo Cargnello, conoscevano bene il cervello, questo nostro prezioso e indispensabile compagno di vita: un chilo e mezzo di sostanza molliccia tra bianca e grigia, con l’aggiunta di quei formidabili servomeccanismi che sono il cervelletto e il sistema extrapiramidale. Valga citare che, all’esame di docenza, avevano cura di esporre nel curriculum da presentare ai membri della commissione, che si erano esercitati in entrambe le discipline (neurologia e psichiatria) con uguale perizia e competenza, come si poteva evincere dal numero dei lavori presentati. Ma c’era sempre una maggiore considerazione per chi dimostrava di aver frequentato laboratori di ricerca. Poi venne la riforma di Carlo Lorenzo Cazzullo (1976) che divise la “Neurologia” dalla “Psichiatria”, cosicché la “Clinica delle Malattie Nervose e Mentali” fu fatta a spezzatino, per grandi e piccini (neuropsichiatria adulti e infantile), e il cervello, diviso dalla psiche, divenne una rarità da Nobel per scienziati prestigiosi. Ma il Nostro interlocutore odierno, Vittorio Gallese, che questa storia la conosce benissimo, è personaggio spiritoso, sa stare alla battuta, come buona parte degli emiliani e i parmensi in particolare. Fra i neuropsichiatri clinici della mia formazione non posso non ricordare due dei miei maestri, Cristoforo Morocutti (1927-2015), veneziano, che era andato in Belgio a fare ricerca all’Istituto “Bunge” di Anversa diretto da Ludo van Bogaert, (1897-1989), e Raffaello Vizioli (1926-2015), napoletano, che era andato in Francia da Henri Gastaut (1915-1995) alla scuola neurofisiologica di Marsiglia. Potevo contare su due specie di fratelli maggiori che avevano fatto molto meno del giro di Gallese, ma che forse proprio per questo mi stimolavano a viaggiare e frequentare i centri di ricerca più famosi. Bruno Callieri, per esempio, è stato per me un terzo fratello maggiore che però mi distrasse dalla neurologia, proprio come fece egli medesimo. Pensare che si era convinto dopo aver fatto il “Giro delle Sette Chiese” della Psichiatria in Europa. Fu Bruno a farmi prendere passione per la psicopatologia fenomenologica e la etnologia storico-religiosa demartiniana, ma questa è un’altra storia. Quando imparavo a studiare il cervello io, non si faceva altro che parlare della “formazione reticolare” (ascendente e discendente), dei sistemi a proiezione diffusa, dei nuclei della base encefalica, la ricerca di base neuropsicofisiologica, che Giuseppe Moruzzi aveva effettuato con Horace Magoun a Chicago nel laboratorio della Northwestern University e, successivamente, a Pisa, presso quella fucina di scoperte che, al suo rientro in Italia, aveva reso possibile, creando la “Scuola di Via San Zeno”. Rammento di essermi entusiasmato al tema tanto da farci la tesi e successivamente per il concorso a cattedra di Neurologia del mio correlatore – “Ninì” Vizioli, per Cagliari – da scriverci un libro a quattro mani intitolato “L’inibizione del sistema nervoso”, Vizioli Raffaello Mellina Sergio, Edizioni Minerva Medica, Torino, 1967.
Ricordo che da studente di medicina, dietro queste pressanti sollecitudini, io l’encefalo andavo a studiarlo direttamente in “Clinica Neuro”, all’ultimo piano, il terzo, con affaccio sul Viale dell’Università, al civico 30. Li giacevano silenziosi, il cervello, le sue sezioni i suoi preparati conservati in formaldeide. Salire al laboratorio istologico era come andare in chiesa. Rivedo Marco il tecnico sardo che seguiva Gozzano da quando aveva diretto la Sede di Cagliari. Senza il suo aiuto non si poteva imparare “l’ematossilina-eosina” per colorare i vetrini delle fettine di preparato tagliato al microtomo per sostenere l’esame di neuroanatomia con Vittorio Challiol. Era l’aiuto di Cerletti, proveniva da Torino, fu maestro di Bruno Callieri, un terzo fratello maggiore, come ho detto sopra. Una volta, Bruno mi confessò che Challiol si dispiacque moltissimo quando gli disse che abbandonava il secondo piano (neurologia) per dedicarsi alla psichiatria che si trovava al “rez-de-chaussée“. Marco dava lezioni privatissime agli specializzandi su sezioni di encefalo o te lo mostrava intero in un barattolo di formalina: polo anteriore, posteriore, temporale, insula, centro di Broca. Sapeva tutto sulle colorazioni, “dall’ematossilina-eosina”, alla “colorazione argentica di Nissl”. Confesso di essermi cimentato anche con un preparato di non so più cosa. Di aver provato l’emozione dell’inclusione in paraffina, del microtomo, delle “fettine”, del vetrino, del coprivetrino, ecc. Ricordo anche Antonio Marras, un Collega atletico e silenzioso, stabile in laboratorio istologico. Mi sovviene di Enrico Mariani, un altro Collega, mago sul “liqor”, quando glielo portavi fresco di pielle. Mi torna in mente il sottoscala della Clinica. La stanza degli elettroencefalografi, sempre accesi, con dentro sempre un sacco di gente, il regno di Franca Maccagnani e “Ninì” Vizioli. Quando ancora non c’era la “TAC” e l’angiografia carotidea era indaginosa, l’eeg. era un esame molto richiesto e dava indicazioni preziose. Rammento anche le eroiche angiografie cerebrali e le pneumoencefalografie di Giuseppe Francesconi che si alternava a Pasquale Silipo, con l’infermiere Rotellini, ex alpino di Tagliacozzo che teneva fermi i pazienti nella giusta posizione. Il clima della Clinica universitaria delle Malattie Nervose e Mentali era molto diverso dai Laboratori di ricerca, e chi la frequentava doveva fare un po’ di tutto per imparare un po’ di tutto. Chi invece sceglieva di dedicarsi alla “Neuropsicologia clinica” come la definisce Vittorio Gallese, proveniva da esperienze e culture le più disparate ed era portatore di interessi specifici circa i meccanismi di determinate funzioni del cervello. Tutte persone originali, dalla mente sopraffina con curiosità magari elementari, ma fondamentali; non presuntuose ma tenaci, come quelle per esempio dei miei nipotini più piccoli: «Nonno perché la terra gira su se stessa come le trottole ?». Eppoi la maggior parte dei ricercatori di una volta, magari facevano musica, sapevano scrivere sul pentagramma, leggere lo spartito, taluni erano letterati, critici d’arte, talvolta dipingevano e facevano anche spettacolo quando erano chiamati per qualche conferenza. Non so più dove ho letto da qualche parte che Jean-Paul Sartre o Simone de Beauvoir, suggerivano ai loro allievi giù di corda, di frequentare alti prelati per una semplice conversazione su qualsiasi argomento non religioso, per vincere l”ennui“. Ecco, potrei paragonare i ricercatori del funzionamento cerebrale, agli alti prelati di una disciplina che si chiama “Neuropsicologia Clinica”. Basterebbe ascoltarli, come è successo a tutti quelli come me che hanno acceso – su Yu Tube di Pol.it – la puntata n. 94 della webserie di Francesco Bollorino “Caffè & Psichiatria”, Vittorio Gallese risponde alla domanda “Cosa è la Memoria?”.
Esempi molto istruttivi potrebbero ricavarsi dalla storia della scoperta del “sonno REM”, dei personaggi che vi parteciparono e descrivere appena quali esperimenti si facessero nel favoloso laboratorio universitario di Chicago diretto da Nathaniel Kleitman e quello della Stanford University, in Florida, da William Dement. A Chicago, la “Windy City”, la città dove il vento non cessa mai, così come il blues e il jazz, una notte di dicembre del 1951, Eugene Aserinsky – famiglia yiddish proveniente dalla Russia, ex orfano di madre a 12 anni e cresciuto a Brooklyn dal padre Boris, dentista, giocatore d’azzardo – studiando un tracciato eeg del sonno del proprio bambino, il piccolo Armond di 8 anni, scoprì il “sonno REM”. Come ogni neurologo sa, normalmente, nel tracciato di un individuo nel quale studia il sonno, quando comincia a sonnecchiare ossia nella fase ipnagogica, compaiono gli “spindles”, i “fusi” tipici del sonno, quando però cade in un sonno profondo (senza sogni), subentrano le ampie “onde delta” e quando meno te lo aspetti il cervello sembra svegliarsi per girare scene oniriche. Il tracciato detto “REM”, consiste in onde cerebrali a frequenza mista di bassa tensione, è seguito da movimenti oculari rapidi e riduzione del tono muscolare antigravitativo. L’acronimo R.E.M. deriva dall’inglese “rapid eye movement”, movimento rapido degli occhi, il nistagmo, appunto, che si verifica nella fase più profonda del sonno, accompagnata da altre modificazioni somatiche fisiologiche come irregolarità cardiaca, respiratoria e variazioni della pressione arteriosa, come se il soggetto partecipasse al sogno. Naturalmente Aserinsky avvertì immediatamente il suo direttore di quello che aveva riscontrato nel sonno del suo bambino. Kleitman, dietro l’aspetto burbero, celava un carattere socievole e uno spirito avventuroso da sembrare un personaggio della saga cinematografica di Indiana Jones. Era anche molto generoso e lo aveva preso con se a lavorare in laboratorio senza laurea quando gli ricomparve davanti poiché non aveva rinnovato la ferma al militare. Anche la vita di Kleitman non era stata facile. Era scappato, coi famigliari, ebrei askenaziti, da Chisinau, capitale della Bessarabia, per sfuggire ai due “pogrom” [03] dello zar Nicola II nel 1903 e 1905; si erano rifugiati dapprima in Palestina, poi a Beirut dove aveva iniziato gli studi di medicina, per emigrare infine, in America, allo scoppio della prima guerra mondiale. Laurearsi a Chicago nel 1925, era divenuto infine professore di fisiologia e ricercatore nel mondo del sonno. Nel 1938, Nathaniel Kleitman condusse uno studio speleologico sempre per studiare il sonno con Bruce Richardson, uno studente laureato, nel parco nazionale di “Mammoth Cave”, un’area naturale protetta del Kentucky, il più lungo sistema di grotte del mondo. Durante 32 giorni erano rimasti immersi 24 ore al giorno nelle “condizioni uniformi di silenzio, temperatura e illuminazione della grotta”. Mentre in Europa Hitler si apprestava a scatenare la seconda guerra mondiale, invadendo la Polonia, loro due, Richardson e Kleitman, riuscivano a dimostrare che il corpo umano mantiene un regolare ciclo di temperatura circadiana per circa 24 ore anche in assenza di segnali esterni [04]. Com’era logico che facesse Kleitman informò l’altro collega che studiava il sonno in Florida, alla Stanforfd University, William Dement, il quale aveva tra l’altro un talento musicale eccezionale (faceva il jazz e suonava il basso) tanto da potersi vantare di aver suonato con dei solisti prodigio come Quincy Jones, Ray Charles, Stan Gets. Lo stesso Dement ha girato un delizioso “cameo” nel film commedia indipendente americano “Sleepwalk with Me”, 2012 di Mike Birbiglia. Mi sarebbe molto piaciuto sapere se Vittorio Gallese avrebbe potuto raccontarci qualche aneddoto sul “Regio di Parma”. Del terzetto degli scopritori del “sonno REM”, il più longevo fu Kleitman (campò 104 anni 1895-1999), Dement (morì a 91 anni 1928-1920) il più sfortunato fu Aserinsky. A dirlo non ci si crederebbe. Si addormentò al volante della sua auto, finì fuori strada e morì sul colpo schiantandosi contro un albero aveva 77 anni (1921-1998).
Fra le tante strade per arrivare allo studio della memoria, nei suoi vari spetti, lo studio del cervello e dei suoi tracciati eeg, durante il sonno è stata, ed è tuttora, tra le più frequentate. Dormire bene e a sufficienza giova al Sistema nervoso centrale e periferico consentendogli di riposare, recuperare energie, fare pulizia ai neuroni e memorizzare le informazioni importanti, dunque rinforzare la memoria. Un soggetto ben riposato ne può ricavare enormi vantaggi sia per quanto riguarda la salute mentale, sia per la qualità della vita, sia per la buona disposizione dell’umore. Cosa succede durante il sonno, è presto detto. In pratica, grazie al dormire il cervello fa ordine e libera nuovo spazio utile, perché il sonno aiuta il processo di normalizzazione e il ristoro intersinaptico, favorisce il consolidamento della memoria, integra i ricordi passati coi nuovi e riesce a inserire sempre nella scaffalatura giusta quel tassello mnemonico che serviva a completare il quadro dei ricordi. Tutti i neurologi sanno che il sonno è suddiviso in due fasi: la fase “Rem” “e la fase “No-Rem”, come abbiamo sopra detto. La prima parte, a sua volta, si suddivide in quattro stadi: addormentamento, sonno leggero, sonno profondo e sonno profondo effettivo. Tutti i neurologi sanno anche che per mantenere una buona salute mentale e sviluppare una memoria tenace, serve dormire bene, il giusto e correttamente. Si tentò anche di giustificare la teoria di Freud studiandola dal punto di vista della neuropsicologia sperimentale. Ai miei tempi fece rumore un prestigioso personaggio del laboratorio pisano di Moruzzi, che passò il Rubicone per gettar luce e gettarsi egli stesso nella psicoanalisi, assistito da Cesare Musatti. Era Mauro Mancia (1929-2007), un marchigiano di Fiuminata (Macerata), neurofisiologo, professore di Fisiologia Umana alla “Statale” di Milano e psicoanalista SPI, esperto di fasi e tracciati elettroencefalografici di sonno. Si era laureato in medicina alla Sapienza nel 1953. Ci siamo sfiorati. Io mi ero tolto anatomia e fisiologia con Giuseppe Amantea, quello dell’epilessia sperimentale. L’intuizione neuroscientifica di Mancia partì dalla constatazione che esistono fondamentalmente due sistemi della memoria. La “memoria implicita” non passibile di ricordo e non verbalizzabile, come ci spiega chiaramente anche Vittorio Gallese, per esempio quella di imparare ad andare in bicicletta o allacciarti le scarpe, perché acquisisci una competenza motoria che non dimentichi più. E la “memoria esplicita”, a lungo termine, dichiarativa, autobiografica, relativa alla propria identità e storia personale, che ci permette di ricordare. Questa differenza fondamentale consentì a Mauro Mancia di avanzare l’ipotesi che tutte le esperienze infantili dei primi due anni di vita, cioè prima dello sviluppo del linguaggio, siano depositate nella “memoria implicita” e che in questo sistema di memoria siano contenute le esperienze più arcaiche, anche traumatiche, concernenti le prime relazioni del bambino con la madre. Ciò lo autorizzerebbe a pensare che esista un ponte di collegamento tra le due discipline (neuroscienza e psicoanalisi freudiana): l’“inconscio non rimosso”, per l’appunto, che corrisponderebbe all’incirca al periodo della lallazione dell’infante. In conclusione, la sua ipotesi fu quella di mettere in relazione la “memoria implicita” con un’organizzazione inconscia, cosiddetta “non rimossa”, poiché il meccanismo di rimozione necessita dell’integrità delle strutture neurofisiologiche (ippocampo, corteccia temporale e orbito-frontale) e della maturazione delle stesse, indispensabili per la “memoria esplicita”.
Tornando alla conversazione di Francesco Bollorino con Vittorio Gallese, sulla memoria, a partire da quella sorta di “GPS” che abbiamo incorporato nel cervello e negli otoloti dell’orecchio interno per sapere esattamente dove siamo posizionati nel mondo, l’ho trovata molto semplice e spiegata in maniera limpida. Fin dai tempi di “Laika” – “piccolo abbaiatore” – la cagnetta spaziale russa lanciata in orbita satellitare intorno alla terra dallo Sputnik 2, il 3 novembre 1957, tutti ci appassionammo a questo genere di notizie e di gare tra Russi e Americani. Io stavo ultimando la mia tesi sul “Sonno” alla Clinica “Neuro” di Roma da Gozzano, sotto la guida di “Ninì” (Raffaello) Vizioli e ricordo che insieme commentammo “Certo che se ti perdi nello spazio, sveglio o addormentato, che tu sia, chi ti trova più?” Oggi non è più cosi, a distanza di 66 anni le cose sono profondamente cambiate. “Tranquillo nonno! C’è il GPS che ti viene a pescare con un errore di meno di un metro, dovunque tu sia!”. L’irruzione sulle mie perplessità, non è stata quella del solito nipote Matteo, ma di Andrea, il fratello piccolo, terza elementare. Praticamente mi ha spiegato che “GPS” è l’’acronimo di Global Positioning System, un sistema militare americano per individuare il posizionamento globale di cose e persone nello spazio. “Siccome lo hanno venduto ai civili – ha aggiunto – noi ce l’abbiamo sui cellulari di mamma e papà e loro pensano di montarlo anche sull’automobile, nel caso ci perdessimo”. Grazie a questa macchina è possibile localizzare la longitudine e la latitudine di oggetti e persone sperdute nello spazio; l’operazione avviene tramite i satelliti che stazionano nell’orbita terrestre e consentono di sapere l’esatta ubicazione di un luogo in ogni istante. Quello che non ammetteva esitazioni nella spiegazione di dell’orientamento di Vittorio Gallese, era lo spazio e il tempo, due concetti che sono un’unica grandezza fisica. Quello che ho capito di dovermi andare a rivedere approfonditamente, sono le nozioni di Spazio – Tempo – Memoria – Cervello. Le strutture neurologiche di Ippocampo – Neocorteccia – Cellule di posizione e cellule griglia (place cell e grid cell) e, naturalmente, un bel po’ di filosofia. Per poter meglio apprezzare il dialogo, mi piace riportare integralmente il parlato degli interlocutori.
Bollorino. … Dal punto di vista delle neuroscienze come funziona la memoria umana?
Gallese. «Anzitutto anche qui va declinato al plurale. Oggi abbiamo imparato, quando parliamo di memoria, a distinguerne vari tipi, quindi un primo tipo di memoria implicita che è legata all’apprendimento di pratiche, abitudini, che noi, una volta imparate facciamo nostre, per esempio andare in bicicletta, una volta imparato ad andare in bici sei capace di farlo e non te lo dimentichi più. Questa è una memoria iscritta nel corpo ma quindi anche a maggior ragione iscritta nei circuiti del cervello, poi c’è una memoria esplicita, dichiarativa, che è di vario tipo, una memoria semantica per cui io so che questo oggetto si chiama telefono a cui associo tutta una serie di funzioni per arrivare poi a una memoria di tipo più narrativo, la memoria autobiografica, che mi fa ricordare quello che ho mangiato ieri o chi erano i compagni di classe al liceo, la prima volta che ho incontrato mia moglie. Tutti questi diversi tipi di memoria sono supportati o per dirlo in una modo più neutro correlano con aspetti e funzionamenti di parti diverse del nostro cervello. Oggi c’è un grande dibattito per quello che riguarda una struttura cerebrale che da sempre è stata associata al tema della memoria anche per casi clinici famosi di pazienti studiati per anni da neuropsicologi clinici in seguito a una lesione di questa struttura che è l’ippocampo i quali perdevano l’uso di certi tipi di memoria. E probabilmente non è un caso come questa struttura nervosa sia implicata anche nella navigazione spaziale. Tu parlavi del sonno, e c’è un lavoro recentissimo che dimostra come questi neuroni che segnalano la posizione dell’animale in un certo tipo di spazio, le cosiddette place cell and grid cell che hanno fatto guadagnare agli scopritori John O’Keef e suoi collaboratori qualche anno fa il premio Nobel. Durante il sonno queste stesse cellule si attivano, con una caratteristica attivazione temporale che richiama la loro attività nel corso della veglia e quindi è un consolidamento, è una ripetizione, è un reset che filtra l’informazione inutile. Sono tutte ipotesi possibili ma c’è anche chi sostiene che il rapporto fra spazio e tempo, i famosi trascendentali di Kant – che per me non sono trascendentali, per me di trascendentale c’è solo una cosa ed è il corpo – da cui poi si generano col linguaggio anche questi concetti, spazialità e temporalità, in realtà siano molto legati dal punto di vista del cervello e quindi questo sarebbe un ulteriore esempio di come la descrizione linguistica compartimentalista, attribuisce delle categorie a delle entità che sono molto più in continuità se non addirittura facce della stessa medaglia. Se tu pensi alle vecchie tecniche per ricordare, per mandare a memoria, le mnemotecniche che suggerivano di ricordare gli oggetti disponendoli spazialmente nei cassetti della credenza in zone diverse del luogo che abitiamo. Sono in qualche misura uno spunto, un suggerimento che fanno pensare come queste dimensioni, spazio e tempo, siano entrambe legate al tema del quale stiamo discutendo, come quello della memoria, fanno intravedere degli scenari diciamo meno convenzionali rispetto a un’idea più modulare, comportamentalizzata, per cui una cosa è la memoria, una cosa è l’immaginazione, una cosa è lo spazio, una cosa il tempo»
Bollorino. A proposito del tempo, c’è un libro meraviglioso che tu ben conosci, “Il tempo vissuto” di Minkowski, straordinario autore, che quando parla del passato introduce il tempo della memoria, in quanto lui dice, ed ha ragione secondo me, che attraverso la memoria noi costruiamo il nostro passato. Senza la memoria siamo privi di passato. Al tempo stesso introduce un concetto che vorrei sottoporre alla tua attenzione, che lui mutua da uno psicologo francese di nome Pichon [05]. Questo autore individua tre livelli di memoria. C’è un grado secco del ricordare, che si riferisce ai dati: quando è stata scoperta l’America, 1492. Questo è un esempio di memoria secca. Poi introduce il concetto di un grado commovente del ricordare in cui accanto al dato, c’è una “allure” di tipo nostalgico del ricordo, che sembra essere diversa, invece, dal livello che Pichon chiama “angosciante” del ricordare, che in qualche maniera fa si che ci torni alla memoria un fatto, un evento, qualcosa, ma anche in maniera completa, quasi rivissuta, tutta l’emozione che questo ricordo porta con sé. Ecco, la domanda che faccio al neuroscienziato è: esistono almeno tre livelli di memoria? E soprattutto dove sono questi livelli di memoria? Dove stanno?
Gallese «Non c’è dubbio come questa, sia una ulteriore esemplificazione. Primo Levi in “Sommersi e \\” [06] ha una frase che io cito spesso perché secondo me la dice lunga sul linguaggio. A cosa serve il linguaggio? Serve a semplificare. Allora semplificando, il linguaggio identifica una parola:“memoria” che però, in questi pochi minuti di conversazione, abbiamo visto, può assumere dei connotati e delle configurazioni di aspetti incredibilmente diversi. Quindi, ogni parola per usare un termine benjaminiano è, da un certo punto di vista, una costellazione. Quindi è un nucleo di significato che però porta appresso connessioni con sensi e significati che possono essere molto diversi. Allora, questa visione triadica della memoria, è sicuramente un modo legittimo di affrontare il tema: la memoria secca è semplicemente la registrazione di un contenuto che non ha particolari risonanze emotive, il secondo esempio che facevi tu io ho pensato immediatamente alla “Madeleine” di Proust una memoria olfattiva e capace di vivificare tutta una serie di ricordi e situazioni di emozioni che non sono evidentemente intrinseci alle molecole che vanno a stimolare le mucose olfattive e che ti fanno apprezzare il profumo della “madeleine” ma innescano a cascata l’attivazione di cosa? Beh di associazioni emozionali di momenti di memoria autobiografica che verosimilmente mettono in gioco altre parti del cervello che con l’olfatto non hanno nulla a che vedere. Il terzo tipo di memoria cosiddetta angosciante beh li non so se si possa distinguere in termini di meccanismo. Io prima di tutto la distinguerei in termini di contenuto cioè i ricordi non sono tutti uguali, non hanno tutti la stessa valenza emotiva per ognuno di noi. Ci sono ricordi belli, ricordi gioiosi e ricordi traumatici perchè legati a momenti della nostra vita che ci hanno fatto soffrire e che ci possono far soffrire spesso addirittura ancora di più una volta che un evento estemporaneo li riattiva nella nostra memoria. Quindi, in quel caso sicuramente il dove traguarda con, si può tradurre nell’attivazione di tutta una serie di meccanismi che solitamente sono legati ad esempio alla paura o addirittura al terrore. Ancora una volta grazie all’attivazione di meccanismi che non sono intrinsecamente facenti parte della memoria. La memoria, anche questo, lasciamelo dire è un nome, un concetto, una parola che noi possiamo in qualche modo analizzare, spacchettare, da una molteplicità di punti di vista. Se tu mi chiedi c’è l’area del ricordo angoscioso nel nostro cervello, la mia risposta è no! Non è localizzabile in quei termini. Ci sono, diciamo così, mi stai trascinando su un territorio che non è il mio nel senso che non mi sono mai imbattuto in prima battuta nel tema della memoria, ma diciamo questo esempio è una ulteriore dimostrazione del fatto come dobbiamo liberarci dalla tentazione legittima, umanissima se vuoi, tutta una serie di motivi di cercare corrispondenza uno a uno tra concetti e località all’interno del nostro cervello. La migliore correlazione possibile, quando è pure possibile è tra i concetti ed alcuni meccanismi, ma questi meccanismi in qualche modo si esplicano con una dimensionalità che fa si che prendano parte, partecipino alla costituzione anche di esperienze, ricordi, contenuti di pensiero che possono essere molto diversi. Più di questo non mi sentirei di dire».
Bollorino. Capisco. Quello che mi colpisce è quindi che almeno, ad oggi, mettiamola così, non è che noi abbiamo trovato l’SSD [07] dove sono depositate le cose, dove in qualche maniera si vanno a recuperare come succede in un computer, mi sembra di capire questo, dunque, Vittorio.
Gallese. «No! Adesso dico che, ho sempre combattuto una vecchia idea in auge negli anni Cinquanta del secolo scorso, ossia quella dell’equipotenzialità del cervello. Il cervello ovunque vai è tutto uguale fa sempre le stesse cose, che era un po’ l’idea di Lashley. Le cose sicuramente non stanno così, e la migliore prova è una disciplina storica consolidata, solidissima che si chiama Neuropsicologia Clinica, che dimostra sistematicamente l’associazione tra certi tipi di disturbi a certi tipi di lesione cerebrale. Detto questo, ad esempio, ci sono persone che a seguito di una lesione cerebrale non sono più in grado di riconoscere il volto delle persone. La prosopoagnosia [08] – di cui ha mirabilmente scritto Oliver Sachs – in cui si può arrivare all’assurdo di non riconoscere più il proprio volto nello specchio, allora anche qui, se vuoi, lo possiamo leggere come un deficit di memoria. Quando le persone pensano a “memoria” e cervello” pensano esclusivamente all’ippocampo ma qui ci troviamo di fronte a una lesione della corteccia infero-temporale, verosimilmente di un’area che si attiva preferenzialmente quando lo stimolo visivo a cui ci poniamo di fronte è un volto, se quell’area ti va in pappa tu i volti non li riconosci più! Dunque anche questa se vuoi è la traduzione di un deficit di memoria. Io non ricordo più che forma ha il volto della mia partner, non sono più in grado di riconoscerlo. Quindi parliamo di memoria, ma parliamo anche di agnosia visiva per i volti, sono due fenomeni che in qualche misura si intrecciano. Non so se mi spiego».
Bollorino. Benissimo. A me sembra, concludendo, che più andiamo dentro questi aspetti complessi del funzionamento cerebrale, più è evidente che entrano in gioco funzioni diverse. Giustamente tu hai fatto riferimento alla corporeità di un ricordo dove evidentemente l’aspetto dello schema corporeo entra in funzione in maniera immediata.
Gallese. «Se parliamo di memorie motorie allora lì bisogna parlare sicuramente dei gangli della base dobbiamo parlare del cervelletto …»
Bollorino. La cosa che mi colpisce è l’estrema complessità della macchina cerebrale e questa è una cosa che continua ad affascinarmi e, aggiungo, mi lascia un po’ interdetto della fascinazione. A volte mi domando se lavorandoci come fate voi costantemente, l’essere un po’ interdetti a ciò che vedete è un sentimento che vi colpisce o no?
Gallese. «Si! Io direi due cose. La prima è chè, meno male che non abbiamo capito tutto altrimenti dovremmo inventarci un altro lavoro e alla mia età è un po’ tardi! Ma al di la della battuta, non c’è dubbio che quello che a me sconcerta di più, ma, che al tempo stesso costituisce in qualche modo uno stimolo per continuare a lavorare, è che su molti temi mi sembrava di avere le idee molto più chiare vent’anni fa di oggi. Ma questo deriva dal fatto che 20 anni fa, anche per limiti tecnologici, anche semplicemente … per il semplice motivo che c’erano meno persone che si occupavano di questi temi. Alcuni aspetti sembravano più chiari perchè semplicemente ne sapevamo molto meno. Quindi, più ti addentri nel problema, più aggiungi livelli di descrizione, grazie al progresso tecnologico, e più si rivela questa labirintica necessità, che non c’è dubbio che sconcerta e in parte frustra, perché tu parlavi prima di quel film della Pixart che è tutto giocato sul tema delle emozioni, ecco, se tu mi chiedevi 20 anni fa che cosa ne pensavo delle emozioni e me lo richiedi oggi, io oggi ho sicuramente molti più dubbi di quelli che non avevo 20 anni fa. Ma perchè? perché paradossalmente ne sappiamo molto di più e sapendone molto di più realizziamo quanto poco ancora ne sappiamo».
Note
01. Secondo l’APA, Karl Spencer Lashley (1890-1958), è stato fra i più eminenti neuropsicologi statunitensi del ventesimo secolo.
02. “Gli uomini che mascalzoni” 1932, regia Mario Camerini. Presentato al primo Festival del Cinema di Venezia rivela due innovazioni straordinarie. Per la prima volta nella storia del cinema Vittorio De Sica canta in diretta la canzone del film e la pellicola è girata in esterni, abbandonando il clima posticcio dei teatri di posa,
03. Termine russo che significa “demolire o distruggere con atti violenti”. La connotazione storica del termine si riferisce alle violente aggressioni contro gli Ebrei da parte delle popolazioni locali, avvenute nell’Impero Russo e in altre parti del mondo.
04. Restò famosa la pubblicazione del resoconto dei risultati dell’esperimento di Kleitman “Sleep and Wakefulness” nel 1939 a Mammouth Cave.
05. Enrique Pichon-Rivière (1907-1977) psichiatra argentino, considerato tra gli iniziatori della psicoanalisi in Argentina e ideatore della teoria di gruppo conosciuta come “gruppo operativo”, strumento di somma importanza nella psicologia sociale..
06. Primo Levi. I sommersi e i salvati. Einaudi, Torino, 1986.
07. SSD è l’acronimo delle parole inglesi “drive”, “solid”, “state” che si riferisce ad una nuova tecnologia per la memorizzazione e l’immagazzinamento stabile, allo stato solido, di grandi quantità di dati di memoria di massa.
08. Bruno Callieri, cercava di farmi capire l’enormità di quel disturbo neurologico che va sotto il nome di prosopoagnosia. «Pensa tu » – mi diceva – «se ad un certo punto guardando in faccia tua moglie, Silvia, pensassi … e questa mo’ chi è?» e chiariva «Questo deficit cognitivo significa che non è una dimenticanza, una distrazione, una sbadataggine, ma la decostruzione di un sistema di montaggio della significazione dei volti delle persone, delle storie altrui e della tua. Non sei soltanto rimasto solo, ma non puoi neppure chiedere aiuto perché non sai propriamente chi sei, né dove ti trovi esattamente: è scomparsa la tua “meità”! Dimmi se ti pare poco?». Mi si sarebbe spenta «Silvia, rimembri ancor quel tempo della tua vita mortale quando beltà splendea …»
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