Rapporto sulla organizzazione igienico sanitaria del campo di concentramento per Ebrei di Monowitz (Auschwitz – Alta Slesia)
Fonte: MINERVA MEDICA, A. XXXVII, vol.II, n. 47, 24 novembre 1946, pp. 535-544.
Dott. LEONARDO DE BENEDETTI, medico-chirurgo
Dott. PRIMO LEVI, chimico
Attraverso i documenti fotografici e le oramai numerose relazioni fornite da ex-internati nei diversi Campi di concentramento creati dai tedeschi per l’annientamento degli Ebrei d’Europa, forse non v’è più alcuno che ignori ancora che cosa siano stati quei luoghi di sterminio e quali nefandezze vi siano state compiute. Tuttavia, allo scopo di far meglio conoscere gli orrori, di cui anche noi siamo stati testimoni e spesse volte vittime durante il periodo di un anno, crediamo utile rendere pubblica in Italia una relazione, che abbiamo presentata al Governo dell’U.R.S.S., su richiesta del Comando Russo del Campo di concentramento di Kattowitz per Italiani ex-prigionieri. In questo Campo fummo ospitati anche noi, dopo la nostra liberazione, avvenuta da parte dell’Armata Rossa verso la fine del gennaio 1945. Aggiungiamo qui, a quella relazione, qualche notizia di ordine generale, poiché il nostro rapporto di allora doveva riguardare esclusivamente il funzionamento dei servizi sanitari del Campo di Monowitz. Analoghi rapporti furono richiesti dallo stesso Governo di Mosca a tutti quei Medici di ogni nazionalità, che, provenienti da altri Campi, erano stati ugualmente liberati. Eravamo partiti dal campo di concentramento di Fossoli di Carpi (Modena) il 22 febbraio 1944, con un convoglio di 650 Ebrei di ambo i sessi e di ogni età.
Il più vecchio oltrepassava gli 80 anni, il più giovane era un lattante di tre mesi.
Molti erano ammalati, e alcuni in forma grave: un vecchio settantenne, che era stato colpito da emorragia cerebrale pochi giorni prima della partenza,fu ugualmente caricato sul treno e morì durante il viaggio.
Il treno era composto di soli carri bestiame, chiusi dall’esterno; in ogni vagone erano state stipate più di cinquanta persone, la maggior parte delle quali aveva portato con sé quanto più aveva potuto di valigie, perché un maresciallo tedesco, addetto al Campo di Fossoli, ci aveva suggerito, con l’aria di dare un consiglio spassionato e affettuoso, di provvederci di molti indumenti pesanti -maglie, coperte, pellicce – perché saremmo stati condotti in paesi dal clima più rigido del nostro. E aveva aggiunto, con un sorrisetto benevolo e una strizzatina d’occhi ironica, che, se qualcuno avesse avuto con i sé denari o gioielli nascosti, avrebbe fatto bene a i portare anche quelli, che lassù gli sarebbero certo riusciti utili. La maggioranza dei partenti aveva abboccato, Seguendo un consiglio che nascondeva un volgare tranello; altri,pochissimi, avevano preferito affidare a qualche privato che aveva libero accesso nel Campo, le loro robe; altri, infine, che all’atto dell’arresto non avevano avuto il tempo di provvedersi di indumenti di ricambio, partirono con i soli vestiti che avevano indosso.
Il viaggio da Fossoli ad Auschwitz durò esattamente quattro giorni; e fu molto penoso, sopratutto a causa del freddo; il quale era così intenso, specialmente nelle ore notturne, che la mattina si trovavano ricoperte di ghiaccio le tubature metalliche che correvano nell’interno dei carri,per il condensarsi su di esse del vapor acqueo dell’aria espirata. Altro tormento, quello della sete,che non si poteva spegnere se non con la neve raccolta in quell’unica fermata quotidiana, allorché il convoglio sostava in aperta campagna e si concedeva ai viaggiatori di scendere dai vagoni, sotto la strettissima sorveglianza di numerosi soldati, pronti, col fucile mitragliatore sempre spianato, a far fuoco su chiunque avesse accennato ad allontanarsi dal treno.
Era durante queste brevi soste che si procedeva, vagone per vagone, al la distribuzione dei viveri: pane, marmellata e formaggio; mai acqua né altra
bevanda. Le possibilità di dormire erano ridotte al minimo, poiché la quantità di valigie e di fagotti che ingombrava il pavimento, non consentiva ad alcuno di sistemarsi in una posizione comoda ed atta al riposo; ma ogni viaggiatore doveva accontentarsi di restare accoccolato alla meno peggio in un piccolissimo spazio. Il pavimento dei carri era sempre bagnato e non si era provveduto a ricoprirlo neppure con un po’ di paglia.
Appena il treno giunse ad Auschwitz (erano circa le ore 21 del 26 febbraio 1944), i carri furono rapidamente fatti sgombrare da numerose SS., armate di pistola e provviste di sfollagente: e i viaggiatori obbligati a deporre valigie, fagotti e coperte lungo il treno. La comitiva fu tosto divisi in tre gruppi: uno di uomini giovani e apparentemente validi, del quale vennero a far parte 95 individui; un secondo di donne, pure giovani – gruppo esiguo, composto di sole 29 persone – e un terzo, il più numeroso di tutti, di bambini, di invalidi e di vecchi. E, mentre i primi due furono avviati separatamente in Campi diversi, si ha ragione di credere che il terzo sia stato condotto direttamente alla camera a gas di Birkenau e i suoi componenti trucidati nella stessa serata.
Il primo gruppo fu portato a Monowitz, ove sorgeva un Campo di concentramento dipendente amministrativamente da Auschwitz, da cui distava circa 8 Km. e che era stato costituito verso la metà del 1942 allo scopo di fornire mano d’opera per la costruzione del complesso industriale «Buna-Werke», dipendente dalla I. G. Farbenindustrie. Esso ospitava da 10.000 a 12.000 prigionieri, benché la sua capacità normale non fosse che di 7.000 – 8.000 uomini. La maggior parte di questi era rappresentata da Ebrei di ogni nazionalità di Europa, mentre un’esigua minoranza era data da criminali tedeschi e polacchi, da «politici» polacchi e da «sabotatori».
La «Buna-Werke», destinata alla produzione su vasta scala della gomma sintetica, della benzina sintetica, di coloranti e di altri sottoprodotti del carbone, occupava un’area rettangolare di circa 35 Km. quadrati. Uno degli ingressi di questa zona industriale, tutta cintata da alti reticolati di filo spinato, si trovava a poche centinaia di metri dal Campo di concentramento degli Ebrei, mentre,a poca distanza da questo e adiacente alla periferia della zona industriale, sorgeva un Campo di concentramento per prigionieri di
guerra inglesi e, più lontano, si trovavano altri Campi per lavoratori civili di diverse nazionalità. Sia detto per incidenza, il ciclo produttivo della «Buna- Werke» non ha mai iniziato: la data di inaugurazione, fissata dapprima per l’agosto 1944, venne via via rinviata a causa dei bombardamenti aerei e del sabotaggio da parte degli operai civili polacchi, fino all’evacuazione del territorio da parte dell’esercito tedesco.
Monowitz era quindi un tipico «Arbeits-Lager»: ogni mattina la popolazione intera del Campo – salvo gli ammalati e il poco personale addetto ai lavori interni – sfilava inquadrata in ordine perfetto, al suono di una banda, che suonava marce militari e allegre canzonette, per recarsi ai luoghi di lavoro, distanti per alcune squadre anche sei-sette chilometri: la strada era percorsa a passo accelerato, quasi di corsa. Prima della partenza per il lavoro e dopo il ritorno da questo, aveva luogo ogni giorno la cerimonia dell’appello in un’apposita piazza del Lager, dove tutti i prigionieri dovevano restare rigidamente inquadrati, da una fino a tre ore, con qualunque tempo. Appena giunto al Campo, il gruppo dei 95 uomini fu condotto nel padiglione delle disinfezioni dove tutti i suoi componenti furono tosto fatti spogliare e quindi sottoposti a una completa e accurata depilazione: capelli, barbe e ogni altro pelo caddero rapidamente sotto forbici,rasoi e macchinette. Dopodiché, essi furono introdotti nella camera delle docce e quivi rinchiusi fino al mattino seguente. Essi, stanchi, affamati, assetati, insonnoliti, stupefatti di quanto avevano già visto e inquieti per il loro avvenire immediato,ma inquieti sopratutto per la sorte delle persone care dalle quali erano stati repentinamente e brutalmente separati poche ore innanzi, con l’animo tormentato da oscuri e tragici presentimenti, dovettero trascorrere tutta la notte in piedi, con le estremità nell’acqua, che, gocciolando dalle condutture, correva sul pavimento. Finalmente, verso le ore 6 del mattino seguente, essi furono sottoposti a una frizione generale con una soluzione di lisolo e poi a una doccia calda; dopodiché vennero loro consegnati gli indumenti del Campo, per rivestire i quali furono avviati in un altro stanzone, che dovettero raggiungere dall’esterno del padiglione, uscendo nudi sulla neve e col corpo ancora bagnato per la recente doccia.
Il corredo dei prigionieri di Monowitz nella stagione invernale era composto di una giacca, di un paio di pantaloni, di un berretto e di un cappotto di panno a rigoni; di una camicia, di un paio di mutante di tela e di un paio di pezze da piedi: di un pull-over; di un paio di scarponi a suola di legno. Molte pezze da piedi e molte mutande erano state evidentemente ricavate da qualche «thaled» – il manto sacro col quale gli Ebrei usano ricoprirsi durante le preghiere- rinvenuto nelle valigie di qualche deportato e utilizzato in quella guisa in segno di disprezzo.
Già nel mese di aprile, quando il freddo, se pur mitigato, non era ancora scomparso, indumenti di panno e pull-overs venivano ritirati e pantaloni e giacca sostituiti con analoghi capi in tela, pure a rigoni; e solamente verso la fine dell’ottobre gli indumenti invernali venivano un’altra volta distribuiti. Ciò però, non accadde più nell’autunno del ’44, perché abiti e cappotti di panno erano giunti all’estrema possibilità di venire ancora usati, cosicché i prigionieri dovettero affrontare l’inverno ’44-’45 vestiti di tela, come durante i mesi estivi; soltanto un’esigua minoranza ricevette qualche leggero impermeabile di gabardine oppure un pull-over.
Era severamente proibito possedere ricambi di abiti o di biancheria, cosicché era praticamente impossibile lavare camicie o mutande: questi capi venivano cambiati di autorità ad intervalli di 30-40-50 giorni, secondo le disponibilità e senza possibilità di scelta; la biancheria nuova non era già pulita, ma soltanto disinfettata a vapore, perché nel Campo non esisteva lavanderia. Si trattava per lo più di mutande corte di tela e di camicie, sempre di tela o cotone,spesso senza maniche, sempre di aspetto ripugnante per le numerose macchie di ogni genere, spesso ridotte a brandelli; talvolta , al loro posto, si riceveva la giacca o i pantaloni di un pigiama o anche qualche pezzo di biancheria da donna. Le ripetute disinfezioni deterioravano i tessuti, togliendo loro ogni resistenza. Tutto questo materiale rappresentava la parte più scadente della biancheria tolta ai componenti dei vari trasporti che affluivano, come è noto, continuamente al Centro di Auschwitz provenienti da ogni parte di Europa. Cappotto, giacca e pantaloni, sia estivi che invernali, venivano distribuiti in uno stato di conservazione in credibilmente cattivo, pieni di toppe e impregnati di sudiciume (fango, olio di macchine,
vernice). I prigionieri erano tenuti personalmente a provvedere alle riparazioni, senza per altro che venissero distribuiti né filo né aghi.
Il cambio si otteneva con estrema difficoltà e soltanto quando ogni tentativo di riparazione fosse palesemente impossibile. Le pezze da piedi non venivano cambiate per nulla, ma il loro rinnovamento veniva abbandonato all’iniziativa di ogni singolo. Era proibito possedere fazzoletto da naso o comunque un qualsiasi cencio.
Gli scarponi erano confezionati in un’apposita officina esistente nel campo; le suole di legno venivano inchiodate a tomaie di cuoio o di simil-cuoio o di tela e gomma provenienti dalle calzature più scadenti ricavate dai convogli in arrivo. Quando erano in buono stato, costituivano una discreta difesa contro il freddo e l’umidità, ma erano assolutamente inadatti a marce anche brevi ed erano causa di erosioni della cute dei piedi. Si poteva ritenere fortunato colui che veniva in possesso di scarponi della giusta misura ed appaiati. Quando deteriorati, essi venivano riparati infinite volte, al di là di ogni limite ragionevole, cosicché si vedevano rarissimamente calzature nuove e quelle comunemente distribuite non duravano più di una settimana. Non venivano distribuiti lacci da scarpe, i quali venivano sostituiti da ogni singolo con pezzi di funicelle di carta attorcigliata o di filo elettrico, quando era possibile trovarne.
Lo stato igienico-sanitario del Campo appariva a prima vista veramente buono: le stradine e i viali che separavano i diversi «blocchi» erano ben tenuti e puliti, per quanto lo permettesse il fondo stradale melmoso; l’esterno dei «blocchi», in legno, ben verniciato e l’interno coi pavimenti accuratamente scopati e lavati ogni mattina, con i cosidetti «castelli» a tre piani in perfetto ordine e le coperte dei giacigli ben distese e lisciate. Ma tutto ciò non era che apparenza, la sostanza essendo assai diversa: infatti nei «blocchi», che avrebbero dovuto ospitare normalmente da 150 a 170 persone, ne erano stipate sempre non meno di 200, spesso anche 250, per cui quasi in ogni letto dovevano dormire due persone. In queste condizioni la cubatura della camerata era certamente inferiore al minimo richiesto dalle necessità della respirazione e dell’ematosi. I giacigli erano forniti di una specie di saccone, più o meno riempito di paglia di legno, ridotta quasi a polvere dal lungo uso,
e di due coperte. A parte il fatto che queste non venivano mai cambiate e non subivano, se non di rado e per motivi eccezionali, alcuna disinfezione, esse erano per lo più in pessimo stato di conservazione: consunte da un lunghissimo uso, lacerate, ricoperte di macchie di ogni natura.
Soltanto i giacigli più in vista erano dotati di coperte più decenti e quasi pulite e talvolta addirittura belle: erano questi i giacigli dei piani inferiori e più vicini alla porta di ingresso.
Naturalmente questi letti erano riservati ai piccoli «gerarchi» del Campo: Capi-squadra e loro assistenti, aiuti del Capo-blocco o semplicemente amici, degli uni o degli altri.
Così si spiega l’impressione di pulizia e di ordine e di igiene che riceveva colui che, entrando in una camerata per la prima volta, ne scorresse l’interno con uno sguardo superficiale.
Nelle impalcature dei «castelli», nelle travi di sostegno, nelle tavole dei giacigli vivevano migliaia di cimici e di pulci che rendevano insonni le notti ai prigionieri: né le disinfezioni delle camerate con vapori di acido azotidrico praticate ogni tre o quattro mesi, erano sufficienti alla distruzione di quegli ospiti, che continuavano a vegetare e a moltiplicarsi quasi indisturbati. Invece contro i pidocchi era condotta una lotta a fondo, allo scopo di prevenire l’insorgenza di una epidemia di tifo petecchiale: ogni sera, di ritorno dal lavoro e con maggior rigore il pomeriggio del sabato (dedicato fra l’altro alla rasatura dei capelli, della barba e talvolta anche degli altri peli) veniva praticato il cosidetto «controllo dei pidocchi». Ciascun prigioniero doveva denudarsi e sottoporre all’esame minuzioso di appositi incaricati i propri indumenti; e, qualora si fosse trovato anche un solo pidocchio sulla camicia di un deportato, tutti gli indumenti personali di tutti gli abitanti della camerata venivano immediatamente inviati alla disinfezione e gli uomini sottoposti alla doccia, previa frizione di lisolo.
Essi poi dovevano trascorrere nudi tutta la notte, fino alle prime ore del mattino, quando dalla baracca della disinfezione venivano riportati, impregnati di umidità, i loro abiti.
Però nessun altro provvedimento veniva messo in opera per la profilassi delle malattie contagiose, che pure non mancavano: tifo e scarlattina,
difterite e varicella, morbillo, erisipela, ecc.,senza contare le numerose affezioni cutanee contagiose, come le epidermofizie, le impetigini, la scabbia. C’è realmente di che stupirsi se, data tanta trascuranza di norme igieniche in una così alta promiscuità di persone, non siano mai scoppiate epidemie a rapida diffusione.
Una delle maggiori possibilità di trasmissione di malattie infettive era rappresentata dal fatto che una discreta percentuale, di prigionieri non era provvista di gamella o di cucchiaio, cosicché succedeva, che tre o quattro persone erano costrette a mangiare successivamente nello stesso recipiente o con la stessa posata, senza aver la possibilità di lavarla.
Il vitto, insufficiente come quantità, era di qualità scadente. Esso consisteva in tre pasti: la mattina, subito dopo la sveglia, venivano distribuiti 350 gr. di pane quattro volte la settimana e 700 gr. tre volte la settimana, quindi una media giornaliera di 500 gr. – quantità che sarebbe stata discreta, se nel pane stesso non fosse stata incontestabilmente contenuta una grandissima quantità di scorie, fra le quali , visibilissima, segatura di legno; – inoltre, sempre la mattina, 25 gr. di margarina con una ventina di grammi di salame oppure un cucchiaio di marmellata o di ricotta. La margarina veniva distribuita soltanto sei giorni la settimana: più tardi, tale distribuzione veniva ridotta a tre giorni. A mezzodì, i deportati ricevevano un litro di una zuppa di rape o di cavoli, assolutamente insipida per la mancanza di qualsiasi condimento e la sera, al termine del lavoro, un altro litro di una zuppa un po’ più consistente, con qualche patata o, talvolta, con piselli e ceci; ma anche questa era totalmente priva di condimenti grassi. Raramente vi si poteva trovare qualche filamento di carne. Come bevanda, la mattina e la sera era distribuito mezzo litro di un infuso di surrogato di caffè, non zuccherato; soltanto la domenica, esso era dolcificato con saccarina.
Mancava a Monowitz l’acqua potabile; quella che scorreva nei lavatoi poteva venir utilizzata soltanto per uso esterno, essendo di derivazione fluviale e giungendo al Campo non filtrata né sterilizzata e perciò altamente sospetta: il suo aspetto era limpido, benché, vista in strato spesso, di colore giallastro; il suo gusto era fra il metallico e il sulfureo.
I prigionieri erano costretti a fare la doccia da due a tre volte la settimana. Tali lavacri però non erano sufficienti a mantenere pulita la persona, poiché la quantità di sapone che veniva distribuita era molto parsimoniosa: una sola volta al mese il sapone, era distribuito in misura di una saponetta da 50 gr. , la sua qualità era pessima. Si trattava di un pezzo di forma rettangolare, molto duro, privo di sostanze grasse, ricco invece di sabbia, il quale non produceva schiuma e si sgretolava con estrema facilità, cosicché dopo un paio di bagni esso era completamente consumato.
Dopo il bagno non c’era possibilità di strofinarsi il corpo, né di asciugarlo, perché non si possedevano asciugamani; e, usciti dal bagno, si doveva correre nudi, qualunque fosse la stagione, comunque fossero le condizioni atmosferiche e quelle meteorologiche e la temperatura, fino al proprio «blocco», dove si erano depositati gli indumenti.
I lavori, ai quali era adibita la grande maggioranza dei prigionieri, erano di manovalanza e tutti assai faticosi. inadatti alle condizioni fisiche e alla capacità dei condannati; ben pochi di questi erano impiegati in lavori che avessero qualche affinità con la professione o il mestiere esercitati durante la vita civile. Così,nessuno dei due sottoscritti poté mai lavorare in Ospedale o nel laboratorio chimico della «Buna-Werke», ma entrambi furono costretti a seguire la sorte dei loro compagni e dovettero sottostare a fatiche superiori alle loro forze, ora lavorando come terrazzieri con piccone e pala, ora come scaricatori di carbone o di sacchi di cemento o in altri modi ancora, tutti pesantissimi; lavori che si svolgevano naturalm ente all’aperto, d’inverno e d’estate, sotto la neve, sotto la pioggia, al sole e al vento, senza protezione di vestiario sufficiente contro le basse temperature e contro le intemperie. Tali lavori poi dovevano sempre venir eseguiti con ritmo celere, senza alcuna sosta, eccetto quella di un’ora – da mezzogiorno alle una – per il pasto meridiano: guai a colui che fosse stato sorpreso inerte o in attitudine di riposo durante le ore di lavoro.
Dalla rapida descrizione che abbiamo fatta delle modalità di vita nel Campo di concentramento di Monowitz si può dedurre con facilità quali fossero le malattie più frequenti da cui erano colpiti i prigionieri e le loro cause.
Esse si possono classificare nei seguenti gruppi:
1) malattie distrofiche;
2) malattie dell’apparato gastro-intestinale; 3) malattie da raffreddamento;
4) malattie infettive generali o cutanee;
5) malattie chirurgiche;
6) malattie da lavoro.
Malattie distrofiche.
L’alimentazione che, se dal punto di vista quantitativo abbiamo visto essere di gran lunga inferiore al fabbisogno, da quello qualitativo era priva di due importanti fattori: mancavano infatti i grassi e sopratutto le proteine animali, se si eccettuano quei miseri 20-25 grammi di salame, che venivano somministrati due o tre volte la settimana. Inoltre mancavano le vitamine. Si spiega perciò come tali e tante carenze alimentari fossero il punto di partenza di quelle distrofie che colpivano pressoché tutti i prigionieri fin dalle prime settimane del loro soggiorno.
Tutti infatti dimagrivano molto rapidamente e la maggior parte di essi presentava edemi cutanei, localizzati sopratutto agli arti inferiori; non mancavano tuttavia edemi del volto. Similmente, a carico di queste distrofie si potevano mettere la facilità con cui venivano contratte le diverse infezioni, sopratutto quelle a carico dell’apparato cutaneo, e la loro tendenza alla cronicizzazione.
Così, certe erosioni della cute dei piedi, direttamente provocate dalle calzature, antifisiologiche per la loro forma e la loro misura; i foruncoli, frequentissimi e numerosi nello stesso soggetto; l’«ulcus cruris», altrettanto frequente; i flemmoni, ecc., non mostravano alcuna tendenza alla guarigione, ma si trasformavano in piaghe torpide, dal fondo lardaceo, con suppurazioni siero purulente interminabili, e talvolta con esuberanza di granulazioni grigio- giallastre, che non venivano avvivate neppure dalle pennellazioni di nitrato d’argento. E infine, una parte non indifferente della diarrea, da cui venivano colpiti quasi tutti i deportati, era ugualmente da attribuirsi alla distrofia alimentare.
Così si spiega come i deportati perdessero rapidamente le forze, poiché la fusione del pannicolo adiposo era accompagnata dallo stabilirsi di una notevole atrofia dei tessuti muscolari.
A questo punto dobbiamo ricordare le vitamine: da quanto abbiamo raccontato finora, parrebbe ovvio che sindromi avitaminosiche – e particolarmente da carenza di vitamina C e di vitamina B – fossero frequenti. Invece non ci risulta che si siano verificati casi di scorbuto o di polinevrite, almeno in forma tipica e completa; e ciò crediamo in rapporto al fatto che il periodo medio di vita trascorso dalla maggioranza dei prigionieri fosse troppo breve, perché l’organismo avesse il tempo di manifestare segni clinici evidenti di sofferenza per la mancanza di quelle vitamine.
Malattie dell’apparato gastro-intestinale.
Trascuriamo qui quelle malattie, da cui erano colpiti molti prigionieri e che non erano in stretta dipendenza con le modalità della vita nel Campo; così come le ipo- e le iper-cloridrie, le ulceri gastro-duodenali, le appendiciti, le enterocoliti, le malattie epatiche. Ricordiamo soltanto che questi stati patologici, preesistenti in molti deportati prima del loro arrivo a Monowitz, si aggravavano o rappresentavano ricadute, se antecedentemente guariti.
Qui vogliamo sopratutto ricordare la diarrea, di cui abbiamo già fatto cenno nel paragrafo precedente, sia per la sua diffusione che per la gravità del suo decorso, molte volte rapidamente mortale. Essa per lo più esplodeva all’improvviso, qualche volta preceduta da disturbi dispeptici, in seguito a qualche causa occasionale, che rappresentava il fattore determinante accidentale, come, ad esempio, una prolungata esposizione al freddo o l’assunzione di cibi avariati (talvolta il pane era ammuffito) o di difficile digestione. Giova ricordare a questo proposito come molti prigionieri per calmare gli stimoli della fame mangiassero bucce di patata, foglie crude di cavolo, patate e rape marcie che raccoglievano fra i rifiuti della cucina.
Ma è probabile che alla base delle diarree gravi stessero altri molteplici fattori, e particolarmente due, interdipendenti: una dispepsia cronica e la conseguente distrofia alimentare. I colpiti presentavano numerose scariche
alvine – da un minimo di cinque o sei fino a venti e forse più al giorno – liquide, precedute e accompagnate da vivaci dolori addominali, molto ricche di muco, qualche volta accompagnate a sangue. L’appetito poteva essere conservato, ma in molti casi i pazienti presentavano un’anoressia ostinata, per cui rifiutavano di alimentarsi: questi erano i casi più gravi che evolvevano rapidamente verso l’esito fatale. Esisteva sempre una sete assai intensa. Se la malattia tendeva verso la guarigione, il numero delle scariche diminuiva, riducendosi a due o tre al giorno, mentre la qualità delle feci si modificava, trasformandosi esse in poltacee. Da questa malattia diarroica i pazienti uscivano sempre mal ridotti, con un notevole aggravamento del loro stato generale e con un più accentuato, apparente dimagrimento per l’importante disidratazione dei tessuti. La cura, standardizzata, era duplice: alimentare e medicamentosa. Entrati in ospedale, gli ammalati erano sottoposti a digiuno assoluto per la durata di 24 ore, dopo le quali ricevevano un vitto speciale, fino a che le loro condizioni non fossero decisamente migliorate e cioè fino a quando, diminuito il numero delle scariche e fattesi le feci poltacee, la prognosi della malattia non si fosse fatta chiaramente favorevole. Quel regime alimentare consisteva nella soppressione della razione di salame e della zuppa del mezzogiorno; il pane nero era sostituito, da pane bianco e la zuppa della sera da un semolino dolce, abbastanza consistente. Inoltre i medici consigliavano gli ammalati di bere poco liquido o, meglio, di non berne affatto, benché la quantità del caffè della mattina e della sera non venisse ridotta d’autorità. La cura medicamentosa era fondata sulla somministrazione di tre o quattro compresse di tannalbina e di altrettante di carbone «pro die»; nei casi più gravi gli ammalati ricevevano anche cinque gocce (!) di tintura d’oppio unitamente a poche gocce di cardiazol.
Malattie da raffreddamento.
Le quotidiane prolungate esposizioni al freddo e alle intemperie, contro cui i prigionieri non erano affatto protetti, e alla umidità spiegano la frequenza
delle malattie reumatiche a carico dell’apparato respiratorio e delle articolazioni, delle nevralgie e dei congelamenti.
Bronchiti, polmoniti, broncopolmoniti erano, si può dire, all’ordine del giorno anche durante la stagione estiva; ma, come è naturale, infierivano particolarmente durante l’inverno, l’autunno e la primavera. Esse venivano curate in modo molto semplice: impacchi freddi sul torace, qualche compressa antipiretica e, nei casi più gravi, sulfamidici in dosi assolutamente insufficienti; di più, un po’ di cardiazol. Contro le nevralgie – frequenti particolarmente le lombaggini e le sciatiche – e contro le artriti, gli ammalati erano sottoposti a irradiazioni di calore; contro i congelamenti non si praticava alcuna cura, se non l’amputazione della parte ammalata quando il congelamento era di una certa gravità.
Malattie infettive.
Le più frequenti di queste erano rappresentate dalle malattie esantematiche, e in particolar modo dalla scarlattina, dalla varicella, dall’erisipela e dalla difterite.
Si manifestavano anche saltuariamente casi di tifo addominale. Coloro che venivano colpiti da una di queste malattie erano ricoverati in un padiglione di isolamento, ma in modo promiscuo, senza cioè che vi fosse una separazione fra gli ammalati delle diverse forme morbose. Era quindi molto facile che un ammalato, entrato in infermeria con una forma infettiva, vi contraesse il contagio di un’altra; tanto più che né le coperte dei letti né le scodelle in cui era distribuita la zuppa erano mai disinfettate. La scarlattina e l’erisipela venivano combattute con i sulfamidici, somministrati però sempre in dosi ridotte; i difterici erano abbandonati a loro stessi per la mancanza assoluta di siero e la loro cura era limitata a gargarismi di una soluzione molto diluita di chinosol e alla somministrazione di qualche compressa di panflavina. Si capisce quindi come la mortalità per difterite raggiungesse il 100% poi ché chi riusciva a superare il periodo acuto soccombeva in seguito per paralisi cardiaca o per qualche altra complicazione o per la sovrapposizione di un’altra forma morbosa.
In quanto alla sifilide, alla tubercolosi e alla malaria non possiamo riferire dati sulla loro frequenza, poiché luetici, tubercolotici e malarici- questi ultimi anche se guariti da molto tempo e accidentalmente scoperti per loro incauta confessione – venivano senz’altro inviati a Birkenau e quivi soppressi nelle camere a gas. Non si può negare che questo fosse un metodo profilattico radicale!
A carico dei tegumenti erano assai diffuse le infezioni di ogni genere, ma particolarmente i foruncoli e gli ascessi, che, come abbiamo già riferito, avevano un decorso sempre assai prolungato e a ricadute, con localizzazioni contemporanee molteplici; le sicosi della barba e le tricofizie.
Contro i primi, si praticavano soltanto cure chirurgiche, con incisione e drenaggio dei focolai, mancando la possibilità di praticare stimoloterapie con cure vaccinoterapiche o chemioterapiche:soltanto nei casi più ostinati, i pazienti venivano sottoposti ad autoemoterapia. Contro le seconde, sicosi e tricofizie, non esistevano rimedi specifici e sopratutto lo jodio. Il volto degli ammalati veniva impiastricciato con qualcuna delle pomate a disposizione, il cui effetto terapeutico era poco meno che nullo. Di fronte alla diffusione sempre maggiore di queste dermatosi, si finì da un lato per adottare misure profilattiche, come la proibizione agli ammalati di farsi radere la barba per evitare la trasmissione dell’infezione a mezzo dei rasoi e dei pennelli, e dall’altra si provvide a intensificare le cure, sottoponendo gli ammalati a radiazioni ultraviolette. I casi più gravi di sicosi poi venivano trasferiti temporaneamente all’ospedale di Auschwitz per essere sottoposti a Roentgenterapia.
A carico della cute dobbiamo ancora accennare alla diffusione della scabbia, la quale veniva curata con una frizione quotidiana di mitigal in un padiglione speciale, dove gli ammalati venivano ricoverati soltanto la sera per passarvi la notte, mentre durante il giorno essi dovevano continuare regolarmente il loro lavoro nella squadra cui erano aggregati; non esisteva cioè uno speciale «Kommando» per scabbiosi, al quale gli infestati fossero addetti per la durata della malattia; perciò, continuando essi a lavorare in mezzo ad individui non ancora infestati, i contagi erano molto frequenti per l’uso comune degli attrezzi e per la stretta comunanza di vita
Anche qui non vogliamo trattenerci su quelle affezioni che richiedevano interventi chirurgici, ma che non erano in relazione di dipendenza con la vita del Campo. Riferiamo soltanto che venivano correntemente praticate operazioni anche di alta chirurgia, prevalentemente addominale, come gastroeriteroanastomosi per ulcere gastroduodenali, appendicectomie, resezioni costali per empiemi, eccetera; e interventi ortopedici per fratture e lussazioni. Se le condizioni generali del paziente non davano sufficienti garanzie per la sua resistenza al trauma operatorio, gli si praticava, prima dell’intervento, una trasfusione di sangue -, queste venivano eseguite anche per combattere anemie secondarie a emorragie gravi da ulcera gastrica o da traumi accidentali. Come datore, si ricorreva a qualche deportato, giunto di recente e ancora in buone condizioni generali; l’offerta del sangue era volontaria e il donatore veniva premiato con quindici giorni di riposo in ospedale, durante i quali riceveva un vitto speciale. Perciò le offerte di sangue erano sempre numerose.
Non ci risulta in alcun modo -e anzi crediamo di poterlo escludere – che nell’ospedale di Monowitz venissero praticate operazioni a scopo di ricerche scientifiche, come venivano eseguite su vasta scala in altri Campi di concentramento. Sappiamo, ad es., che ad
Auschwitz un reparto di quell’ospedale era adibito a ricerche sugli effetti della castrazione e del successivo innesto delle ghiandole eterosessuali.
La sala chirurgica era discretamente fornita di strumentario, almeno quanto era sufficiente per gli interventi che si eseguivano; le sue pareti erano rivestite di mattonelle bianche lavabili; c’era un lettino chirurgico snodabile, di modello un po’ vecchio, ma tuttavia in buono stato e che consentiva di collocare il paziente nelle principali posizioni operatorie; una stufa elettrica per la sterilizzazione dei ferri; e l’illuminazione era data da alcuni riflettori mobili e da un grande lampadario centrale fisso. In una parete, dietro un paravento in legno, erano infissi lavandini ad acqua corrente calda e fredda per la pulizia delle mani dell’operatore e dei suoi assistenti.
In tema di chirurgia asettica, ricordiamo che anche le ernie venivano regolarmente operate su richiesta degli ammalati, almeno fin verso la metà della primavera del 1944; a partire da quest’epoca, tali interventi furono
sospesi – se non per casi rarissimi di ernie strozzate – anche se si fosse trattato di ernie voluminose e veramente d’imbarazzo per il lavoro. Questa decisione fu presa nell’ipotesi che gli ammalati si sottoponessero all’intervento con lo scopo di procurarsi un mese di riposo in ospedale.
Gli interventi più frequenti erano rappresentati dai flemmoni, che venivano operati nell’apposito padiglione della chirurgia settica. I flemmoni costituivano, accanto alla diarrea, uno dei capitoli più importanti della particolare patologia del Campo di concentramento. Essi erano localizzati prevalentemente agli arti inferiori, più rara essendo la sede in qualsiasi altro distretto. Di solito si poteva riconoscere il loro punto di partenza in qualche lesione cutanea dei piedi, provocata dalle calzature; erosioni dapprima superficiali e di estensione limitata, che si infettavano e si ingrandivano con un’infiltrazione periferica e in profondità o che provocavano infiltrazioni metastatiche a una certa distanza. Ma talvolta non si riusciva a individuare il punto di ingresso dei germi patogeni; l’infiltrazione dei tessuti molli si formava senza che fosse possibile rilevare qualche lesione cutanea nelle sue vicinanze o a distanza: si trattava con ogni probabilità di una localizzazione di germi partiti da qualche «focus» e trasportati con la corrente ematica. Gli ammalati venivano precocemente operati con molteplici generose incisioni; ma l’evoluzione successiva delle lesioni era sempre molto lunga e le incisioni, anche quando la suppurazione volgeva al termine, non mostravano tendenza alla cicatrizzazione. Le cure postoperatorie consistevano in semplici drenaggi della ferita chirurgica; nessuna terapia era attuata per stimolare le difese organiche. Erano perciò assai facili le ricadute e quindi frequenti gli interventi «in serie» sullo stesso individuo per aprire e drenare le sacche di pus, che si formavano alla periferia delle incisioni precedenti; quando finalmente il processo di guarigione mostrava di essere giunto a buon punto, gli ammalati venivano dimessi dall’ospedale, benché le ferite non fossero ancora completamente saldate, e avviati al lavoro; e le ulteriori medicazioni venivano eseguite ambulatorialmente. E’ logico che la maggior parte dei dimessi in simili condizioni dovesse, dopo pochi giorni, rientrare in ospedale o per ricadute locali o per la formazione di nuovi focolai in altre sedi.
Erano anche assai frequenti le otiti acute, che davano con una percentuale singolarmente alta delle complicazioni mastoidee; anche queste venivano regolarmente operate dallo specialista otorinolaringoiatra.
La cura delle infezioni cutanee era fondata sull’uso di quattro pomate, che venivano usate successivamente in modo standardizzato, secondo lo stadio delle lesioni. In un primo tempo, nello stadio dell’infiltrazione, la lesione e la cute circostante venivano ricoperte con una pomata all’ittiolo a scopo risolvente; in seguito, sopravvenuta la fusione e aperto il focolaio, se ne ricopriva il fondo con una pomata al collargolo, a scopo disinfettante; finché, cessata o ,grandemente diminuita la suppurazione, si adoperava una pomata al pellidolo come cicatrizzante e infine un’altra all’ossido di zinco, come epitelizzante.
Malattie da lavoro.
Dato il particolare impiego della massa in lavori di manovalanza, non risulta che si siano manifestate particolari malattie professionali, se si escludono quelle chirurgiche da infortunio, e, cioè contusioni, fratture e lussazioni: ma possiamo riferire su di un caso a nostra conoscenza. In un certo periodo – agosto 1944 – gli uomini addetti al cosidetto «Comando Chimico» furono adibiti al riordinamento di un magazzino contenente sacchi di una sostanza di natura fenolica. Già al primo giorno di questo lavoro tale sostanza, in fine polvere, aderì al viso e alle mani dei lavoratori, ivi trattenuta dal sudore; la successiva esposizione al sole provocò in tutti dapprima un’intensa pigmentazione delle parti scoperte, accompagnata da bruciore intenso; indi un’estesa desquamazione a larghe lamelle. Nonostante che lo strato epidermico nuovo che così veniva esposto all’agente infettante, si presentasse particolarmente sensibile e dolente, il lavoro fu proseguito per venti giorni senza che venisse adottata alcuna misura protettiva. E benché tutti gli uomini di detto Comando – una cinquantina – fossero stati colpiti da questa dermatite dolorosa, nessuno di essi fu ricoverato in ospedale, Passate così in rassegna le malattie più frequenti nel Campo di Monowitz e le loro cause, dobbiamo confessare che non ci è possibile riferire dati precisi
in cifre assolute e relative sulla loro frequenza, poiché nessuno di noi due ebbe mai la possibilità di entrare in ospedale se non come ammalato. Quanto abbiamo scritto e quanto ancora diremo è il frutto della osservazione quotidiana e delle notizie che accidentalmente o meno abbiamo appreso, conversando con i compagni, con i medici e con il personale dell’infermeria, con i quali eravamo in rapporti di conoscenza o di amicizia.
L’ospedale del Campo era stato creato soltanto pochi mesi prima del nostro arrivo a Monowitz, avvenuto verso la fine del febbraio 1944. Prima di quell’epoca, non esisteva alcun servizio sanitario e gli ammalati non avevano alcuna possibilità di curarsi, ma erano costretti a lavorare ugualmente ogni giorno fino a che cadevano esausti sul lavoro. Naturalmente questi casi erano frequentissimi. Avveniva allora che le constatazioni di morte fossero fatte con un sistema singolare: di esse erano incaricati due individui, non medici, che, armati di nervi di bue, dovevano bastonare per alcuni minuti di seguito il caduto. Alla fine, se questi non reagiva con qualche movimento, lo si considerava morto e il suo corpo veniva subito trasportato al crematorio; se invece si muoveva, voleva dire che morto non era e perciò lo si costringeva a riprendere il lavoro interrotto.
In seguito, fu creato il primo nucleo di un servizio medico con l’istituzione di un ambulatorio, dove chiunque poteva presentarsi alla visita se si fosse sentito ammalato; se però qualcuno non fosse stato riconosciuto dai medici, egli veniva immediatamente punito dalle SS. con severe sanzioni corporali. Altrimenti, se l’affezione fosse stata giudicata tale da impedire il lavoro, erano concessi alcuni giorni di riposo. Più tardi ancora, alcuni blocchi furono adibiti a infermeria, che poco per volta andò ingrandendosi con la istituzione di nuovi servizi; cosicché, durante la nostra permanenza nel Campo, funzionavano regolarmente i seguenti:
- ambulatorio di medicina generale;
- ambulatorio di chirurgia generale;
- ambulatorio di otorinolaringoiatria e oculistica;
- gabinetto odontoiatrico (nel quale si eseguivano anche otturazioni e i più elementari lavori di protesi);
- padiglione di chirurgia asettica, con annessa sezione otorinolaringoiatrica;
- padiglione di chirurgia settica;
- padiglione di medicina generale con una sezione per le malattie nervose e mentali, dotata di
- un piccolo apparecchio per elettroshock-terapia;
- padiglione per le malattie infettive e per la diarrea;
- padiglione di riposo – «Schonungs-Block» – nel quale erano ricoverati i distrofici, gli
- edematosi e certi convalescenti;
- gabinetto fisico-terapico, con lampada di quarzo per irradiazioni ultra- violette e lampade per irradiazioni infrarosse;
- gabinetto per ricerche chimiche batteriologiche e sierologiche.
Non esisteva impianto Roentgen e qualora un esame radiologico fosse stato necessario, l’ammalato veniva inviato ad Auschwitz, dove esistevano buoni impianti e donde rientrava con la diagnosi radiologica.
Da questa descrizione si potrebbe ritenere che si trattasse di un ospedale, piccolo sì, ma completo quasi in ogni servizio e ben funzionante; in realtà vi erano molte deficienze, alcune forse insormontabili come la mancanza di medicinali e la scarsità di materiale da medicazione, data la grave situazione in cui già fin da allora si trovava la Germania, premuta da una parte dall’infrenabile avanzata delle valorose truppe russe e dall’altra quotidianamente bombardata dall’eroica aviazione anglo-americana; ma ad altre si sarebbe potuto ovviare con un po’ di buona volontà, organizzando meglio i servizi.
La prima e la più importante di queste deficienze era l’insufficienza numerica e di capienza dei locali: mancava, ad esempio, una camera d’aspetto per gli ammalati che si presentavano agli ambulatori, di modo che essi erano costretti a sostare all’aperto, in attesa del loro turno, facendovi interminabili «code» in qualunque stagione e con qualsiasi tempo, quando, già affaticati dalla lunga giornata lavorativa, rientravano in Campo la sera; poiché gli ambulatori funzionavano soltanto dopo il ritorno al Campo di tutti i lavoratori e al termine dell’appello serale. Prima di entrare nell’ambulatorio, tutti dovevano togliersi le scarpe ed erano perciò obbligati a camminare a piedi nudi su pavimenti che, come quello dell’ambulatorio chirurgico, erano molto sudici per la presenza del materiale di medicazione usato gettato per terra e in conseguenza imbrattato di sangue e di pus.
Nei padiglioni era molto grave l’insufficienza del numero dei letti: ne derivava la necessità che ogni giaciglio servisse per due persone, qualunque fosse la malattia da cui queste erano affette e la sua gravità; altissima perciò la possibilità dei contagi, tenendo anche conto del fatto che, per la mancanza di camicie, gli ammalati in ospedale restavano nudi: infatti, all’ingresso in ospedale, ciascun ammalato versava nella camera della disinfezione tutti i suoi indumenti. Le coperte e i sacconi dei giacigli erano addirittura lerci, con macchie di sangue e di pus e spesso di feci, che ammalati in stato preagonico perdevano involontariamente.
Le regole igieniche erano completamente trascurate, se non per quel tanto che serviva a salvare le apparenze. Così, ad esempio, essendovi deficienza di gamelle, i pasti erano serviti in due o più turni e gli ammalati del secondo o del terzo turno erano costretti a mangiare la zuppa in recipienti malamente risciacquati nell’acqua fredda contenuta in un secchio. Nel cosidetto «Schonungs-Block» mancava un impianto di acqua corrente, come d’altra parte in tutti gli altri padiglioni; ma, mentre i degenti in questi ultimi avevano
la possibilità di recarsi in apposito «Wascheraum» per lavarsi ogni qualvolta ne avessero avuto il desiderio, quelli ricoverati nel primo non potevano usufruire di tale possibilità di lavarsi se non una volta al giorno, la mattina, usufruendo in oltre 200 di sei catinelle, nelle quali gli infermieri versavano di volta in volta un litro di acqua, portata dall’esterno in appositi mastelli. In questa stessa sezione il pane veniva trasportato dalla sala di medicazione, dove era deposto la sera precedente, sopra una panca che di giorno serviva agli ammalati come sgabello per appoggiare i piedi durante le medicazioni, alla fine delle quali essa risultava sempre imbrattata di sangue e di pus, da cui veniva rapidamente ripulita con uno straccio imbevuto di acqua fredda. Per essere ammessi all’ospedale gli ammalati, riconosciuti dai medici dell’ambulatorio come degni di ricovero, dovevano presentarsi un’altra volta la mattina seguente, subito dopo la sveglia, per subirvi un’altra visita, molto sbrigativa, da parte del medico direttore dei servizi sanitari; se questi confermava la necessità del ricovero, essi erano avviati alla sala delle docce. Quivi subivano la rasatura di ogni pelo, poi erano sottoposti alla doccia e infine erano avviati al reparto dell’ospedale cui erano stati destinati. Per raggiungerlo, dovevano uscire all’aperto, ricoperti di un solo mantello, e percorrere in queste condizioni, in qualunque stagione e con qualunque condizione atmosferica e meteorologica da cento a duecento metri di strada. Nell’interno dei reparti di medicina, il medico capo, aiutato da uno o due infermieri, passava la visita mattutina senza recarsi personalmente al letto degli ammalati, ma erano questi che dovevano scendere dal letto e recarsi da lui, esclusi soltanto coloro che ne fossero assolutamente impediti da particolari condizioni di gravità. La sera veniva eseguita una rapida controvisita.
Nei padiglioni di chirurgia, le medicazioni venivano eseguite la mattina, poiché la camerata era divisa in tre corsie e ogni corsia medicata a turno, ne derivava che ogni degente era medicato soltanto ogni terzo giorno. Le medicazioni erano fissate con bende di carta, che nel giro di poche ore si laceravano e si disfacevano; perciò le ferite, asettiche o no, restavano sempre scoperte.
Soltanto in rari casi e di particolare importanza, le medicazioni venivano fissate con cerotto, che veniva adoperato con la massima parsimonia in ragione della sua scarsità.
Le cure medicamentose erano ridotte al minimo: mancavano assolutamente molti prodotti, anche i più semplici e di uso corrente, mentre di altri non ne esistevano che quantità esigue: c’era un po’ di aspirina, un po’ di piramidone, un po’ di prontosil (unico rappresentante dei sulfamidici), un po’ di bicarbonato, qualche fiala di coramina e qualcuna di caffeina. Mancava l’olio canforato, mancava la stricnina, mancavano l’oppio e tutti i suoi derivati, eccetto piccole quantità di tintura; mancavano la belladonna e l’atropina, l’insulina, gli espettoranti, come pure i sali di bismuto e di magnesia, la pepsina e l’acido cloridrico, mentre i purganti e i lassativi erano rappresentati dalla sola istizina. Invece c’erano discreti quantitativi di exametilentetramina, di carbone medicinale e di tannalbina. Mancavano anche fiale di calcio e qualsiasi preparato ad azione ricostituente. C’era una discreta quantità di evipan sodico per via endovenosa e di fiale di cloruro d’etile per narcosi: quest’ultimo veniva largamente usato anche per interventi di poco conto, come l’incisione di un foruncolo.
Ogni tanto l’armadio farmaceutico era rinsanguato dall’arrivo, al giungere di nuovi convogli di prigionieri, di quantità diverse dei più disparati prodotti e delle più diverse specialità farmaceutiche, molte delle quali inutilizzabili, rinvenute nelle valigie confiscate ai nuovi giunti; ma in complesso il fabbisogno si manteneva sempre di gran lunga superior e alle disponibilità.
Il personale veniva reclutato esclusivamente fra i deportati medesimi. I medici venivano scelti, previo esame, fra coloro che, all’ingresso al Campo, avevano denunciato di possedere la laurea in medicina, con precedenza a coloro che fossero stati padroni della lingua tedesca o polacca.
I loro servizi venivano ricompensati con un miglior trattamento alimentare, e con migliori abiti e calzature. Gli assistenti e infermieri venivano invece scelti senza alcun criterio di precedenti professionali: essi erano per lo più individui dotati di notevole prestanza fisica, che ottenevano la carica – naturalmente assai ambita – grazie alle loro amicizie e relazioni con medici già in funzione o con personale dirigente del Campo. Ne seguiva che, mentre i medici
dimostravano in genere una discreta competenza e un certo grado di civiltà, il personale ausiliario si distingueva per la sua ignoranza, o disprezzo, di ogni norma igienica, terapeutica e umanitaria: esso giungeva al punto di commerciare parte della zuppa e del pane destinati agli ammalati in cambio di sigarette, di oggetti di vestiario e d’altro. Gli ammalati venivano spesso percossi per colpe irrisorie; la distribuzione dei viveri non avveniva in modo regolare e a carico di ammalati che si fossero resi colpevoli di più gravi mancanze – ad esempio, furto di pane a qualche compagno – vigeva come punizione il congedo immediato del reo dall’ospedale, ed il suo rientro immediato al lavoro, previa somministrazione di un certo numero di nerbate (per lo più venticinque) sul dorso, somministrate con molta energia con un tubo di tela rivestita di gomma. Altro genere di punizione era l’obbligo di restare per un quarto d’ora sopra uno sgabello piutto sto alto da terra e col sedile strettissimo, sulla punta dei piedi con le gambe flesse sulle coscie e queste sul bacino e con le braccia distese orizzontalmente in avanti all’altezza delle spalle. Di solito, dopo pochi minuti, il paziente perdeva l’equilibrio per la fatica muscolare e per la debolezza del suo organismo e perciò ruzzolava a terra, con grande divertimento degli infermieri che facevano circolo e lo dileggiavano con frizzi e motti.
Il caduto doveva rialzarsi e, risalito sullo sgabello, riprendere la posizione per il tempo stabilito; se, per le successive cadute, non era più in grado d i farlo, il restante della punizione era liquidato con un certo numero di frustate. L’affluenza degli ammalati era sempre grandissima e superiore alla capacità dei diversi reparti; perciò, per far posto ai nuovi giunti, un certo numero di ammalati veniva giornalmente dimesso ancorché incompletamente guariti e sempre in condizioni di grave debolezza generale; ciononostante, essi dovevano riprendere il lavoro il giorno seguente.
Coloro poi che erano affetti da malattie croniche o il cui soggiorno in ospedale si prolungava oltre un certo periodo di tempo, che si aggirava sui due mesi, o che ritornavano con troppa frequenza in ospedale per ricadute della loro malattia, erano avviati come abbiamo già riferito per i tubercolotici, i luetici e i malarici – a Birkenau ed ivi soppressi nelle camere a gas. La medesima sorte subivano coloro che, essendo troppo deperiti, non erano più
in grado di lavorare. Ogni tanto – all’incirca una volta al mese – si procedeva nelle varie sezioni dell’ospedale alla cosidetta «selezione dei mussulmani» (con questo termine pittoresco erano chiamati appunto gli individui estremamente dimagriti), con la quale si sceglievano i più malandati fisicamente per inviarli alle camere a gas.
Tali selezioni si svolgevano con grande rapidità ed erano eseguite dal medico direttore dei servizi sanitari, davanti al quale tutti i ricoverati sfilavano nudi; ed egli con uno sguardo superficiale giudicava lo stato generale dei singoli, decidendo immediatamente la loro sorte. Alcuni giorni dopo, i prescelti subivano una seconda visita da parte di un capitano medico delle SS., che era il dirigente generale dei servizi sanitari di tutti i Campi dipendenti da Auschwitz. Per amore di verità, dobbiamo dire che questa visita era più minuziosa della precedente ed ogni caso soppesato e discusso; ad ogni modo erano pochi i fortunati che venivano scartati, e riammessi in ospedale per ulteriori cure o rimandati ai lavori considerati leggeri presso altri Comandi: la maggior parte era condannata a morte. Uno di noi fu per ben quattro volte iscritto nella lista dei «mussulmani» ed ogni volta scampò al destino mortale, in grazia soltanto al fatto di essere medico; poiché ai medici – non sappiamo se per una disposizione generale o per iniziativa della direzione del Campo di Monowitz – era risparmiata una simile fine. Nell’ottobre 1944 la selezione, anziché restare limitata ai soli padiglioni dell’ospedale, venne estesa a tutti i «blocchi» -, ma fu l’ultima, ché, dopo quell’epoca, tale ricerca venne sospesa e le camere a gas di Birkenau furono smantellate. Tuttavia in quella tragica giornata erano state scelte 850 vittime, fra cui 8 Ebrei di cittadinanza Italiana.
Il funzionamento delle camere a gas e dell’annesso crematorio era disimpegnato da un Comando speciale, che lavorava giorno e notte in due turni. I membri di questo Comando vivevano a parte, accuratamente segregati da ogni contatto con altri prigionieri o col mondo esterno. Dai loro abiti emanava un odore nauseabondo; essi erano sempre sporchi, e avevano un aspetto assolutamente selvaggio, veramente di bestie feroci. Essi erano scelti fra i peggiori criminali condannati per gravi reati di sangue.
Ci risulta che nel febbraio 1943 furono inaugurati a Birkenau un nuovo forno crematorio e una camera a gas più razionali di quelli che erano stati in funzione fino a quel mese. Essi erano composti di tre parti: la camera di attesa, la «camera delle docce», i forni. Al centro dei forni si ergeva una alta ciminiera, attorno alla quale erano 9 forni, con 4 aperture ciascuno ed ognuna di queste permetteva il passaggio contemporaneo di tre cadaveri. La capacità, di ciascun forno era di 2000 cadaveri al giorno.
Le vittime, introdotte nella prima sala, ricevevano l’ordine di spogliarsi completamente, perché – si diceva loro – dovevano fare il bagno; e, per accreditare maggiormente il turpe inganno, venivano loro consegnati un pezzo di sapone e un asciugamano dopodiché erano fatte entrare nella «camera della doccia». Era questa un grande camerone, nel quale era sistemato un impianto di docce posticce, sulle pareti del quale spiccavano scritte del seguente tenore : «Lavatevi bene, perché la pulizia è la salute», «Non fate economia di sapone», «Non dimenticate qui il vostro asciugatoio!»; cosicché la sala poteva dare l’impressione di essere veramente un grande stabilimento di bagni. Sul soffitto piano della sala c’era una grande apertura, ermeticamente chiusa da tre grandi lastre di lamiera che si aprivano a valvola. Delle rotaie attraversavano la camera in tutta la sua larghezza e portavano da essa ai forni.
Entrate tutte le persone nella camera a gas, le porte venivano chiuse (esse erano a tenuta d’aria) e veniva lanciata, attraverso le valvole del soffitto, una preparazione chimica in forma di polvere grossolana, di colore grigio- azzurro, contenuta in scatole di latta; queste portavano un’etichetta con la scritta «Zyclon B – Per la distruzione di tutti i parassiti animali» e la marca di una fabbrica di Amburgo. Si trattava di una preparazione di cianuro, che evaporava ad una certa temperatura. Nel giro di pochi minuti, tutti i rinchiusi nella camera a gas morivano; allora porte e finestre venivano spalancate e gli addetti al Comando Speciale, muniti di maschera, entravano in funzione per il trasporto dei cadaveri ai forni crematori.
Prima di introdurre le salme nei forni, appositi incaricati recidevano i capelli a coloro che li avevano ancora, e cioè ai cadaveri di quelle persone che, appena giunte con un trasporto, erano state subito portate al macello, senza
entrare nei Campi; ed estraevano i denti d’oro a quelli che ne avevano. Le ceneri, come è noto, venivano poi sparse nei campi e negli orti, come fertilizzanti del terreno.
Verso la fine del 1944 giunse al Campo di Monowitz la disposizione che tutti i medici presenti nel Campo fossero esonerati dai lavori nei Comandi e venissero impiegati nelle diverse Sezioni ospedaliere come medici o, in mancanza di posti disponibili, come infermieri; prima di essere addetti al nuovo lavoro essi dovevano, per la durata di un mese, far pratica nelle diverse Sezioni ospedaliere, mediche e chirurgiche, seguendo un certo turno e contemporaneamente dovevano seguire un corso teorico d’insegnamento sull’organizzazione sanitaria dei Campi di concentramento, sul loro funzionamento, sulla caratteristica patologia dei Campi, sulle cure da praticare ai malati. Tali disposizioni vennero regolarmente attuate e il corso fu iniziato nei primi giorni del gennaio 1945; ma verso la metà dello stesso mese, esso fu interrotto, data la travolgente offensiva russa sulla direttiva Cracovia-Kattowitz-Breslavia, di fronte alla quale le Armate tedesche si dettero a precipitosa fuga. Anche il Campo di Monowitz, come tutti gli altri della regione di Auschwitz, fu fatto sgombrare e i tedeschi si trascinarono dietro circa 11.000 prigionieri, che, secondo le notizie ricevute più tardi (da qualcuno miracolosamente scampato, vennero quasi tutti trucidati a raffiche di mitragliatrice pochi giorni dopo, allorché i soldati di scorta si accorsero di essere completamente circondati dalle armate rosse e di non aver quindi più ne ssuna via aperta alla ritirata. Essi avevano già percorso a piedi una settantina di chilometri, quasi senza fermarsi, sprovvisti di viveri, ché quelli ricevuti prima della partenza dal Campo erano consistiti soltanto in un chilogrammo di pane, 75 grammi di margarina, 90 grammi di salame e 45 di zucchero. In seguito erano stati caricati su diversi treni che, avviati in diverse direzioni, non poterono raggiungere alcuna mèta. Avvenne allora la strage dei sopravvissuti a tanta sovraumana fatica ; molti – forse tre o quattro mila – che si erano fermati affranti lungo la strada, erano già stati massacrati sul posto a colpi di pistola e col calcio dei fucili dai soldati di scorta.
Nel Campo intanto non era rimasto che un migliaio di prigionieri inabili, ammalati o convalescenti, incapaci di camminare, sotto la sorveglianza di
alcune SS., le quali avevano ricevuto l’ordine di fucilarli prima di abbandonarli. Ignoriamo perché quest’ultima disposizione non sia stata eseguita; ma, qualunque ne sia stata la ragione, a questa sola i sottoscritti devono di essere ancora in vita. Essi erano stati trattenuti nell’ospedale, l’uno comandato per l’assistenza medica dei ricoverati, l’altro perché convalescente. L’ordine di assistere gli ammalati non poteva essere eseguito che moralmente, poiché una assistenza materiale era resa impossibile dal fatto che i tedeschi, prima di abbandonare il Campo, avevano fatto sgombrare l’ospedale di ogni medicinale e di ogni strumento chirurgico: non si trovava più né una compressa di aspirina, né una pinza da medicazione, né una compressa di garza.
Seguirono giorni altamente drammatici; molti ammalati morirono per la mancanza di cure, molti per esaurimento, poiché anche i viveri mancavano. Mancava anche l’acqua, la cui conduttura era stata distrutta da un bombardamento aereo avvenuto proprio in quei giorni. Soltanto la fortuita scoperta di un deposito di patate, interrato in un campo adiacente per preservarle dal gelo, permise ai meno deboli di nutrirsi e di resistere fino al giorno in cui i russi, finalmente arrivati, provvidero con larghezza alla distribuzione di viveri.
Fonte: MINERVA MEDICA, A. XXXVII, vol.II, n. 47, 24 novembre 1946, pp. 535-544.
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