Recentemente ho commentato “Sensation” di Rimbaud:
http://www.psychiatryonline.it/node/9951
In quell’articolo, scrivevo:
Winnicott, in un articolo ripreso recentemente da Ogden, tenta un’impresa impossibile: descrivere a parole quel che per definizione è ineffabile e impensabile. Si tratta del nucleo centrale del nostro mondo interno: la parte più antica di noi con la quale e dalla quale la comunicazione ordinaria non può esserci [Nucleo del tutto immune dalle influenze della realtà esterna]. Essa è capace di trasmettere solo all’oggetto primo d’amore [e a sé stessa] questo messaggio fondamentale: “Io vivo”. Lo fa, dice Winnicott, con un linguaggio che non è né verbale, né extra-verbale; e la cosa è possibile perché la madre arcaica vive il suo piccolo come un prolungamento di sé stessa: un “oggetto soggettivo”, nel linguaggio winnicottiano. Da tale nucleo, sostenuto dalla completa immersione empatica materna, deriva il sentimento di verità che riguarda, innanzi tutto, la realtà dell’esistenza del soggetto e, con essa, la realtà del mondo intero.
Ogden nota che, nella parte finale del suddetto scritto, Winnicott usa un linguaggio poetico: non potrebbe fare altrimenti poiché si tratta di una realtà che non possiamo definire e pensare, ma soltanto vivere o evocare come esperienza, e le metafore della Poesia hanno il potere di produrla. È la stessa esperienza che vive il bambino quando, periodicamente, si rifugia in grembo e fra le braccia della mamma; la Mahler la definisce “emotional refueling”, ossia un “rifornimento” affettivo paragonabile a quello di carburante di un veicolo. È la stessa esperienza “sognante” che viviamo quando riusciamo ad immergerci completamente nella migliore Musica, o nella migliore Poesia, oppure in Madre Natura, come Rimbaud c’invita a fare in “Sensation”. Non occorre parlare né pensare: sono le sensazioni tattili, olfattive e uditive del contatto con questa Madre che ispirano, senza parole, un “infinito amore”: il sentimento più autentico che, purificandoci da tutte le falsità e le mistificazioni del mondo, ci aiuta a ritrovare chi realmente siamo, a riscoprire che veramente esistiamo.
Troviamo un’esperienza soggettiva del tutto simile varcando il confine fra salute e patologia; parlo di particolari stati mentali di tipo catatonico. Il paziente si isola dal mondo, e riprendere il contatto con lui è difficile, a volte impossibile: è come se questa persona fosse profondamente addormentata, oppure morta per quanto riguarda i rapporti interpersonali abituali. In certi casi, si lascia effettivamente morire. Eppure, paradossalmente, tali stati mentali rappresentano l’estremo baluardo difensivo, il cui scopo è preservare l’esistenza soggettiva (in quel nucleo arcaico e centrale della vita interiore di cui parlavo più sopra) da un mondo vissuto come ostile e insopportabile. La Poesia ci trasmette l’esperienza vissuta di tali situazioni meglio di qualsiasi descrizione clinica. Ad esempio, l’Ophélie di Rimbaud, che si può considerare come la traduzione in parole del famoso quadro di Millais:
I
Sur l’onde calme et noire où dorment les étoiles
La blanche Ophélia flotte comme un grand lys,
Flotte très lentement, couchée en ses longs voiles.
– On entend dans les bois lointains des hallalis.
Voici plus de mille ans que la triste Ophélie
Passe, fantôme blanc, sur le long fleuve noir ;
Voici plus de mille ans que sa douce folie
Murmure sa romance à la brise du soir.
Le vent baise ses seins et déploie en corolle
Ses grands voiles bercés mollement par les eaux ;
Les saules frissonnants pleurent sur son épaule,
Sur son grand front rêveur s’inclinent les roseaux.
Les nénuphars froissés soupirent autour d’elle ;
Elle éveille parfois, dans un aune qui dort,
Quelque nid, d’où s’échappe un petit frisson d’aile :
– Un chant mystérieux tombe des astres d’or.
[I – Sull’onda calma e nera dove dormono le stelle / la bianca Ofelia galleggia come un gran giglio, / ondeggia lentamente, distesa nei lunghi veli / – Si sentono, lontani nel bosco, gli hallalì. // Da più di mille anni la triste Ofelia / passa, bianco spettro, lungo il fiume nero; / da più di mille anni la sua dolce follia / mormora la sua romanza alla brezza della sera. // Il vento bacia i suoi seni, e scioglie in corolle / la grande veste, dalle acque cullata mollemente; / i salici frementi piangono sulla sua spalla, / sull’ampia fronte sognante s’inchinano i giunchi. // Le ninfee accartocciate le sospirano intorno; / talora ella desta, in un ontano che dorme, / un nido da cui scappa un fremito di ali: /
– Un canto misterioso scende dagli astri d’oro.]
Il Poeta, qui, è molto vicino a questa creatura, ritratta in uno stato di completa passività ed abbandono. È avvolta dalla natura, come da una madre che protegge la tranquillità della sua piccola. Come una madre affettuosa, l’ambiente naturale sembra cercare in ogni modo di non turbare, con la sua pur necessaria presenza, il silenzio e l’immobilità che occorrono alla bambina: i suoni giungono alle orecchie di questa ed alle nostre come vaghi ed attutiti; i movimenti trasmessi dalle acque sono lenti e delicati, come braccia amorevoli che cullano dolcemente una creatura. Dolce ed attenuato è anche il contatto sulla sua pelle delle cose: la sfiorano, “sospirano” vicino a lei, la baciano con delicatezza; e, se qualcosa si muove accanto a lei, è come un frusciare d’ali, quasi confuso con il silenzio. Non esiste più quello scorrere del tempo di cui gli esseri del mondo esterno, nel loro muoversi e divenire, sono schiavi: possono passare pochi minuti come pure mille anni per chi vede la scena dal di fuori, ma chi la vive è immerso in una dimensione dove tutto è fermo e immutabile per l’eternità. Ofelia “mormora la sua romanza alla brezza della sera”, ma si tratta di un messaggio che i profani non possono ascoltare. Le fa eco il “canto misterioso che scende dagli astri d’oro”. È la “musica astrale” di Pitagora, il suono di una perfetta armonia che può essere inteso solo da chi ne fa parte.
II
O pâle Ophélia ! belle comme la neige !
Oui tu mourus, enfant, par un fleuve emporté !
C’est que les vents tombant des grands monts de Norwège
T’avaient parlé tout bas de l’âpre liberté ;
C’est qu’un souffle, tordant ta grande chevelure,
A ton esprit rêveur portait d’étranges bruits ;
Que ton cœur écoutait le chant de la Nature
Dans les plaintes de l’arbre et les soupirs des nuits ;
C’est que la voix des mers folles, immense râle,
Brisait ton sein d’enfant, trop humain et trop doux ;
C’est qu’un matin d’avril, un beau cavalier pâle,
Un pauvre fou, s’assit muet à tes genoux !
Ciel ! Amour ! Liberté ! Quel rêve, o pauvre Folle !
Tu te fondais à lui comme une neige au feu :
Tes grandes visions étranglaient ta parole
Et l’Infini terrible effara ton œil bleu !
II – O pallida Ofelia! Bella come la neve! / Sì, tu moristi, fanciulla, da un fiume rapita! / È che i venti che scendevano dai grandi monti di Norvegia / t’avevano parlato sommessamente dell’aspra libertà; // è che un soffio, torcendo la tua gran capigliatura, / al tuo spirito sognante portava rombi strani; / e il tuo cuore ascoltava il canto della Natura / nei gemiti delle piante e nei sospiri delle notti; // è che l’urlo dei mari folli, immenso rantolo, / spezzava il tuo seno di bambina, troppo umano e dolce / è che, un mattino d’aprile, un bel cavaliere pallido, / un povero pazzo, si sedette muto appoggiandosi ai tuoi ginocchi! // Cielo! Amore! Libertà! Che sogno, o povera folle! / Tu ti scioglievi a lui come la neve al fuoco: / le tue grandi visioni strozzavano la tua parola / e l’Infinito orribile sgomentò i tuoi occhi azzurri!
Ora è come se Rimbaud facesse un passo indietro, discostandosi dall’esperienza soggettiva di Ofelia immersa nelle acque per considerarne il contesto e gli eventi precedenti. Da questo punto di vista non c’è più un’esistenza immobile per l’eternità: c’è una realtà terribile in cui tutto cambia, e che procede inesorabilmente verso la fine. C’è il risultato dell’esperienza traumatizzante di una ragazza, ancora fragile ed ingenua come una bambina, brutalmente travolta dal vento delle passioni e dall’impatto con le scelleratezze di cui è capace l’essere umano. Privata bruscamente della protezione che occorre nell’infanzia, ha dovuto affrontare con le sue deboli risorse tutte le asprezze della vita che un’esistenza libera e adulta dovrebbe saper sopportare. Alle sue orecchie, abituate ad avvertire soltanto suoni dolci ed attenuati, giunsero di colpo i rumori assordanti, per lei ancora del tutto estranei, di quanto nella natura è simbolo della follia e della ferocia disumane. A nulla valsero, per confortarla, il “pianto degli alberi e i sospiri della notte”: i suoni non del tutto spenti della “madre-ambiente”. Causa di tutto questo fu il suo essersi perdutamente innamorata di un giovane che, visto con gli occhi di chi guarda dal di fuori, appare come un “povero folle”, travolto a sua volta dalla brutale scoperta della crudeltà e del tradimento tra i suoi cari. A lei apparve solo l’immagine idealizzata del “cavaliere pallido”, del Principe di fronte al cui fascino le sue fragili capacità di resistenza e di auto-tutela si sciolsero come neve al sole. Attratta da questa esperienza di infinito e tragico amore, la sua esistenza individuale minacciava di perdersi. A lei non restò altra scelta che rifugiarsi in quel nucleo silente ed incomunicabile della vita interiore dove giunge soltanto la “musica degli astri” (cui i profani sono sordi), sfuggendo ai rumori ed alle sollecitazioni travolgenti di un mondo esterno troppo minaccioso; un estremo rifugio che le consentiva di sentire che ancora esisteva.
III
Et le Poète dit qu’aux rayons des étoiles
Tu viens chercher, la nuit, les fleurs que tu cueillis ;
Et qu’il a vu sur l’eau, couchée en ses longs voiles,
La blanche Ophélia flotter, comme un grand lys.
III – Ed il Poeta dice che, ai raggi delle stelle, / vieni a cercare, di notte, i fiori che cogliesti; / e che ha visto sull’acqua, coricata sui suoi lunghi veli, / fluttuare la bianca Ofelia, come un gran giglio.]
Qui è come se Rimbaud si ricordasse di sé stesso: pur rapito dall’esperienza soggettiva di Ofelia e dalle sue vicende, egli si rende conto d’essere, al tempo stesso, il Poeta che sta scrivendo versi. È consapevole d’essere l’unico possibile tramite fra il mondo completamente isolato di Ofelia e quello dei suoi lettori, immersi nella vita ordinaria. Lo fa accogliendo nella sua mente e nel suo animo la natura di quest’essere simile ad un fiore la cui bellezza esiste solo per chi la sa vedere; la cui esistenza muta e immobile è avvertita solo da chi sa comprendere che si tratta pur sempre di una forma d’esistenza.
L’atteggiamento del Poeta rappresenta, mutatis mutandis, un modello di comportamento che a noi psichiatri conviene adottare in forme di catatonia ancora trattabili con strumenti farmaco-psicoterapici. Condizioni indispensabili sono la tranquillità dell’ambiente e l’assoluta assenza di fretta da parte del curante. Come una madre col suo piccolo che sta riposando, occorre che il terapeuta, da un lato, assecondi il silenzio e l’immobilità del paziente. D’altro lato è anche necessario che, pur empaticamente immerso nel mondo interno del malato, il curante non si dimentichi d’essere un medico; occorre cioè che cerchi, con la massima delicatezza possibile, di ricordare al catatonico l’esigenza d’assumere liquidi, cibo e medicinali. Glielo si può comunicare con un tono di voce che sia, il più possibile, non urtante, e si può porre accanto a lui ciò che è opportuno egli assuma. Aspettando tutto il tempo necessario, succede spesso che il malato, lentamente e spontaneamente, allunghi la mano per prendere ed assumere quel che gli è stato consigliato.
Purtroppo succede talora che la catatonia si presenti in forma “perniciosa”: si ha un rapido coinvolgimento somatico che rischia d’essere fatale per il paziente. Esattamente come farebbe una madre in circostanze analoghe, è necessario che qui il medico accantoni temporaneamente la delicatezza ed agisca con la massima tempestività ed energia possibile. Il più delle volte occorre una terapia di shock. Tuttavia, anche in questo caso, è necessario che, appena superato il pericolo, il terapeuta riprenda il suo ruolo di tramite fra il mondo interno del paziente, ancora più o meno isolato, e la realtà esterna.