Ivan Cavicchi è stato Direttore Generale di Farmindustria. Prima di ricoprire questo incarico, è stato Responsabile Nazionale del Dipartimento della Sanità della CGIL. Laureato ad honorem in Medicina, insegna Sociologia Sanitaria presso l'Università di Roma "La Sapienza". Ha fondato e dirige la rivista Keiron ed è autore di diversi libri, fra i quali: "Il malato inguaribile. Il significato della medicina" (Editori Riuniti, 1998), "Il rimedio e la cura" (Editori Riuniti, 1999), "La medicina della scelta" (Bollati Boringhieri, 2000) e "Salute e federalismo. Forma e contenuti dell'emancipazione" (Bollati Boringhieri, 2001).
L'intervista, lunga e articolata, si è svolta il 3 dicembre 2001 nei locali di Farmindustria a Roma.
Scientificità e psichiatria
Bandinelli: In parecchie occasioni, lei ha criticato la Evidence Based Medicine (EBM), alla quale si fa molto riferimento anche nel campo della psichiatria. Cosa ne pensa, oggi?
Prof. Cavicchi: Colpisce molto che la logica filosofica della Evidence Based Medicine sia tanto recepita dal mondo della salute mentale e della psichiatria, perché se c'è un ambito nel quale la complessità è sovrana è proprio quello della salute mentale. Cosa diversa è parlare di Evidence in un laboratorio di analisi o in epidemiologia: se si toglie la statistica ad un epidemiologo è come se gli si togliesse l'epidemiologia. Questa ubriacatura è cominciata nel '92, ma nel mondo sta scemando. A Maastricht hanno costituito un gruppo di sette-otto paesi per studiare gli impatti etici della EBM sulla cura e stanno emergendo cose molto interessanti.
Dietro cosa c'è? La ricerca di scientificità. Proprio nell'ambito della salute mentale, però, si dovrebbero esplorare forme più avanzate e moderne di scientificità, che non sono quelle statistiche. Il dibattito sulla filosofia della scienza del '900 si è concluso consegnando al nuovo secolo e al nuovo millennio spazi di riflessione di indubbio interesse su ciò che è o non è scientifico. Perché non esplorare in questa direzione? Oltre all'evidenza statistica c'è, per esempio, l'ottimalità espistemica: è un criterio scientifico. Perché non lo utilizziamo in psichiatria?
La discussione sulla scienza e la filosofia della scienza e l'analisi che io faccio, almeno per quanto riguarda la medicina, individuano un terreno di crisi, crisi come divenire, come processo che trasforma. Al fondo, c'è la criticità di quelli che sono considerati i criteri di validazione scientifica.
Che cos'è la scienza? Un insieme di conoscenze validate. Ma i sistemi di validazione delle conoscenze sono cambiati e sono in discussione: considero la EBM – che non disprezzo, per carità – uno strumento come altri. Anch'io ne vedo l'utilità e ne propugno l'uso.
Mi lascia molto perplesso, invece, l'atteggiamento dogmatico di quelli che scherzosamente e benevolmente chiamo "gli evidenziatori". Ho perplessità a trasformare l'evidenza in una sorta di verità apodittica, nel momento in cui le verità apodittiche sono entrate in crisi.
Il mondo della salute mentale, della psichiatria, secondo me è un mondo nevralgico per esplorare nuove forme di scientificità, cioè nuove forme di validazione del sapere e della conoscenza. Io sfido ad applicare la EBM in un setting terapeutico, per esempio.
Medicina amministrata e medicina della scelta
D: Dalla lettura dei suoi scritti, mi sembra che le critiche che lei solleva alla EBM si collochino nella più generale cornice del rapporto fra sanità e medicina, che lei vede attualmente concretizzato in modo "lineare", cioè a senso unico, fino a farla parlare di "medicina amministrata": il potere tecnocratico degli amministratori della sanità esercitato sulla medicina. La EBM in questo contesto non sarebbe uno strumento fra gli altri, ma "lo" strumento utilizzato per avallare, dare scientificità a questa politica.
R: E' vero. In fin dei conti dietro all'idea di evidenza c'è un vecchio sogno cartesiano: quello di matematizzare il mondo. In questo sogno c'è una metafora della macchina, e se c'è una metafora che non funziona nel campo della salute mentale è proprio quella della macchina cartesiana. Su questo non credo ci siano dubbi. Matematizzare una cosa che non è una macchina è molto problematico.
Molti collocano la EBM nel costruttivismo. Invece secondo me è la riproposizione – niente più e niente meno – di un vecchio cartesianesimo, che va messo in discussione, rivisitato e ristudiato, anche perché non è tutto da buttar via.
Quello che lei dice è giusto: infatti la "medicina della scelta", che è anche il titolo del mio penultimo libro, si propone come un pensiero che si oppone ad una medicina che non permetta di scegliere, la "medicina amministrata". La medicina amministrata è una medicina vittima dell'economicismo, dei problemi finanziari della sanità, vittima dei limiti economici. L'economicismo non è l'economia. L'economia è una disciplina scientifica molto rispettabile, l'economicismo è un'ideologia che non antepone niente al limite economico, neanche i diritti dell'uomo: un'ideologia pericolosa. La medicina amministrata nasce nel momento in cui si toglie al medico e alla medicina la titolarità della valutazione sulla necessità clinica.
Oggi è già difficile decidere su cosa è necessario, clinicamente parlando. Pensi alla discussione sui Livelli Essenziali di Assistenza, pensi ai farmaci che a fasi alterne erano essenziali o non essenziali a seconda di come girava il bilancio: cosa vuole dire essenziale è, in medicina, un problema enorme.
Il punto, poi, è chi decide cosa è necessario. Nell'occidente, per ragioni economicistiche, la decisione su cosa è necessario si sta spostando sempre più su soggetti amministrativi, non su soggetti clinici. Si può fare in tanti modi: con le Linee Guida, coi DRG, con gli Standard, con i Livelli Essenziali di Assistenza. In tanti modi. Dietro c'è un ideale pericoloso: quello di eteroguidare l'atto medico, eteroguidare la scelta clinica.
Si presuppone quella che io chiamo l'indiscernibilità dei malati. E' pericoloso, perché i malati, invece, sono tutti diversi, non tutti uguali. Due malati della stessa malattia sono due malati diversi.
La medicina della scelta e la critica alla EBM vanno collocate in questo contesto. La EBM, malgrado le intenzioni di coloro che l'hanno propugnata, viene usata come potente giustificazione per selezionare le prestazioni, per ridurre quello che io chiamo il vissuto dell'operatore.
Sono convinto che un operatore e in particolare, nel campo della salute mentale, uno psichiatra – l'ho detto al congresso della Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica ed è stato molto criticato, ma io resto convinto delle mie idee – scelga, formuli un giudizio, faccia una valutazione con tutto sé stesso. Altrimenti il dibattito sull'intenzionalità dove lo mettiamo? Eppure la radice fenomenologica della psichiatria ha recuperato l'idea di intenzionalità. Tutta la problematica delle credenze, dove la mettiamo? Il grande problema del rapporto osservatore / realtà osservata dove lo mettiamo? Ormai abbiamo messo tra parentesi l'oggettività in senso tradizionale. Anche la proposizione più oggettiva è una relazione fra noi e il mondo: quello che pensiamo sia oggettivo non è un predicato del mondo, è una relazione tra noi e il mondo. Per questo io continuo per la mia strada, che è lunga e faticosa.
La formazione: un doppio livello
D: Nell' impostazione "lineare"del rapporto tra sanità e medicina, usando i criteri di scientificità detti, la formazione del medico sembra vincolata: apprendere ad applicare strumenti molto definiti. Altrove lei ha parlato di "maximedicina", riferendosi al grande sviluppo delle possibilità scientifiche, e di " minimedico", riferendosi ad un medico che viene sempre più limitato nelle opzioni.
La formazione mi sembra un elemento essenziale nella sua visione della medicina: quale tipo di formazione?
R: La formazione è il cuore del problema.
Vedo due strade: una è continuare secondo la formazione classica dell'Università che insegna "che cosa fare", riempie di nozioni, informazioni, conoscenze. L'altra, che è nuova – relativamente, perché è quella battuta nell'antichità – è puntare non su "cosa fare" ma su "chi fa".
Se insegno il "cosa fare" rispetto a certe situazioni, non faccio altro che compilare un lungo elenco di nozioni: il problema è memorizzarle e usarle quando servono. Se invece punto sul "chi fa", non punto sulle nozioni, ma su quelle che Aristotele chiamava le virtù. Le nozioni si possono dimenticare. Le virtù sono come abiti che si indossano sempre. Si è frettolosi, si è pazienti…sono stili. Ecco, le virtù sono stili operativi, comportamentali.
Penso che bisognerebbe educare "chi fa" a scegliere. La medicina della scelta, intesa sempre in rapporto ad una realtà non astratta, non teorica, non modellizzata. Una realtà concreta, fatta di un uomo in mutande, di una certa età, in un certo posto, che ha una certa malattia, una certa storia.
La medicina della scelta si occupa di formare un operatore capace di mediare nel modo più conveniente con la situazione, con la realtà, con la contingenza.Mediare in modo conveniente si deve intendere esattamente secondo il pensiero dei pragmatisti: la convenienza, per il pragmatista, è la grandissima capacità di mettersi in rapporto con una realtà non modellizzabile, che sfugge a qualsiasi modello.
"Cosa fare" è un tipo di formazione; "chi fa", è un altro.
Le anticipo quello che è il punto di riflessione del mio prossimo libro: io mi chiedo che cosa formi le virtù. Aristotele era convinto che le virtù si formassero con l'esempio. Ora, lei pensi al ruolo dell'esempio nella formazione universitaria: se c'è una formazione, oggi, priva di esempi è proprio la medicina. Non c'è pratica, non c'è esperienza.
Ci imbattiamo fatalmente in una formazione che è perlomeno a due livelli: c'è il livello classico, che io chiamo il primo livello, quello della formazione disciplinare, in cui le insegno istologia, psicologia. C'è anche, però, un secondo livello, quello della metamedicina, che noi abbiamo abbandonato da qualche secolo, ma che nei secoli scorsi era parte integrante della formazione del medico: al suo interno c'è la filosofia della medicina.
Si studiano i trattati di semeiotica clinica, ma nessun medico ha mai studiato semeiotica generale. Secondo me, per fare semeiotica clinica si deve sapere cos'è la semeiotica generale. Si parla di ragionamento ipotetico deduttivo, che è il ragionamento base della clinica, però nessun medico è formato alla logica, cioè alla disciplina che si occupa dei ragionamenti corretti e scorretti. Si suppone che esista solo la logica aristotelica: invece di logiche ce ne sono tante. Perché non dobbiamo educare il medico alle logiche?
Ecco dov'è il discorso della scelta. Lei si trova in una contingenza concreta, con un malato particolare: cosa può scegliere? Dovrebbe poter scegliere fra ragionamenti diversi, tra logiche diverse, tra deduzioni diverse. Chi ha detto che c'è solo il ragionamento ipotetico deduttivo? Non c'è quello pratico deduttivo? Non c'è l'inferenza pratico-deduttiva? Perché non si debbono insegnare ad un medico?
Ponendo il problema del "chi fa", la formazione assume inevitabilmente la configurazione di un doppio livello: metadisciplinare e disciplinare. Quello metadisciplinare orienta il soggetto; quello disciplinare soddisfa il quesito del "cosa fare".
Lo Statuto e il Codice di Farmindustria
D: L'attuale Codice deontologico di Farmindustria è molto rigido sia sugli aspetti più noti – come il contrastare il cosiddetto " turismo congressuale", non so poi quanto sia applicato – che su altri aspetti, come l'informazione sui farmaci: richiede che le citazioni siano integrali, non avulse dai contesti, prive di enfasi mistificanti, mirando a distinguere al massimo tra informazione scientifica e "pubblicità" sul farmaco. Questo può essere un elemento di informazione-formazione disciplinare.
In che modo Farmindustria pensa di intervenire sui temi dell'Educazione Continua in Medicina (ECM) e dell'accreditamento?
R: Il nostro Codice deontologico nasce da un atto che non è stato colto nella sua importanza, ma che è invece un atto importante: la modifica dello Statuto di Farmindustria. Nel nuovo Statuto di Farmindustria, l'interesse peculiare, particolare, dell'Industria Farmaceutica Associata deve cercare la compatibilità con gli interessi generali.
In questo campo, l'interesse privato non è autoreferenziale: deve essere, per ovvie ragioni, compatibile con gli interessi generali. Si producono i farmaci per fare salute pubblica, si fa ricerca scientifica per creare un valore aggiunto ad una civiltà. Naturalmente questo vuol dire anche fare i soldi, ma fare i soldi all'interno di un'etica della politica industriale.
E' una discontinuità molto forte col passato: nel vecchio Statuto l'interesse industriale era autoreferenziale, non comparivano mai le parole "malato", "paziente", "valore sociale". Il nuovo Statuto invece prevede queste cose ed è un cambiamento paradigmatico estremamente importante.
Il Codice ne è la diretta conseguenza: l'idea del Codice era superare quello che i giornali hanno volgarizzato in "turismo-scienza". Non si può fare turismo con la scusa della scienza: si deve fare scienza.
Se poi insieme c'è un po' di turismo, fa bene allo spirito, ma il contrario no, non va bene.
D: Il Codice limita fortemente anche le donazioni strumentali o di qualsiasi altro tipo: un conto è informazione e promozione dei farmaci e un altro è "premiare" chi prescrive.
R: Esatto. E' una battaglia serratissima. Non vogliamo essere ipocriti: questo è un campo di grande delicatezza perché è anche quello nel quale si manifesta una concorrenza a volte poco corretta.
Chi influenza il comportamento prescrittivo di un medico fa concorrenza "sleale" ad un'altra azienda che invece adotta comportamenti corretti. La questione è delicata non solo sul piano etico, ma anche su quello economico: ci sono forme di concorrenza sleale, mentre noi siamo favorevoli a forme di concorrenza leali e trasparenti.
Di nuovo, non voglio essere ipocrita: l'informazione scientifica non è fine a sé stessa. Le Aziende farmaceutiche non sono filantropi che fanno informazione perché vogliono educare il mondo. L'informazione scientifica è abbinata alla promozione del farmaco. Non c'è nulla di male. Quello che è sbagliato è promuovere il farmaco in modo irregolare o illecito. Se il farmaco è promosso in modo trasparente, regolare e scientifico, non c'è nulla di male.
Tutti dovrebbero essere tenuti a rispettare le regole.
Distinguere tra informazione e promozione del farmaco è un'ipocrisia inutile.
Lo dico perché ci sono scuole di pensiero che puntano a separare le cose, fare solo informazione e addirittura scaricarne i costi sullo Stato: non va dimenticato che l'informazione scientifica sui farmaci la fa solo l'industria, nessun altro la fa. Questo non vuol dire che la debba fare solo l'industria. La può fare chiunque, si accomodi pure. Però deve sapere che costa. C'è un costo.
Per quanto riguarda l'Educazione Continua in Medicina: non ho nulla contro, però se prendo il discorso sulla formazione che facevo prima, la ECM non è la soluzione. Io propongo di ripensare la formazione di base perché propongo un paradigma formativo diverso. Invece la ECM agisce nel paradigma dato. Lei è psichiatra: sta in un bel paradigma, poi ogni tanto se ne va ad un convegno ad ascoltare le ultime novità di genetica. Non esce dal suo paradigma. Io ho in mente una discontinuità di tipo paradigmatico.
Buttiamo via la ECM? No, ma dobbiamo sapere che resta nell'ambito di un aumento delle nozioni, di una crescita del "che cosa"; non è mirata a "chi fa".
Se poi si parla di accreditamento, di punti – io li ho chiamati punti Star – bisogna stare attenti perché il rischio di spacciare per iniziative scientifiche cose che non lo sono è molto forte. Bisogna essere cauti.
Interconnettere etica, scienza, economia
D: Mi sembra che un'idea chiave – sulla quale lei torna in molti suoi scritti e che è anche presente nell'impostazione della rivista Keiron, da lei fondata e diretta, e nel Codice – sia l'interconnessione fra etica, scienza ed economia. Una cornice entro la quale collocare le scelte.
Non credo sia facile.
Nell'ultimo anno c'è stata la vicenda dei farmaci antivirali in Africa, il processo di Pretoria, con le ulteriori evoluzioni fino alla recente conferenza dell'Organizzazione Mondiale del Commercio a Doha.
Mesi fa, in un intervento, lei disse che si stava creando una nuova apartheid: quella dei paesi poveri verso i paesi ricchi. Le Case Farmaceutiche avevano offerto a Mandela fin dall'87 i farmaci a prezzi ridotti, incontrando un rifiuto perché il suo obiettivo vero sarebbe stato la lotta contro i brevetti. Lei disse anche che, se le cose fossero andate così, sarebbero diminuiti i fondi per la ricerca, che in fin dei conti è l'unica strada per l'eradicazione della malattia. Espresse anche l'opinione che citare il governo di Pretoria in giudizio era stata una pessima idea.
R: E' stata una sciocchezza. Portare Mandela in Tribunale era come schiaffeggiare Gandhi: una sciocchezza anche mediatica.
Non voglio ridefinire tutto in positivo a qualunque costo, ma la vicenda di Pretoria ha avuto il merito di accendere i riflettori su una vera tragedia. Dietro Pretoria, al di là del Tribunale, ci sono centinaia e centinaia di migliaia di persone che muoiono. Con l'Africa il discorso è tutto a parte. Dietro al farmaco e all'AIDS, c'è l'Africa. Lì diventa problematica anche la somministrazione del farmaco…
Etica, scienza ed economia sono aspetti indivisibili in un farmaco. Nell'Aspirina c'è etica, scienza, economia. E' la caratteristica di base di questo settore, che ho tentato di cogliere. La rivista, Keiron, è articolata proprio su questa triade. Keiron – che, le assicuro, è faticosissima da fare – prende in esame i rapporti fra questi tre mondi, a proposito dei diversi argomenti. Non per dedurne delle sintesi – la complessità ci ha insegnato che non è possibile fare una sintesi: se mai se ne possono fare tante e c'è bisogno di una convenzione per metterle d'accordo – ma proprio per tentare l'interconnessione, per farne emergere un senso, un significato nuovi. Questo è il tentativo di Keiron.
Per quanto riguarda il Sud Africa, i brevetti, i paesi ricchi, i paesi poveri…Qui il problema dell'etica, della scienza e dell'economia è ancor più forte perché passiamo a dimensioni planetarie. E' intollerabile che mezza terra faccia la dieta e mezza faccia la fame.
L'Industria farmaceutica ha commesso una sciocchezza, un errore gravissimo, che però ha aperto la strada alla ricerca di soluzioni che mediassero tra l'esigenza di mantenere il brevetto e quella di curare chi sta male e non può comprare i farmaci. Mantenere il brevetto è una necessità economica, scientifica ed etica. Perché? Se lei investe soldi per inventare questo portacenere, che non è tutelato come invenzione, io posso copiarglielo e divento un suo concorrente sleale, perché il costo, e quindi il prezzo, che posso proporre io è quattro volte più basso del suo.
Il brevetto è una necessità per la scienza e la ricerca scientifica: senza brevetto, non c'è ricerca scientifica. L'Italia è proprio l'esempio tipico: è il paese che ha il più alto numero di me too, cioè di farmaci copia. Perché? Perché è stato l'ultimo paese ad introdurre la copertura brevettale.
L' abbiamo introdotta da pochissimi anni. Non solo non c'è stata ricerca scientifica, ma c'è stata una moltiplicazione dei me too. Gli altri paesi europei non hanno il problema che abbiamo noi: la Germania mise il brevetto sull'aspirina al Congresso di Vienna, con Clemente Metternich. Solo la Bayer può scrivere "Aspirina": questo diritto glielo dà – nientemeno! – il Congresso di Vienna.
Si deve mantenere il brevetto, perché incentiva la ricerca scientifica; però si deve anche curare la gente che sta male. E questo è garantito dagli accordi internazionali. Prima si consentiva il superamento del brevetto solo in caso di "emergenza"; l'ultimo accordo di Doha parla invece di possibilità di derogare dal brevetto nei casi di "necessità", che sono la realtà comune.
Naturalmente, per derogare ci vuole la contrattazione. E' su questo che criticavo il Sud Africa. Lasciando fuori Mandela (io appartengo ad una generazione che ha fatto di Mandela il proprio simbolo, e ancora continua ad esserlo), il Sud Africa, però, ha fatto pagare ai sudafricani un alto prezzo: per esempio il Ministro della Sanità del Sud Africa ha negato per molti anni la validità terapeutica dei farmaci antivirali, e insisteva a curare l'AIDS con la medicina tradizionale, lo yoga, la musica… Per anni in Sud Africa hanno negato l'emergenza AIDS. Ci sono dei chiaroscuri nella vicenda.
Sono abbastanza contento dell'ultimo accordo fatto, perché mi pare un ottimo compromesso, che permette di salvaguardare le due esigenze, senza alterare più di tanto i bilanci delle aziende farmaceutiche.
Federalismo "buono" e "cattivo"
D: Tornando all'Italia… L'ultimo numero di Keiron è dedicato al Federalismo.
Sia in questo numero che nei due precedenti, dedicati ai concetti di Comunità e di Complessità, lei esprime la speranza che il federalismo possa costituire il termine intermedio fra statalismo e liberismo e, nel campo della salute, consentire una maggiore "personalizzazione" delle scelte sanitarie. Proprio a novembre è entrato in vigore il Decreto legge che sancisce il passaggio delle competenze della spesa sanitaria alle Regioni, il cosiddetto "federalismo sanitario", che si trova già di fronte ad un decreto "tagliaspesa". Che ne pensa?
R: Il federalismo lo immagino come il colesterolo: c'è quello "buono" e quello "cattivo".
Il federalismo "cattivo" è quello ideologico, che si pone come conflitto di potere in un'organizzazione statuale e non si confronta con la realtà della gente. Ma c'è anche un altro federalismo "cattivo", quello finanziaristico, che pensa solo a far quadrare i bilanci. E' questo il caso della legge per il contenimento della spesa sanitaria. Con questa legge si danno molti poteri alle Regioni, ma solo al fine di risparmiare. Non voglio dire che non bisogna risparmiare: attenzione, però, a non ricadere nell'economicismo.
Il federalismo "buono", invece, pone al centro dell'attenzione quello che continuo a chiamare l'emancipazione della gente. Il welfare, il Servizio Sanitario Nazionale, le leggi, la 180, la 194, la stessa Riforma Sanitaria, prima di essere leggi sanitarie sono grandi leggi di emancipazione sociale. L'idea un po' utopistica che le ispirava – e alla quale continuo ad essere fedele – è che fosse possibile adattare le esigenze dell'economia alle esigenze dell'uomo. Adesso la cosa si sta ribaltando: come adattare le esigenze dell'uomo a quelle dell'economia. C'è un forte riduzionismo che mi lascia molto perplesso e che si collega alla medicina amministrata, alla EBM.
Il federalismo "buono" è una dottrina sociale e si pone il problema che nessuno si è posto, neanche l'Onorevole Bindi nella sua riforma: quello dell'organizzazione della sovranità comunitaria.
Sono ancora convinto che la salute – e tutto ciò che significa – non sia delegabile agli amministratori. Parlo delle grandi scelte, delle grandi decisioni. Io credo che la partecipazione sociale sia fondamentale.
Immagino, sognando un federalismo "buono", una comunità che si organizza in tanti modi, per mezzo del Comune, delle assemblee – non parlo di assemblearismo, sia chiaro – forme di partecipazione sociale che si riuniscono una, due volte l'anno per decidere sui grandi obiettivi di salute nel proprio territorio. Che male c'è? Per decidere su che tipo di prontuario…su quali priorità… se intervenire sulle fogne a cielo aperto o sull'educazione dei bambini.
Questo federalismo è importante perché oltre a puntare sulla sovranità popolare, pone il problema di individuare quale sia il progetto di emancipazione oggi: prima della legge 180, emancipazione era chiudere i manicomi…..Oppure evitare l'aborto clandestino o come emancipare l'operaio dai fattori di rischio ambientale…
Adesso, dopo più di trenta anni, l'emancipazione della donna non passa più per l'aborto, ma per un capitolo nuovo che si chiama fertilità assistita e che ancora nessuno sa in che rapporto sia con l'emancipazione. E' un terreno nuovo.
Oggi l'emancipazione non è più legata ai 4 o 5 fattori di rischio della medicina preventiva: la vera emancipazione passa non solo per la prevenzione o la previsione del rischio, ma per la predittività, cioè la possibilità di immaginare una società e un'organizzazione sociale a rischio basso.
Oggi c'è il problema, ad esempio, delle morti evitabili: è un indice che abbiamo inventato noi con Prometeo. Esistono milioni di persone che muoiono, ma potrebbero vivere. Perché non ci poniamo il problema di una nuova emancipazione, facendo vivere quelli che potrebbero farlo? Persone che muoiono per incidenti, per stili di vita sbagliati, perché si sovrappongono un sacco di sfortune.
Una forma nuova di emancipazione, dunque, che però io non so vedere altro che in continuità con il vecchio progetto di emancipazione degli anni '70: all'interno, quindi, di una dottrina sociale che ripensi l'idea di uguaglianza, quella di diritto e la teoria che ha guidato tutte le leggi sanitarie degli ultimi trenta anni, che io chiamoteoria della salute tutelata. Secondo me, è teoria obsoleta.
Ripensare l'uguaglianza significa pensare ad una uguaglianza più uguale.
Finora abbiamo supposto che tutti fossero uguali. Il "dare a tutti la stessa cosa" è stato storicamente importante perché ha dato cose importanti a milioni e milioni di persone. Va ripensato, però. Il movimento delle donne ci ha insegnato il valore della diversità. Si può fare uguaglianza senza negare le diversità? Secondo me sì: da un egualitarismo che suppone tutti uguali, bisogna pensarne uno che ragioni per diversità.
In una medicina appropriata e adeguata, lei avrà un trattamento adeguato a quello che è lei, ed io a quello che sono io. Bisogna stare attenti, però, a differenziare i concetti di diversità – molto positivo – e di disparità – negativo, invece. Lei ha bisogno di un ginecologo ed io di un andrologo, d'accordo, è la diversità. Che lei però possa essere curata nella sua regione ed io no, sarebbe disparità intollerabile.
Non dobbiamo avere paura delle diversità, le dobbiamo affrontare ripensando anche l'egualitarismo. Dobbiamo invece temere le disparità, ingiustificate rispetto al diritto.
Ripensare il diritto, insomma: tutta la nostra storia di welfare, che comprende la legge 180, le leggi sulla donna, sul materno infantile, è impregnata di giusnaturalismo. Si fa riferimento ad un diritto naturale. Nel codice deontologico dell'Ordine dei Medici c'è scritto che la salute "va conservata": lei nasce con una cosa dentro che si chiama salute, una specie di dote, che la medicina deve conservare (certo, le malattie genetiche sono un po' una frode sulla dote…).
Io sostengo invece che il diritto naturale è anacronistico. La salute per me non è un diritto naturale, ma un diritto civico, quindi un diritto politico, e in quanto tale non è blasfemo supporre diritti diversi, perché le persone, i contesti lo sono. Sempre evitando la confusione con la disparità.
Se penso ad un diritto nuovo, devo ripensare la teoria che ha ispirato la legislazione sanitaria degli ultimi trenta anni, la teoria della salute tutelata. Tutelare: cosa vuol dire? Tutelare gli interessi, l'ambiente, un minore… significa difendere, proteggere qualcuno che non è in grado di farlo da solo. Se è vera la mia analisi sul paziente che diventa esigente, sulle trasformazioni della società legate alle conquiste scientifiche, il discorso della tutela e di un cittadino da tutelare vale sempre meno. E' sempre più presente un cittadino che si vuole autodeterminare attraverso la medicina, la scienza. Allora il discorso cambia. Un federalismo a sovranità popolare, che vuole emancipare la persona, che ripensa il diritto, che spinge in avanti il processo di uguaglianza e va oltre la semplice difesa dello status quo, che inventa e costruisce salute è un federalismo "buono".
Ciò che sta emergendo è un po' più prosaico: anziché un Ministro della Salute ne abbiamo 21, con una linea politica molto economicistica. Ma c'è modo e modo di far quadrare i conti…
Verso un federalismo delle disparità
D: Nei primi tre mesi dell'anno c'è un buco nel bilancio per la spesa farmaceutica di 1300 miliardi: abolizione del ticket, adeguamento del prezzo dei farmaci alla media europea, e quant'altro. E' stato detto che attraverso l'introduzione dei generici si sarebbe coperto il mancato guadagno dovuto all'abolizione del ticket. Lei che ne pensa? Ci sono altre vie?
R: La tragedia comincia con l'abolizione dei ticket nella finanziaria precedente: è stato un vero atto pre-elettorale, bisogna dirlo. Aver abolito i ticket ha disinibito un intero sistema: sono aumentate le prescrizioni dei medici, i pazienti …o esigenti… andavano a chiedere farmaci prima troppo costosi e così via. L'abolizione del ticket ha aumentato la spesa, non c'è dubbio, e anche in maniera corposa. Il cerino ora è acceso e nessuno lo vuole tenere in mano. Nessuno li vuole ripristinare: non il Governo, non le Regioni…ma il sistema resta disinibito. E il non riripristinarli è un secondo atto di demagogia.
Intendiamoci sul concetto di ticket: io non parlo di una tassa sul malato, che sarebbe spregevole. Parlo di un ticket moderatore, volto a disciplinare la domanda, correlato con il reddito del cittadino, con la patologia…Non tutti dovrebbero pagarlo. Chi può. Già sarebbe molto importante.
Non è possibile controllare la spesa se noi induciamo la domanda: il ticket aveva una funzione di contenimento in questo senso.
La legge sul contenimento della spesa: è successo che la spesa farmaceutica è stata assunta come un ammortizzatore di spesa nel Sistema Sanitario. Mancano tremila miliardi? Le Regioni hanno la facoltà di andarli a prendere lì.
Ora le Regioni sono costrette a mettere le mani sul sistema. Non è vero che finora non avessero titolarità e libertà d'azione. L'unica facoltà che non avevano era – giustamente – il rimettere in discussione le regole del gioco: il Prontuario Terapeutico valeva per tutto il paese. Adesso hanno anche quella possibilità: a fini di bilancio, una Regione potrebbe cambiare il prontuario, in più o in meno, distribuire farmaci andando oltre le farmacie, cioè direttamente, fare manovre sui prezzi dei farmaci in rapporto ai volumi. In questo quadro, il rischio di trovarci di fronte a 21 prontuari diversi, 21 sistemi di distribuzione diversi, è reale e non teorico. Sarà il Mezzogiorno a fare maggiormente le spese di questo sistema differenziato di disparità, perché questo è un federalismo delle disparità e non delle diversità. Un accentuarsi delle iniquità.
Potevamo evitarlo? Io dico di sì: operando sull'IVA, innanzitutto. Noi paghiamo l'IVA sui farmaci più alta d'Europa, il 10%. La Svezia e la Gran Bretagna hanno IVA zero sui farmaci e gli altri paesi al massimo la hanno del 5%.
E' come se lo stato pagasse a sé stesso…non si capisce. Sarebbe bastata una riduzione moderata, di 4 o 5 punti di IVA, e avremmo risparmiato 1000 miliardi senza sradicare niente. Con una lieve operazione di co-payment avremmo riequilibrato ancora un po' i conti. Avremmo poi dovuto fare, questo sì, un grande lavoro sull'appropriatezza terapeutica. Un grande negoziato, Regione per Regione ed Azienda per Azienda, per rendere virtuosa la prescrizione. Prescrizione appropriata vuol dire dare al malato giusto il farmaco giusto nei tempi giusti con le dosi giuste.
Purtroppo le cose sono andate diversamente e ne pagheremo le conseguenze. Non sono ottimista su questo.
Psicofarmaci e ideologia
D: Venendo alla psichiatria…130 miliardi del buco di bilancio sembra che derivino soprattutto dall'immissione in fascia A degli antidepressivi di nuova generazione, insieme ai farmaci antiulcera e ad altri. Anche i nuovi farmaci antipsicotici sono particolarmente costosi.
Quali sono, se ci sono, le particolarità del mercato degli psicofarmaci in Italia?
R: Rispetto all'Europa non ci sono grandi differenze. Questi farmaci connotano l'intera cultura occidentale, fanno parte di una certa concezione del well being, del benessere.
Per l'Italia mi sentirei di fare un'altra riflessione: qui è tuttora presente una scuola di pensiero che considera il farmaco in maniera "imbarazzata". E' l'approccio ideologico allo psicofarmaco. Vi sono coloro che negando l'istituzione totale negano tutto ciò che ad essa si correla, compreso il farmaco. La cosa che mi piacerebbe è che lo psicofarmaco fosse deideologizzato…Lo psicofarmaco è un ausilio straordinario in mano al medico, e lo è per l'ammalato. Questo non vuol dire ridurre tutto al farmaco, e nemmeno, forse, collocarlo in una strategia terapeutica allo stesso livello della psicoterapia, ma vuol dire semplicemente metterlo nella cassetta degli attrezzi di un bravo medico.
Quell'atteggiamento si è attenuato, ma c'è in giro ancora molta ambivalenza. Parlo di settori come Psichiatria Democratica. Dovremmo essere più liberi, proprio nel ragionamento.
Il discorso che facevo prima: io mi batto perché lei che è medico scelga, perché so che solo se la metto in condizione di scegliere lei farà gli interessi del malato. In fin dei conti, è lei che mi vede, non la CUF. Devo metterla in condizione di scegliere tra una serie di strumenti, dentro una cassetta di strumenti fra i quali c'è anche il farmaco.
E' chiaro che questa è una farmacologia delicata: parlavamo di essenziale e non…Fino a poco tempo fa gli antidepressivi erano a carico del cittadino, il che implicitamente voleva dire che non erano farmaci essenziali. Dopo infinite proteste di medici e Associazioni, è stato riconosciuto loro uno statuto di necessarietà ed essenzialità e sono stati messi a carico dello Stato. Non si può oscillare con questi giudizi di valore: buono, cattivo, vero, falso. Dicotomie che appartengono al vecchio modo di ragionare.
Si deve prestare attenzione perché il farmaco non surroghi altre cose, soprattutto nel mondo della salute mentale: si tende a vederlo non come un presidio terapeutico, ma come un sostegno alla vita quotidiana. E' pericoloso, ma ha a che fare con l'autoconsumo, l'automedicazione. Finché ci sono un medico e un buon farmacista di mezzo, i rischi del self help farmacologico sono molto ridotti.
Quando non c'è il medico…
D: Gli psichiatri, rispetto ad altri specialisti, che tipo di "prescrittori" sono?
R: C'è soprattutto l'ambivalenza di cui parlavo. In altre categorie, il medico non ha ambivalenze, semmai ha pregiudizi. Ho conosciuto medici che sostenevano di curare tutti i loro malati con 4 o 5 farmaci soltanto.
La prescrizione di un farmaco – rientriamo anche qui nell'ambito della complessità – non è un atto automatico. Si parla, in letteratura, di stili prescrittivi, che dipendono da tante cose che non c'entrano col malato. E' stato dimostrato che c'è una differenza se chi prescrive è un medico donna o uomo. Altri fattori sono l'età del prescrittore, la cultura di provenienza…ci sono medici che prescrivono troppo, altri troppo poco.
Non me ne voglia il buon Cartesio, ma per quanto ci si sforzi di immaginarlo tale, il malato non è una trivial machine. Ci sono molte sfaccettature. La vecchia mentalità cartesiana invece resiste ancora: metto un input chimico in un corpo e suppongo di avere un output predefinito…E' l'idea di macchina banale, di trivial machine. Un malato non è così…Guardi cosa accade con i generici: i medici li prescrivono, ma i pazienti tornano e dicono "Dottò, non m'ha fatto niente!"
Nei dibattiti mi obiettano: "Ma è suggestione". Fermi, dico io, perché la suggestione fa la differenza fra noi e una lavatrice.
Ho scritto un libro "Il rimedio e la cura" in cui tentavo di affrontare questo aspetto.
D: E' quello in cui attinge alle favole?
R: Sì. E' stata una scoperta in progress, non un'intuizione. Io ho un trascorso antropologico. Sono appassionato di favole, narrativa popolare, canto popolare…ho fatto ricerche in questi campi.
Mi sono reso conto che c'erano favole, sparse nel mondo, che parlavano della stessa cosa: della ricerca del rimedio e quindi della lotta contro la morte – perché al di sotto, anche se noi spesso lo dimentichiamo, c'è la lotta contro la morte, contro questa predestinalità.
Alcune favole mi hanno particolarmente colpito: le favole del principe Ivan, il Re che diventa cieco, chiama i figli, dice loro di andargli a cercare la penna dell'uccello di fuoco – da questa favola nasce l'Uccello di fuoco di Strawinski – e loro partono alla ricerca…
Nel mondo psichico, la cecità è una metafora della morte. Sinbad il marinaio, che si addormenta, è uno che muore. I figli vanno a cercare, quindi, il rimedio contro la morte. Tornano con la piuma, il Re la passa sugli occhi e vede di nuovo: altro non è che una metafora di un'altra vita.
Ciò che mi ha impressionato è stato rendermi conto che le stesse vicende che capitavano nelle favole, capitano, in forma molto meno metaforica e più fisica, nel sistema immunitario.
Il sistema immunitario si può raccontare come la favola del principe Ivan alla ricerca dell'uccello di fuoco. Nel libro ho fatto il parallelo fra queste favole e la vicenda del sistema immunitario, di cui si sa ancora pochissimo. E' qualcosa di stupefacente. Il principe che va sempre ai confini del reame, che sfida la morte, che fa mille cose, che trova mille siti…è molto simile alle vicende del sistema immunitario.
La Filosofia della Medicina
D: Lei insegna Sociologia sanitaria all'Università.
R: Mi sto battendo per introdurre una cosa che non ho paura di chiamare Filosofia della Medicina. La Filosofia della Medicina è stata troppo banalizzata. Ci sono dizionari di Filosofia che non la menzionano. E laddove è menzionata, non è vista come una Filosofia speciale. Nel bellissimo lavoro di Paolo Rossi sulle Filosofie c'è un volume sulle Filosofie speciali: ci sono tutte. Quella politica, del diritto, ma non quella della medicina.
Non penso tanto alla deontologia, al rapporto col paziente, alla comunicazione: credo che vada riscoperta perché a monte del ragionamento scientifico c'è sempre una premessa ontologica. E l'Ontologia rientra tra le discipline filosofiche. Se varia la premessa ontologica, varia anche il ragionamento scientifico. La premessa è dunque importante quanto il ragionamento scientifico. Se lei mi vede come una lavatrice, ragionerà su di me come se io lo fossi. Se lei mi vede come una persona, ragionerà su di me come tale. La differenza è nella premessa ontologica. In una mi vede ontologicamente come una macchina, nell'altra come una persona.
D: A cosa sta lavorando, adesso?
Ho già mandato all'editore un libro che si chiamerà "Medicina della Medicina", che affronta le tematiche della formazione ma con un'impostazione nuova.
D: L'ultima domanda, che avrebbe dovuto essere la prima, riguarda il suo percorso personale, che mi sembra singolare, non soltanto per i suoi vasti interessi e i suoi impegni accademici: prima di essere nominato Direttore Generale di Farmindustria, lei è stato Responsabile Nazionale del Dipartimento della Sanità della CGIL. Sono cariche, impegni, che siamo abituati a pensare in contrapposizione.
R: Il percorso, la storia… Le storie sono sempre lunghe, contengono tanti passaggi. Che le devo dire…
Vede, io vengo da una famiglia molto povera. Mio nonno mi diceva sempre – mio nonno è stato un uomo molto importante nella mia vita, nato a cavallo del secolo, morto a 94 anni, una lunga storia di contadino e militante – lui mi diceva sempre: "Io sono nato in una zucca e morirò in una zucca. Tu sei nato in un fiasco e puoi mettere la testa di fuori e guardarti intorno". Questo è stato l'inizio.
Ho cercato di guardarmi intorno.
Sono convinto che nel nostro intimo noi non siamo "una" persona, siamo tante persone: la vita ci obbliga a specializzarci in qualcosa. Però abbiamo delle potenzialità, che per essere usate vanno vissute nel corso della vita.
Così, per un po' di tempo fai il tecnico di radiologia, poi lavori in CGIL, poi fai il Direttore Generale di Farmindustria.
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