LA VOCE DELL'INDICIBILE
I suggerimenti della rêverie degli Artisti
di Sabino Nanni

L’imperatore e il Poeta. “Parabola del palacio” di Borges

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17 giugno, 2024 - 11:07
di Sabino Nanni
        Lo Scienziato ed il Poeta (quelli veri, da non confondersi con gli impostori) sono le uniche persone affidabili; però sono anche le meno ascoltate, e tali resteranno finché la gente sarà schiava del potere politico. Borges ce ne parla in un capitolo de “El Hacedor” intitolato “Parabola del palacio”.

 

        Un giorno l’Imperatore Giallo mostrò al Poeta, suo ospite, il proprio palazzo. Era una costruzione talmente vasta e complessa che neppure il sovrano la conosceva. Attraversata una serie di terrazze degradanti, si trovarono in un immenso giardino denominato “il paradiso”. Qui una serie di specchi e di siepi disposte in modo complicato creavano un vero e proprio labirinto. L’Imperatore ed il Poeta…

 

“...Alegremente se perdieron en él [el laberinto], al principio como si condescendieran a un juego y después no sin inquietud, porque sus rectas avenidas adolecìan de una curvatura muy suave pero continua y secretamente eran cìrculos”

 

[Lietamente si persero in esso, dapprima come se accettassero un gioco; poi non senza inquietudine, perché i suoi viali ingannevolmente diritti seguivano una curvatura difficilmente percettibile ma continua e segretamente erano cerchi]

 

        Verso mezzanotte, orientandosi tramite l’osservazione degli astri, riuscirono faticosamente ad uscire da questa regione che pareva stregata…

 
“...pero no del sentimiento de estar perdidos, que los acompapañó hasta el fin”
 
[…ma non dalla sensazione d’essere perduti, che li accompagnò fino alla fine]
 

        Ogni esperienza che susciterebbe emozioni eccessivamente intense, non può essere contenuta dalla mente. Può trattarsi di brutali frustrazioni, o di eventi traumatici; però il soggetto può essere sconvolto anche di fronte a qualcosa che si presenta talmente grandioso e complesso (il “paradiso”), da non riuscire a dominarlo col proprio pensiero. L’esperienza “troppo bella e troppo grande” produce come uno smarrimento. L’individuo, anche quando è rientrato in sé, perde la completa fiducia nelle possibilità del proprio intelletto; permane la sensazione d’essersi “perduto” come essere autonomo e pensante.

 

        La visita del palazzo proseguì: imperatore e Poeta percorsero anticamere e cortili con porticato, poi giunsero ad una sala esagonale con una clessidra; e una mattina scorsero da una torre un uomo di pietra che poi persero di vista per sempre.
        Il sovrano condusse il suo ospite a visitare i suoi immensi possedimenti. Attraversarono molti splendenti fiumi, o un solo fiume più volte. Passava il seguito imperiale, e la gente si prosternava…

 

“...pero un día arribaron a una isla en que alguno non lo hizo, por no haber visto nunca al Hijo del Cielo, y el verdugo tuvo que decapitarlo”

 

[…però un giorno giunsero ad un’isola in cui qualcuno non lo fece, perché non aveva mai visto il Figlio del Cielo, e il carnefice dovette decapitarlo]

 

        Il malcapitato suddito non aveva mostrato, prostrandosi, un segno di sottomissione verso l’imperatore; e questo non perché fosse un ribelle, ma solo perché ne ignorava l’esistenza. Ciò facendo, però, aveva testimoniato che anche l’imperatore è un comune mortale che, come tale, si può non conoscere. Questo, per il “Figlio del Cielo” non è accettabile: chiunque, anche involontariamente, offra a tutti la prova che, sotto la veste imperiale, c’è un essere umano come tutti gli altri (“il re è nudo”), deve essere soppresso, annientandone così la testimonianza.

 

        È evidente il carattere primitivo e infantile di tale reazione emotiva. Su questo argomento, tempo fa ho scritto:
      Noi comuni mortali, per la maggior parte, siamo schiavi della nostra parte infantile, che comporta sottomissione acritica all’autorità politica. Lo psichiatra-analista francese Grünberger, in un suo scritto sul narcisismo, sostiene che non è esatto affermare che il neonato viene trattato “come un re”; è semmai il re che viene trattato come un neonato. In altre parole, chi detiene l’autorità politica è l’unico, fra gli esseri umani, che continua a godere dei privilegi che di solito (e qui giustamente) vengono riservati al neonato, e cui tutti gli altri, crescendo, devono rinunciare: a lui tutto, o quasi tutto, è “dovuto”, senza che debba dare in cambio o fare alcunché di speciale per conquistarselo; viene onorato, coccolato, viziato; al soddisfacimento dei suoi bisogni o dei suoi capricci si dà la priorità rispetto a quello degli altri, e questi quasi di regola si sacrificano per soddisfare lui.
          È un dato di fatto che la sudditanza incondizionata all’autorità politica dipenda dall’incapacità dell’essere umano di rinunciare ad un sostituto genitoriale che lo protegga, o, meglio, gli dia l’illusione di proteggerlo. Tuttavia ciò si fonde con un altro tipo di legame un po’ meno evidente: il suddito, proiettandosi nel potente, ed immedesimandosi in lui, continua a godere “per procura” degli antichi benefici cui, nella vita adulta, è costretto a rinunciare; benefici che si tributano ad un essere che si sente, ed è ritenuto, “onnipotente”, così come si sente il bambino molto piccolo. L’autorità di questo re-bambinone mal cresciuto, quindi, dipende dall’incapacità di molta gente di distaccarsi definitivamente dal mondo dell’infanzia e viverne il lutto.
       L’esistenza del re-bambino coccolato, tuttavia, non è tutta “rose e fiori”. A lui, come dicevo più sopra, vengono attribuite l’onniscienza e l’onnipotenza che ciascuno di noi s’illudeva di possedere nella primissima infanzia: è quel che caratterizza il “Sé grandioso” primitivo o arcaico. Ciò significa non solo obbedienza acritica da parte dei sudditi, ma anche che, in caso di catastrofi, al re ne viene attribuita del tutto la responsabilità. Il sovrano può far di tutto per nascondere al pubblico le sciagure, o per negare che siano tali, ma prima o poi la verità viene a galla. Allora, la realtà si vendica per esser stata ingannata: il re paga caro il prezzo dell’aver offerto alla gente un’illusoria protezione “onnipotente”, e la gente lo paga per essersi fatta illudere.”

 

        Fra le caratteristiche infantili e primitive di molti detentori di un potere politico incontrastato – caratteristiche considerate anomale se compaiono in una persona comune – c’è la propensione alla “rabbia narcisistica” di cui più sopra l’imperatore giallo di Borges ci ha offerto un esempio estremo. Nel saggio su questo argomento, Kohut scrive: “L’individuo incline alla rabbia narcisistica è incapace di riconoscere, in chi gli oppone ostacoli, un centro indipendente d’iniziativa; lo vede solo come macchia in una realtà percepita in modo narcisistico. Il “nemico”, per lui, è nient’altro che una parte “recalcitrante” di una espansione del sé sulla quale il soggetto si aspettava d’esercitare pieno controllo; di qui il sentimento d’offesa per il solo fatto che costui è indipendente o diverso [e può percepirlo e considerarlo in modo differente da come lui si aspetta]. Il Sé grandioso-esibizionistico arcaico non può avere requie finché non è cancellata un’evidenza che contraddice la sua unicità e perfezione; l’oppositore [indipendentemente dai suoi argomenti] è visto come colui che ha “osato” non essere d’accordo con lui, ed eclissarlo” (pag. 643, 644)

 

        Ritorniamo al racconto di Borges. Tutti (l’imperatore stesso, i suoi cortigiani, la quasi totalità dei suoi sudditi), rapiti dalla grandiosità della messa in scena con cui il sovrano ostentava il suo potere, vivevano come in un’atmosfera in cui la realtà si confondeva col sogno (sogno che talora si trasforma in incubo):

 

“...lo real se confundía con lo soñado o, mejor dicho, lo real era una de las configuraciones del sueño”

 

[…il reale si confondeva col sognato o, per meglio dire, il reale era una delle configurazioni del sogno]

 

        L’unico che non sembrava coinvolto in questa suggestione collettiva era il Poeta. Questi, a un certo punto pronunciò parole che si rivelarono fatali:

 

“...el poeta (que estaba como ajeno a los espectàculos que eran maravilla de todos) recitò una breve composiciòn (...) que, segùn repiten los historiadores màs elegantes, le deparò la immortalidad y la muerte.”

 

[…il Poeta (che rimaneva come estraneo agli spettacoli che erano meraviglia di tutti) recitò la breve composizione (…) che, come sogliono ripetere gli storici più eleganti, gli riservò l’immortalità e la morte”]

 

“...en el poema estaba entero y minucioso el palacio enorme (...) y cada instante desdichado o feliz de las gloriosas dinastías de mortales, de dioses y de dragones que habitaron en él desde el interminable pasado.”

 

[…nella poesia era contenuto, interamente e minuziosamente, il palazzo enorme (…) e ciascun istante sventurato o felice delle gloriose dinastie di mortali, di dèi e di draghi che avevano abitato in esso dall’interminabile passato.]

 

        Al “magico” effetto suggestivo della grandiosità imperiale, il Poeta contrappone una “magia” che si rivela più potente di quella del sovrano: la magia della sua Arte. Più propriamente, si tratta di una “anti-magia” che riporta a una realtà interiore pensabile tutti coloro che erano stati rapiti e sopraffatti dal sogno. La suggestione della maestà deve la sua capacità di travolgere razionalità e realismo grazie alla incontenibilità delle sensazioni che essa suscita. Il Poeta le traduce in parole che, ripristinando un’armonia interiore, suscitano un sentimento di Bellezza. Paradossalmente, la sua poesia contiene (“interamente e minuziosamente”) l’incontenibile, e permette alla mente umana di contenerlo e dominarlo. La maschera fastosa e affascinante dietro cui l’imperatore si è nascosto rischia d’essere strappata.

 

        Tutti i presenti, esterrefatti di fronte all’improvvisa e incontestabile rivelazione del Poeta, restano senza parole; mentre l’Imperatore, profondamente offeso, reagisce violentemente.

 

“...Todos callaron, pero el Emperador exclamó: ‘¡Me has arrebatado el palacio!’ y la espada de hierro del verdugo segó la vida del poeta.”

 

[…Tutti tacquero, ma l’imperatore esclamò: “Mi hai portato via il palazzo!” e la spada di ferro del carnefice troncò la vita del Poeta]

 

        Kohut, sempre nel saggio sulla rabbia narcisistica, scrive: “La violenza della rabbia narcisistica raggiunge il massimo grado in coloro in cui il mantenimento dell’autostima, o addirittura dell’integrità del Sé, dipendono dall’incondizionata disponibilità di un oggetto-sé rispecchiante ed approvante…” (pag. 645). L’“oggetto-sé”, nella concezione kohutiana, è una persona o un ambiente vissuti come prolungamenti di sé, sui quali il soggetto ha l’illusoria sensazione d’esercitare un controllo assoluto, come fosse una parte del suo corpo o della sua mente. “Rispecchiante” significa atto a confermare la sua “unicità e perfezione”, come fosse uno specchio che rimanda fedelmente al soggetto l’immagine della sua “grandezza”.
         Nelle patologie in cui tale forma primitiva di narcisismo persiste inalterata anche dopo la prima infanzia, la violenza della rabbia narcisistica si traduce clinicamente in uno stato di furore maniacale. Se il malato è una persona comune (a patto che alla sua patologia si dia una risposta adeguata) ciò rappresenta per questo individuo, in fondo, una fortuna: c’è una qualche possibilità di fermarlo e curare il suo male.
        Diverso è il caso dell’individuo per cui una “incondizionata disponibilità di un oggetto-sé rispecchiante ed approvante” trova riscontro nella realtà – ossia di chi, come l’imperatore giallo, possiede un potere incontrastato –; per costui, finché la sua sovranità persiste, non c’è nulla da fare. Dato che la regressione è sempre possibile in chiunque, se assecondata e favorita dall’ambiente esterno, ne consegue che, nel comportamento di chi dispone di un potere eccessivo, può irrompere la rabbia narcisistica, come spesso succede.   Ciò rappresenta un evidente pericolo per gli altri, però anche per lui stesso: a dispetto delle apparenze, il suo equilibrio interiore è fragile e, se viene meno la sua autorità (come, grazie al Cielo, spesso succede), la conseguenza inevitabile per costui è un crollo totale da cui è impossibile risollevarsi e per il quale non esiste cura.

 
Borges ci offre altre versioni della storia:
 

“...Otros refieren de otro modo la historia. En el mundo no puede haber dos cosas iguales; bastó (nos dicen) que el poeta pronunciara el poema para que desapareciera el palacio, como abolido y fulminado por la última sílaba.”

 

[…Altri raccontano diversamente la storia. Nel mondo non possono esservi due cose uguali; bastò (ci dicono) che il Poeta pronunciasse la poesia perché il palazzo sparisse, come abolito e folgorato dall’ultima sillaba.]
 
        È la conclusione della storia che chiunque non sia schiavo del potere politico desidererebbe. Una volta che, grazie all’arte del Poeta, è reso pensabile ciò che è alla base del potere sconvolgente del fasto imperiale, tale potere scompare: non possono trovare ospitalità, nel pensiero cosciente, due convinzioni uguali e contrarie: il “palazzo” sparisce.

 

        Subito, però, Borges esprime il suo scetticismo riguardo alla verosimiglianza di tale conclusione ottimistica della storia:

 
“Tales leyendas, claro está, no pasan de ser ficciones literarias...”
 
[Tali leggende, è chiaro, non sono altro che (non vanno oltre) finzioni letterarie.]
 

        La vera Arte non ammette fughe nella fantasia. Dato che essa rappresenta essenzialmente una sfida a tutto ciò che si oppone alla pienezza della vita, non può ignorare le realtà tragiche e più sconfortanti con le quali dobbiamo inevitabilmente confrontaci.

 
Borges così conclude:
 

“El poeta era esclavo del Emperador y murió como tal; su composición cayó en el olvido porque merecía el olvido y sus descendientes buscaron aún, y no encontrarán, la palabra del universo”

 

[Il Poeta era schiavo dell’imperatore, e morì come tale; la sua composizione cadde nell’oblio perché meritava l’oblio e i suoi discendenti cercano ancora, e non la troveranno, la parola dell’universo.]

 

        La condizione oggettiva di schiavitù finisce per travolgere anche l’essere più illuminato. I suoi messaggi vengono censurati e finiscono per cadere nell’oblio. Perché Borges afferma che la composizione del Poeta “meritava” l’oblio? Credo perché non aveva tenuto conto dell’impreparazione interiore di chi avrebbe dovuto accoglierla. Tuttavia qualcosa rimane dell’opera del Poeta: se i suoi discendenti continuano a cercarla è perché sono convinti che è esistita e che ha posseduto un valore grande e irrinunciabile. In che misura saranno capaci di ricrearla non si sa; che ci riescano del tutto è impossibile, dato che essa rappresenta l’obbiettivo irraggiungibile di racchiudere con la parola e col pensiero l’intero universo, ossia tutte le possibilità della vita umana.

 

BIBLIOGRAFIA
  • Borges Jorge Luis (1960) El Hacedor (in: Tutte le opere – Mondadori 1984)
  • Grunberger Bela (1975) “Le Narcissisme” (Payot)
  • Kohut Heinz (1972) Thoughts on narcissism and narcissistic rage (The search for the self. Selected writings of Heinz Kohut 1950 - 1978 Vol. 2 - International Universities Press 1978)  

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