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Osservatorio sui Disturbi Alimentari
di Giovanni Abbate Daga

NIENTE DI SPECIALE, SEMPLICEMENTE NOI

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3 agosto, 2024 - 08:57
di Giovanni Abbate Daga


Di Nadia Delsedime
 

“La parte più difficile del mestiere di genitore è proprio questa…. Amare chi non si fida più di noi”
(M.Bussola)

 

Matteo Bussola nel suo ultimo romanzo “La neve in fondo al mare” racconta in prima persona la storia, che lo riguarda forse direttamente o che in qualche modo ha avuto modo di toccare da vicino, della malattia (una forma di Anoressia Nervosa) del figlio adolescente, ricoverato in un reparto di Neuropsichiatria Infantile accanto ad altri giovani sofferenti, e del rapporto difficile fra genitori e figli. Della solitudine di entrambi. Della difficoltà di chiedere aiuto e di darlo. Di trovare la giusta distanza fra rispettare e ignorare. “...hanno bisogno di te ma non ti vogliono accanto, desiderano la tua presenza ma ti impongono una distanza”. E’ il dilemma di chi sta male e di chi cerca di portare sollievo e aiuto. Esserci senza soffocare.
La domanda è sempre la stessa. La ricerca sempre quella. Amore. Essere amati. Essere capiti, accettati, ascoltati. Bambini, adolescenti, adulti. A tutte le età si farebbe e si fa di tutto per questo unico scopo. Cercando ciò che bramiamo nelle relazioni, nel lavoro, nell’eccellenza in una qualche disciplina, in una qualche arte. E se manca la risposta primigenia alla domanda d’amore, l’amore primitivo che da forma all’identità, allora tutta la vita sarà destinata ad un continuo dibattersi fra sentieri diversi, lanciandosi in sempre nuove avventure per capire, per trovare una risposta.
Quasi sempre al posto della risposta che cerchiamo troviamo abbracci mancati o sbilenchi, richieste a loro volta insistenti o silenzi o talvolta ricatti.
Laddove si chiede amore si trova giudizio e ansia e paura. Qualcosa di naturale, che non dovrebbe nemmeno richiedere parole, viene filtrato attraverso i vissuti e gli sguardi di persone che si aspettano qualcosa dall’Altro, che sia figlio/a, amico/a, amante, compagno/a, collega, familiare, genitore. In un gioco al massacro di reciproche richieste, spesso mute ed espresse malamente, ci si perde, ci si allontana e ci si fa male. Il linguaggio spesso non basta ad esprimere ciò che sta a cuore, le vere domande, e così si deve ricorrere a linguaggi diversi che passano per la ribellione o la rabbia, per la ricerca della perfezione e del risultato mirato a compiacere, o quando ogni strada sembra inutile, attraverso un sintomo. Una malattia. Un disagio. Un amplificare più o meno consciamente una fragilità che si vorrebbe fosse accettata come parte di sé.
Io sono ANCHE questo. Il risultato non ottenuto, il mio sintomo, la mia debolezza, il mio orientamento sessuale, la mia paura, la mia solitudine. Io sono anche ciò che non piace a te. Siamo persone diverse. Non sono qui per soddisfare te. Non è questo il nucleo del rispetto che dovrebbe connotare tutti i tipi di rapporto?
Rispettare le differenze, non fare dell’altro uno specchio dei nostri desideri frustrati o volerlo trasformare in ciò che noi non siamo diventati. Soprattutto se è un figlio. Soprattutto se si è genitori. Ma quanto è difficile non cadere in queste trappole? Ciascuno di noi è colpevole in qualche forma del malessere altrui, soprattutto di coloro che più amiamo.
Quanto è difficile dire le cose giuste, esserci, ascoltare, vedere – o meglio guardare e vedere ? Quanto è difficile non tradire la fiducia?
Spesso le relazioni diventano campi di battaglia e oceani di rabbia che travolgono tutti ed è necessaria la mediazione di terzi esterni per sciogliere qualche nodo. Professionisti del dialogo, della salute mentale, delle relazioni, che insegnino a riallacciare un discorso interrotto, che si pongano come traduttori fra persone apparentemente estranee, straniere a loro stesse. Triste ma necessario. Perché le cose più semplici sono spesso le più difficili?
Perché non si può essere semplicemente figli o semplicemente genitori? Semplicemente se stessi senza suscitare irritazione o scandalo? Non è una impresa eroica, non è qualcosa di speciale. Dovrebbe essere normale. Ma cosa è normale? Una norma statistica ormai desueta laddove è tutto complesso, mescolato, fluido. Per fortuna, da un lato, poiché la complessità genera ricchezza. Ma genera anche più incomprensione, più muri, più paura, più diffidenza.
“Semplicemente” diventa allora “difficilmente”. La sensazione più diffusa della nostra epoca, dei giovani degli ultimi anni è l’inadeguatezza, il sentirsi incompresi ed esclusi, soli, persi. E colpevoli, di non essere altro.  Ci si aggrappa a forme patologiche di controllo per non scivolare, per trattenersi a qualcosa, perché la vita è fatta di dirupi. “Farci del male è la prima forma di controllo che abbiamo tutti”. Può salvare solo l’affidarsi a qualcuno, il fidarsi di due mani che ti sollevino e pian piano ti trascinino su dal dirupo, sempre che tu tenga stretta la corda. Abbiamo bisogno gli uni degli altri. Chi soffre e chi cura. Chi ama e chi è amato. Chi sta crescendo e chi è già maturato (anche se il maturare è un processo in continuo divenire). Fidarsi, il tabù di quest’epoca autocentrata e narcisista, che fatica così tanto ad aprirsi all’Altro. Questo gesto di affidarsi allora diventa speciale, diventa LA sfida. Aprirsi, scoprirsi, gettare le maschere, mostrarsi per ciò che si è, mostrare la ferita, le fragilità, senza vergogna, senza colpa. La sfida è però anche quella di non giudicare, di non voler imporre una soluzione, una cura, una via d’uscita, una guarigione. La sfida è non aver fretta. Aspettare che la vita torni ad avere un sapore ed un significato. Anche se non sempre sarà così. Accettare anche di perdere qualcosa, una parte o tutto. Il controllo delle vite altrui non è in nostro possesso. Si fa quel che si può, ma si può anche perdere a volte. Accettare la sconfitta, anche come genitori, come curanti. Nessuno è onnipotente e per essere salvati bisogna volerlo, bisogna desiderarlo. “Forse perché il pane ha senso solo se c’è qualcuno da sfamare, che ci riconosce e ci accoglie, altrimenti la farina resta grano nel campo”.
Talvolta la malattia è un disvelamento di verità, mentre la vita di prima era la menzogna. Pertanto questo nuovo stato ha una dignità che reclama di essere accettata per ciò che è. “E se invece non passasse niente? Se io fossi semplicemente...questo?” La sfida estrema di vivere in modo dimezzato e quella altrettanto estrema di accettarlo da parte di chi vorrebbe solo vedere chi ama condurre una vita normale, serena. Talvolta si può solo essere il frammento di un tutto che prima c’era e ora non c’è più.
Danilo Dolci diceva “cresce solo chi è sognato”; questo è il compito di genitori, educatori, curanti, amici, amanti. Sognare l’Altro e permettergli di esplorare e scoprire il proprio potenziale, senza imporre nulla dall’esterno. Innaffiare, fornire la giusta dose di calore e nutrimento, e poi lasciare andare al momento giusto. Poi qualcosa può andare storto, si impara soprattutto sbagliando. Ma la base è quella. Nulla di strano, niente di speciale. Essere sognati per poter sognare, non smettere di credere a qualcosa; “forse diventare grandi, in fondo, non vuol dire che questo: smettere di credere”.
Essere genitori, essere figli. Semplicemente. Essere sani, essere malati. Vincenti o senza storia, normali o diversi, una sola cosa importa: essere accettati così come si è. Semplicemente.
Il grande buco nero che fa tante vittime, la grande incognita, la sfida che ci si trova a giocare appena si nasce, quando già “si deve” essere qualcosa per qualcuno. Essere accettati significa anche accettarsi, non rincorrere sempre un ideale che appartiene ad altri con lo scopo di piacere. Semplicemente vivere. Accettarsi anche se non si piace a tutti, se si delude, se si provoca rabbia o riprovazione. Accettare anche che si può restare sconosciuti alle persone più vicine. Andare avanti nonostante… Accettare la solitudine.
Esiste anche una solitudine dei genitori, dei terapeuti, degli educatori. Un chiedersi costantemente se si sta agendo nel modo corretto, un perdere il filo, un balbettare, un silenzio rancoroso che risponde alla sfida del malessere. Una solitudine che è senso di colpa, per aver protetto troppo o troppo poco. Per essersi intromessi troppo o essere rimasti troppo a distanza. Per non aver visto, capito, per essere arrivati tardi. Per non aver fatto nulla per la paura di sbagliare. Per aver detto troppa verità o non averla detta affatto. Per aver trovato degli estranei al posto della persona che credevamo di avere davanti, del bambino che c’era (“...certi sorrisi di bambino sono solo lame in attesa del buio”). Per l’imbarazzo davanti ad un giovane che domanda qualcosa a cui non sappiamo rispondere. Ad un giovane che cresce e che non possiamo difendere, dagli errori, dalle perdite, da noi stessi. Poiché talvolta siamo noi stessi a ferire, umiliare, traviare. Noi, gli adulti. Coloro che dovrebbero essere guide e fonte di ispirazione. Ma anche gli adulti hanno il diritto di essere fragili, fallibili, anch’essi hanno il diritto di sbagliare. Ed essere fragili significa anche essere mortali, la più grande colpa di un genitore forse. Ammalarsi e morire.
“Non c’è niente da intuire, alla fine siamo tutti roba che cade… C’è chi cade da solo, chi precipita in coppia, chi viene giù prima e chi dopo, dipende da quanto presto si manifesta la tempesta”.
Essere fragili significa anche rischiare di ricambiare la rabbia che ci viene buttata addosso, fino all’odio. Quando tutto sembra inutile, quando nessun sacrificio sembra servire. Si crolla. Anche se “il risentimento, come l’odio, ha spesso a che fare con l’amore”. Si può odiare un figlio? Se odiare un genitore è quasi normale nel percorso di crescita, odiare un figlio è osceno. Ma umano. Talvolta comprensibile. Quando non si riesce ad uscire dalla spirale di sofferenza che ci si infligge a vicenda. Eppure “un genitore arrendersi non può, E’ questa la sua più grande risorsa. E’ questa la nostra eterna condanna...”
Volersi bene è perdonarsi reciprocamente le fragilità. E’ accettare nell’Altro ciò che odiamo in noi stessi. E’ accettare di non essere speciali. E’ accettare di non piacere, ammettere che si può amare anche ciò che non piace, ciò che non si comprende.
“Forse il vostro compito è quello di riuscire a farci scorgere la bellezza anche nel progetto che non riesce, nella promessa non mantenuta. Nella provvisorietà del bene. Nel crollo che ci svela cos’era a tenerci in piedi.”

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Nota: tutte le frasi virgolettate e in corsivo sono tratte dal libro di Matteo Bussola, La neve in fondo al mare, Einaudi editore.

 

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