LA VOCE DELL'INDICIBILE
I suggerimenti della rêverie degli Artisti
di Sabino Nanni

I traditori. Viaggio nell’oltretomba come modello di un percorso terapeutico I Inferno – 6 Cocito

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10 agosto, 2024 - 13:22
di Sabino Nanni
       Con questa sesta parte del mio lavoro (su quanto, nei versi danteschi ho trovato utile per un medico della mente come il sottoscritto), concludo i miei commenti sull’Inferno. Qui si parla del Cocito, la palude infernale in cui scontano i loro peccati i fraudolenti contro chi si fida, ossia i peggiori traditori: quelli dei parenti, della patria, degli amici, dei benefattori. Dante e Virgilio raggiungono il fondo dell’Inferno; e solo dopo averlo oltrepassato potranno uscire “a riveder le stelle”.

 
Canto XXXII

        Dante, grazie all’aiuto di Anteo, ha raggiunto il nono e ultimo cerchio dell’Inferno, il più profondo e terribile. Accingendosi a descriverlo, si sofferma a considerare la difficoltà dell’impresa. Se, così pensa, fosse capace di scrivere rime dal suono aspro e stridente (“chiocce”), come si converrebbe al “tristo buco” sul quale poggiano (“pontan”) tutti gli altri cerchi rocciosi, allora esprimerebbe più efficacemente il suo pensiero (“premerei di mio concetto il succo più pienamente”); ma poiché [così afferma] non possiede (“non l’abbo”) tale facoltà, si accinge (“mi conduco”) al suo lavoro non senza timore. Non si tratta d’impresa che si possa considerare superficialmente, come uno scherzo (“a gabbo”) né, per compierla, può essere adatto il linguaggio primitivo e candido del fanciullo (“lingua che chiami mamma o babbo”)

 
pag. 465, vv. 1 – 9
S’io avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra ‘l qual pontan tutte l’altre rocce,
 
io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch’io non l’abbo,
non sanza tema a dicer mi conduco;
 
chè non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l’universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo:
 

        Consapevole della difficoltà dell’impresa, Dante invoca l’aiuto delle Muse (“quelle donne”). Si augura che esse gli permettano di parlare di quest’ambiente infernale al lettore così come aiutarono Anfione, impegnato nella costruzione delle mura di Tebe (“a chiuder Tebe”), ispirandogli la musica della sua cetra [attirate “magicamente” da tale suono, le pietre del monte Citerone si trovarono prontamente a portata di mano di questo personaggio]. Solo così, conclude Dante, il suo dire potrà rispecchiare i fatti.

 
pag. 465, vv. 10 – 12
ma quelle donne aiutino il mio verso
ch’aiutaro Anfione a chiuder Tebe
sì che dal fatto il dir non sia diverso.
 

        Qui Dante offre un importante suggerimento al medico della mente, come a chiunque voglia penetrare nell’esperienza “infernale” di un’altra persona. Il bambino che esiste nell’individuo in crisi, l’essere per cui nel mondo esistono solo “la mamma e il babbo” che lo amano, deve affrontare quanto di peggio esiste nella sua vita interiore e intorno a lui. Queste realtà lo sconvolgono, non riesce a capacitarsene.  Al pari del terapeuta, il Poeta permette, anche alla persona più dominata dal candore e dall’ingenuità infantili, di rendersi conto di tali realtà spaventose, attenuando il suo turbamento quanto basta perché possa padroneggiarle con la mente e comprenderle.
        Dante si rende conto che persino le parole di un grande Poeta non possono essere del tutto adatte al suo scopo (la sua non è una pura professione di umiltà); tutt’al più ambisce ad ottenere che il suo dire “non sia diverso” dai fatti (dalle esperienze vissute) di cui cerca di rendere partecipe il lettore. Invoca, a questo scopo, le Muse, definite “quelle donne”, sottolineando con queste parole il carattere femminile (e materno) di queste ispiratrici interiori. Esse infondono ai suoi versi la stessa musicalità che permise ad Anfione di rendere docile, nelle sue mani, anche la dura realtà delle pietre. Si tratta dell’eco della voce soave della madre arcaica che, con la sua dolcezza, ci permise, quando eravamo del tutto impreparati, di lenire le sofferenze che comportano le dure realtà della vita e, nello stesso tempo, di rendercene conto. Il Poeta Robert Frost definì tale aspetto dell’espressione poetica come “oversound” (voce sovrapposta) di origine materna [si veda, a questo proposito, http://www.psychiatryonline.it/node/7575 ]. Quella di Dante è una grande lezione utile per chi, avendo dimenticato la “voce sovrapposta” materna, finisce per cadere in un’eccessiva durezza, o in una sterile sdolcinatezza, nel suo modo di esprimersi con la persona in difficoltà.

 

        Dante entra subito nell’argomento pronunciando parole di condanna contro la specie malnata (la “mal creata plebe”) dei traditori. Sarebbe stato meglio (“mei”), per loro, nascere come animali ingenui e innocenti, quali le pecore o le capre (“zebe”), piuttosto che finire nel luogo dell’Inferno di cui anche il solo parlare è duro.

 
pag. 465 – 466, vv. 13 – 15
Oh sovra tutte mal creata plebe
che stai nel luogo onde parlare è duro,
mei foste state qui pecore o zebe!
 

          Pur esprimendo una condanna di ordine morale, Dante non manca di dar prova della sua straordinaria capacità di penetrare negli aspetti più reconditi dell’animo umano: definisce i traditori come plebe “mal creata”, facendo così risalire il loro infame comportamento al momento in cui comparvero come esseri viventi, più ancora che al frutto di scelte successive. Mancò, nella loro esperienza di vita, la fase primitiva in cui sarebbero stati paragonabili ad animali candidi e docili, come le pecore o le capre.

 

        I due Poeti si trovano nel fondo del pozzo buio, dove Anteo li aveva deposti, e sotto i piedi del gigante. Dante è intento a guardare l’alto muro che li sovrasta, quando sente una voce che lo ammonisce a stare attento a dove mette i piedi (“come passi”), per non calpestare le teste dei miseri dannati. Perciò volge altrove lo sguardo, e s’accorge che davanti e sotto di lui c’è un lago, ghiacciato a tal punto da sembrare una lastra di vetro.

 
pag. 466, vv. 16 – 24
Come noi fummo giù nel pozzo scuro
sotto i piè del gigante assai più bassi,
e io mirava ancora all’alto muro,
 
dicere udi’mi: “Guarda come passi;
va sì, che tu non calchi con le piante
le teste de’ fratei miseri lassi.”
 
Per ch’io mi volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non d’acqua sembiante.
 

        Associando tale spettacolo ad immagini che fanno parte della realtà oggettiva, afferma che lo strato di ghiaccio è ancor più spesso di quello che si vede in inverno sul Danubio in Austria, o sul Don in Russia. Tanto spesso che, se vi fosse caduto sopra il monte Tabernic della Schiavonia o il Pietrapana delle Alpi Apuane, non lo avrebbero fatto scricchiolare neppure nel bordo, dove la resistenza del ghiaccio è minore.
        Nel ghiaccio stanno confitti i dannati fino al viso, la parte del corpo che arrossisce per imbarazzo (“dove appar vergogna”). Li paragona alla rana, che sporge il muso fuori dell’acqua gracidando, d’estate e di notte, quando la spigolatrice sta sognando il suo lavoro. Essi battono i denti producendo lo stesso suono della cicogna, quando urta ritmicamente la parte inferiore del becco contro la superiore. Ognuno dei dannati tiene la faccia volta in basso. Dal battere i denti della bocca si comprende quanto siano afflitti dal freddo; dagli occhi, colmi di lacrime, traspare la tristezza.

 
pag. 467, vv. 31 – 39
E come al gracidar si sta la rana
col muso fuor dell’acqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana;
 
livide, insin là dove appar vergogna
eran l’ombre dolenti nella ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna.
 
Ognuna in giù tenea volta la faccia:
da bocca il freddo, e dalli occhi il cor tristo
tra lor testimonianza si procaccia.
 

        Dante qui illustra in termini metaforici le cause e/o le conseguenze del comportamento infame dei traditori. L’atto stesso con cui furono “mal creati” fu compiuto all’insegna del tradimento. Quando iniziarono ad esistere, l’innata attesa di un ambiente caldo e accogliente (il ventre materno, e successivamente le braccia della mamma) fu “tradita”, e intorno a loro si trovarono solo freddo e gelo.
        Fu questa la loro realtà originaria, ed una “identificazione con l’aggressore” li portò a trasformarsi da “traditi” in “traditori”? Oppure furono loro che, costituzionalmente inclini all’ingratitudine e al tradimento, soppressero nel loro vissuto il carattere caldo e benefico delle cure materne? Nella maggior parte delle realtà cliniche, è impossibile privilegiare l’una o l’altra di queste ipotesi. Occorre tener presente che, nella situazione originaria, madre e bambino sono fusi in un’unità in cui è impossibile distinguere due soggetti separati. Lo si vede nelle analisi approfondite; in esse, nel transfert/controtransfert, sentimenti e responsabilità di terapeuta e paziente si fondono parzialmente in un’area intersoggettiva (il “terzo psicoanalitico” di Ogden) che appartiene ad entrambi e a nessuno dei due in particolare. Quando se ne traggono interpretazioni, individuando quanto può essere terapeutico, è bene che il curante stia attento a non assecondare eccessivamente il vittimismo del malato (il che gl’impedirebbe di confrontarsi con le sue responsabilità) e, nello stesso tempo comprenda empaticamente le sofferenze che una deprivazione affettiva (non importa se preesistente oppure provocata dal soggetto) ha comportato e comporta. Dopo che il paziente è entrato in un parziale e temporaneo stato di fusione, occorre aiutarlo ad uscirne impadronendosi di sé stesso come individuo dotato di caratteristiche che appartengono a lui e a nessun altro. Ciò comporta che non escluda nulla di quanto lo caratterizza, neppure ciò che sarebbe spiacevole ammettere.

 

        Dante, dopo aver guardato intorno, volge gli occhi ai suoi piedi e vede due dannati così stretti l’uno all’altro che la chioma (‘l pel del capo) dell’uno si confonde (è “misto”) con quella dell’altro. Egli chiede chi siano e quelli alzano il viso (“piegaro i colli”) verso di lui. Nel farlo, il pianto scorre (“goccia”) giù verso le labbra e negli occhi bagnati le lacrime si congelano, serrando le palpebre più tenacemente che non faccia una spranga di ferro conficcata fra due pezzi di legno. A queste conseguenze spiacevoli dell’essere interpellati ed aver risposto, le due anime hanno uno scatto d’ira così violento da cozzare l’uno contro l’altro, come due montoni (“becchi).

 
pag. 467, vv. 40 – 51
Quando m’ebbi dintorno alquanto visto,
volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti,
che ‘l pel del capo avìeno insieme misto.
 
“Ditemi, voi che sì strignete i petti,”
diss’io “chi siete?” E quei piegaro i colli;
e poi ch’ebber li visi a me eretti,
 
li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli,
gocciar su per le labbra, e ‘l gelo strinse
le lacrime tra essi e riserrolli.
 
Con legno legno spranga mai non cinse
forte così; ond’ei come due becchi
cozzaro insieme, tanta ira li vinse.
 

        Come emergerà poco più avanti, i due dannati sono fratelli che in vita, per il reciproco odio, finirono per uccidersi l’un l’altro. Anche nell’Inferno danno prova della vicendevole ostilità: è bastato che la risposta alla domanda di Dante producesse in loro un ulteriore disagio per scatenare in entrambi una collera che li porta ad urtarsi, come due montoni che si scontrano. Verrebbe da sorridere pensando ai capponi di Renzo Tramaglino, ma credo che si possa ravvisare, nella scena illustrata dal Poeta, qualcosa di più. Come Dante li vede nell’inferno, costretti a rimanere come “appiccicati” l’uno all’altro, così è probabile che siano stati in vita: eccessivamente vicini e nell’impossibilità d’isolarsi. In quanto traditori, refrattari ad ogni forma di solidarietà e di leale collaborazione, ciascuno vide nel fratello soltanto un impaccio, un ostacolo ad un pieno appagamento narcisistico. Ognuno, perciò, fu incline a riversare sul “generato dallo stesso corpo” tutta la rabbia suscitata dalle inevitabili frustrazioni. Per questo motivo, nessuno dei due fu in grado di trarre, dalle limitazioni imposte dal mondo esterno, uno stimolo ad evolversi.

 

        A questo punto interviene un altro spirito che, malignamente, svela l’identità delle due anime e le colpe che stanno espiando. È un dannato che, per il freddo intenso (“la freddura”), è privo di entrambi gli orecchi. Egli, mantenendo il viso reclinato (“in giùe”), innanzi tutto, sempre malignamente, chiede a Dante come mai s’interessi tanto dei traditori, che cosa trovi in loro in cui riconoscere sé stesso (“cotanto in noi ti specchi”). Poi rende noto che, le due anime che il Poeta ha appena visto appartennero alla famiglia dei conti Alberti [di Mangona], signori della valle da cui discende (“si dichina”) il fiume Bisenzio. Essi sono fratelli, usciti dallo stesso ventre materno (“d’un corpo usciro”). Per il loro efferato delitto, in tutta la Caina [prima zona del IX cerchio], Dante non troverebbe ombra altrettanto “degna” d’essere fitta nel ghiaccio (definito, con ironia schernevole, “in gelatina”). A titolo d’esempio, egli cita il caso di colui [Mordrec, traditore appartenente alla casa reale di Artù] su cui un colpo di lancia, inferto dallo stesso re, produsse una ferita attraverso la quale poterono passare i raggi del sole, e così fu rotto sia il suo corpo, sia l’ombra che esso produceva. Cita, inoltre Focaccia [soprannome di Vanni dei Cancellieri, feroce e fazioso pistoiese, guelfo di parte bianca, che assassinò il cugino che militava nel partito avversario]. Menziona ancora Sassolo Mascheroni [noto in Toscana, ai tempi di Dante, per aver ucciso a tradimento un bambino, suo parente, a scopo di eredità]. Infine, per non essere costretto a dilungarsi (“perché non mi metti in più sermoni”), il dannato rivela la sua identità: è Camicione dei Pazzi [che uccise proditoriamente un cugino per impossessarsi dei suoi castelli]. Egli attende l’arrivo di un altro suo congiunto, Carlino dei Pazzi che, essendo un traditore peggiore di lui, potrebbe – quasi – discolparlo (“mi scagioni”)

 
pag. 468, vv. 52 – 69
E un ch’avea perduti ambo li orecchi
per la freddura, pur col viso in giùe,
disse: “Perché cotanto in noi ti specchi?
 
Se vuoi saper chi son cotesti due,
la valle onde Bisenzio si dichina
del padre loro Alberto e di lor fue.
 
D’un corpo usciro; e tutta la Caina
potrai cercare, e non troverai ombra
degna più d’esser fitta in gelatina;
 
non quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra
con esso un colpo per la man d’Artù;
non Focaccia; non questi che m’ingombra
 
col capo sì, ch’i’ non veggio oltre più,
e fu nomato Sassol Mascheroni;
se tosco se’, ben sai omai chi fu.
 
E perché non mi metti in più sermoni,
sappi ch’io fu’ il Camicion de’ Pazzi;
e aspetto Carlin che mi scagioni.”
 

        Benché privo di entrambi gli orecchi, Camicione possiede un’acuità uditiva (soprattutto tramite il suo “orecchio interno”) che gli consente di trarre, dalle voci che circolano nell’Inferno, qualcosa da porre al servizio della sua malignità. Non gli sfugge nulla con cui possa diffamare le altre anime, così come la sua acuita capacità d’osservazione gli permette di cogliere qualcosa che può ferire l’interlocutore. La sua domanda rivolta a Dante: “Perché cotanto in noi ti specchi?” è un’amara allusione al ghiaccio vitreo in cui i dannati sono immersi; però è anche una malevola intrusione nella vita interiore del Poeta: se s’interessa così tanto ai traditori non sarà perché c’è in lui qualcosa che può rispecchiarsi nella loro infame natura? La tendenza a tradire di Camicione è più forte di lui: parla delle altre anime con espressioni sarcastiche e derisorie; non c’è ombra di solidarietà con chi condivide una condizione tanto miserabile, nulla che possa ispirare sentimenti di pietà verso di loro e, di conseguenza, verso lui stesso. Si comprende bene, perciò, la sua impazienza di liberarsi di Dante, il contatto col quale gli suscita soltanto fastidio e vergogna. Il traditore verso tutto e tutti finisce per non riuscire ad esser solidale neppure con sé stesso.

 

        Dante prosegue dalla Caina alla zona seguente del Cocito, l’Antenora (verso “il mezzo” del cerchio), dove sono puniti i traditori della patria e della parte politica. Qui vede mille visi paonazzi (“cagnazzi”) per il freddo. La scena lo impressiona a tal punto che, per il resto della sua vita, proverà repulsione alla vista di acque stagnanti per il gelo (“gelati guazzi”), che gli ricordano quel tremendo luogo mai illuminato dal sole (“etterno rezzo”). Nel passare tra le teste dei dannati – non saprebbe dire se per atto volontario, o per destino, o per caso fortuito (“fortuna”) – percuote violentemente il viso di uno di quei peccatori.

 
pag. 468 – 469, vv. 70 – 78
Poscia vid’io mille visi cagnazzi
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
e verrà sempre, de’ gelati guazzi.
 
E mentre ch’andavamo inver lo mezzo
al quale ogni gravezza si rauna,
e io tremava nell’etterno rezzo;
 
se voler fu o destino o fortuna,
non so; ma passeggiando tra le teste,
forte percossi il piè nel viso ad una.
 

        Ammettendo d’aver potuto colpire “per volere” il viso del dannato, Dante anticipa di diversi secoli il concetto freudiano di “atto mancato” che realizza un desiderio inconscio. Tuttavia, in quanto Poeta, più che esprimere un concetto, trasmette un’esperienza vissuta. Come sarà rivelato poco più avanti, il volto che egli ha percosso appartiene a Bocca degli Abati, il traditore di Firenze nella battaglia di Montaperti. Dante deve averlo intuito ma, non essendone ancora sicuro, e non volendo ancora abbandonarsi deliberatamente ad un atto di violenza, maschera la volontarietà del suo gesto: non esclude d’averlo compiuto “per caso” o perché “così vuole il destino”

 

        Il dannato, per il dolore, piange e grida. Protesta contro Dante per averlo calpestato senza motivo, a meno che, molestandolo, non voglia inasprirgli la pena (“la vendetta”) per aver tradito a Montaperti.
        La parola “Montaperti”, pronunciata da un traditore del IX Cerchio (insieme a quanto ha probabilmente già intuito) suscita in Dante un dubbio: la grave sconfitta di Firenze in quella località, fu dunque causata da un tradimento? (Oppure, l’autore di un tradimento a lui già noto fu il dannato cui ha “involontariamente” colpito il viso?). Prega, perciò, Virgilio d’aspettarlo il tempo che gli occorre per darsi una risposta interrogando costui. Dopo potrà mettergli fretta quanto più (“quantunque”) vorrà. Chiede, quindi, chi egli sia al peccatore che lo sta rimproverando.

 
pag. 469, vv. 79 – 87
Piangendo mi sgridò: “Perché mi peste?
se tu non vieni a crescer la vendetta
di Montaperti, perché mi moleste?”
 
E io: “Maestro mio, or qui m’aspetta,
sì ch’io esca d’un dubbio per costui;
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta.”
 
Lo duca stette, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:
“Qual se’ tu che così rampogni altrui?”
 

        Il dannato, anziché rispondergli, chiede a Dante chi sia. Gli rimprovera di aggirarsi per l’Antenora percuotendo le gote dei peccatori con una forza che non avrebbe avuto (“troppo fora”) se fosse stato vivo. La replica di Dante è che egli è vivo e ciò può essergli conveniente (“caro”), se desidera la fama, perché inserirebbe il suo nome fra le proprie osservazioni (“note”) sull’Inferno, e lo diffonderebbe nel mondo dei mortali. Lo spirito afferma di desiderare l’opposto della fama, vuole essere dimenticato. Invita il Poeta ad andarsene e non dargli più motivo di lamentarsi (“lagna”); è inutile che cerchi di lusingarlo, perché tale atteggiamento non si addice ad una bassura lacustre (“lama”) maledetta come quella in cui si trovano.

 
 
“Or chi tu se’ che vai per l’Antenora
percotendo” rispuose “altrui le gote,
sì che, se fossi vivo, troppo fora?”
 
“Vivo son io, e caro esser ti pote,”
fu mia risposta “se dimandi fama,
ch’io metta il nome tuo tra l’altre note.”
 
Ed elli a me: “Del contrario ho io brama;
lèvati quinci e non mi dar più lagna,
ché mal sai lusingar per questa lama!”
 

        Finora Dante ha cercato di convincere il dannato a rivelare il suo nome ricorrendo alle “buone maniere”. La risposta di costui, che per lui non può esserci una buona fama da diffondere nel mondo, accresce nel Poeta il sospetto che si tratti del traditore di Montaperti – il traditore, come tale, sa che nel suo modo di essere c’è solo motivo di vergogna, e nulla che la gente possa apprezzare -; perciò dalla lusinga Dante passa alla minaccia.

 

        Afferrato il dannato per la collottola (la “cuticagna”), lo minaccia di strappargli i capelli (“che capel qui su non ti rimagna”) se non rivela il suo nome. Lo spirito risponde che, per quanto Dante passi dalle parole ai fatti, anche se mille volte (“fiate”) gli piombasse addosso (“mi tomi”), egli non dirà mai chi è, né mostrerà il suo volto.

 
pag. 474, vv. 97 – 102
Allor lo presi per la cuticagna,
e dissi: “El converrà che tu ti nomi,
o che capel qui su non ti rimagna.”
 
Ond’elli a me: “Perché tu mi dischiomi,
né ti dirò ch’io sia, né mostrerrolti,
se mille fiate in sul capo mi tomi.”
 

        Il traditore nei confronti degli altri non tradisce mai (volontariamente) sé stesso: nessuna lusinga o minaccia può indurlo a confessare un suo crimine. Più sopra si è ipotizzato che il modo di essere di chi tradisce sia frutto di una “identificazione con l’aggressore”. Originariamente traditi nell’attesa di un ambiente caldo, accogliente e comprensivo, questi dannati reagirono trasformando sé stessi da traditi in traditori e resero vittime, tutti gli altri, di ciò che, all’inizio, avevano subìto. Tra le forme di sofferenza dapprima patite, e ora attivamente provocate sui propri simili, ci fu la deprivazione di un rapporto empatico e sincero che avrebbe offerto elementi di verità su loro stessi; e ora, di tale verità, sono loro che privano gli altri.

 

        Dante aveva avvolto nelle sue mani i capelli del dannato, e gliene aveva già strappato (“tratti”) più di una ciocca mentre costui urlava come un cane (“latrando”), quando un compagno di pena lo chiama per nome: Bocca [degli Abati] chiedendogli come mai non gli basti emettere il suono del batter dei denti (“sonar con le mascelle”) e debba anche “latrare”. Appreso il nome dello spirito su cui sta infierendo, Dante ne trae definitiva conferma che si tratta del traditore fiorentino di Montaperti. Ora non occorre più la sua confessione: il Poeta ha saputo quel che voleva sapere e porterà nel mondo notizia della vergogna di costui.

 
pag. 474 – 476, vv. 103 – 111
Io avea già i capelli in mano avvolti,
e tratti li n’avea più d’una ciocca,
latrando lui con gli occhi giù raccolti,
 
quando un altro gridò: “Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca?”
 
“Omai” diss’io “non vo’ che tu favelle,
malvagio traditor; ch’alla tua onta
io porterò di te vere novelle.”
 

        Malignità e tendenza alla delazione dominano i rapporti tra questi dannati. Il compagno di pena aveva evidentemente assistito alla scena in cui Bocca degli Abati, nonostante i tormenti che Dante gli stava infliggendo, si rifiutava di rivelare il suo nome. Ora, con il pretesto di chiedergli perché “latra”, lo nomina e lo tradisce. Bocca gli rende “pan per focaccia”.

 

Bocca degli Abati, stizzito per essere stato scoperto, impone rabbiosamente a Dante d’andarsene, ostentando indifferenza per quel che, di lui, il Poeta potrà raccontare nel mondo. Come ritorsione nei confronti del dannato che aveva rivelato il suo nome (“quel ch’ebbe or così la lingua pronta”), rende noto a Dante di chi si tratta. È Buoso da Duera (“quel di Duera”) che, tradendo Manfredi di Svevia, si lasciò corrompere dal denaro dei Francesi (“de’ Franceschi”) e ora ne paga le conseguenze: sarcasticamente, invita Dante a riferire d’averlo trovato fra coloro che, immersi nel ghiaccio, “stanno freschi”.

 
pag. 476, vv. 112 – 117
“Va via,” rispuose “e ciò che tu vuoi conta;
ma non tacer, se tu di qua entro esci,
di quel ch’ebbe or così la lingua pronta.
 
El piange qui l’argento de’ Franceschi:
‘Io vidi’ potrai dir ‘quel di Duera
là dove i peccatori stanno freschi.’
 

        Non contento d’aver soddisfatto il suo radicato impulso alla delazione parlando di Buoso da Duera, Bocca rivela i nomi ed i misfatti di altri traditori dannati. Menziona Tesauro di Beccaria, traditore dei guelfi di Firenze, Gianni dei Soldanieri, che tradì i ghibellini della stessa città, Gano di Maganza, il famoso traditore di Orlando a Roncisvalle, Tebaldo dei Zambrasi, nobile fiorentino che consegnò proditoriamente la sua città ai nemici bolognesi.
        I due Poeti hanno appena lasciato Bocca, quando si presenta ai loro occhi una scena sconvolgente: due dannati sono confitti nel ghiaccio nella stessa buca, come aggrovigliati tra loro, in modo che il capo dell’uno, sovrastando quello dell’altro, gli fa, per così dire, da cappello. Come per fame si mangia (“manduca”) pane, così il peccatore che sta sopra (“‘l sovran”) pone i suoi denti là dove il cervello confina (“s’aggiunge”) con la nuca dell’altro. Allo stesso modo, Tideo [uno dei sette re che, nel mito, assediarono Tebe], sconvolto dallo sdegno e dall’odio (“per disdegno”), straziò coi denti (“rose”) il capo di Menalippo [il nemico tebano che lo aveva ferito mortalmente], così il dannato addenta ferocemente il teschio ed il suo contenuto (“l’altre cose”) dell’altro.

 
pag. 477, vv. 124 – 132
Noi eravam partiti già da ello,
ch’io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l’un capo all’altro era cappello;
 
e come ‘l pan per fame si manduca,
così ‘l sovran li denti all’altro pose
là ‘ve ‘l cervel s’aggiugne con la nuca:
 
non altrimenti Tideo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e l’altre cose.
 

        Con diverse similitudini, il Poeta comunica le sensazioni contrastanti che la scena gli suscita. La prima associazione d’idee è con il pane mangiato per fame. Chi si sfama col pane non può che essere un individuo in stato d’indigenza: gli aristocratici e le persone abbienti, ai tempi di Dante, si nutrivano di carne. Fame e povertà caratterizzano le prime impressioni del Poeta. Subito, però, Dante vi aggiunge un’altra similitudine significativa di feroce avidità e di odio. Tideo espresse regressivamente la sua furia vendicativa dando sfogo a pulsioni sadico-orali e cannibaliche. Con le sue prime impressioni, il Poeta anticipa le vicende di Ugolino, cogliendone già subito gli aspetti emotivi essenziali: deprivazione degli alimenti vitali e ferocia animalesca.
        Con un “potente effetto di contrasto” (cit.) rispetto all’atteggiamento tenuto con Bocca degli Abati, Dante si rivolge al dannato con parole che già esprimono comprensione e pietà nei confronti di lui e della sua storia.

 

        Al dannato che, in modo così bestiale (“bestial segno”) dimostra il suo odio verso colui che sta addentando, chiede il motivo del suo comportamento. Gli propone un patto (“convegno”): se, con le sue parole, dimostrerà di ritenersi offeso (“ti piangi”) a ragione da quanto l’altro dannato gli ha fatto, conoscendo la loro identità ed il torto (la “pecca”) da lui subìto, lo contraccambierà (“te ne cangi”) diffondendo fra i viventi la sua storia. Lo farà di sicuro, a meno che la sua lingua (“quella con ch’io parlo”) non si secchi.

 
pag. 477, vv. 133 – 139
“O tu che mostri per sì bestial segno
odio verso colui che tu ti mangi,
dimmi ‘l perché” diss’io “per tal convegno,
 
che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
nel mondo suso ancora io te ne cangi,
 
se quella con cui parlo non si secca.”
 

        Gli ultimi versi del Canto XXXII rappresentano un’introduzione alle vicende di Ugolino che Dante illustrerà nel Canto seguente. Riferendo le sue prime impressioni di fronte alla scena raccapricciante della vendetta, Dante, prima ancora d’aver reso noto il nome dei due dannati e la loro storia, ci fa entrare in un’atmosfera emotiva cupa, fatta di violenza e di sofferenze. Ora il Poeta si accinge, per voce di Ugolino, a raccontare la storia che, con il suo stesso atteggiamento, c’invita ad ascoltare con comprensione e pietà.

 
…………………………………………………………………………………………
 
Canto XXXIII

        Il peccatore, cui Dante si è rivolto alla fine del Canto XXXII, solleva la bocca dal “fiero pasto” e, ripulendola (“forbendola”) dai capelli del capo che egli aveva danneggiato sulla nuca (“di retro guasto”), inizia il suo discorso. Il Poeta, così dice, gli chiede di rinnovare un dolore disperato che gli stringe il cuore (“mi preme”) anche al solo pensarci, e prima ancora di parlarne. Tuttavia, se le sue parole devono (“dien”) essere seme che frutti infamia al traditore che sta addentando, Dante lo vedrà parlare e, insieme, lacrimare.

 
pag. 479, vv. 1 – 9
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto.
 
Poi cominciò: “Tu vuo’ ch’io rinnovelli
disperato dolor che ‘l cor mi preme
già pur pensando, pria ch’io ne favelli.
 
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
parlare e lacrimar vedrai inseme.
 

        Il dannato non conosce Dante, né sa come sia arrivato nell’Inferno, però dal suo modo di parlare (“quand’io t’odo) gli sembra fiorentino. Come tale, il suo nome, conte Ugolino [della Gherardesca], deve essergli noto. Il capo che sta martoriando appartiene all’arcivescovo Ruggieri [degli Ubaldini]. Su come, grazie al tradimento di quest’ultimo (“per l’effetto de’ suo’ mai pensieri”), egli fu arrestato e messo a morte, non occorre soffermarsi (“dir non è mestieri”): il fatto è risaputo. Tuttavia, ciò di cui può non aver sentito parlare (“inteso”) è la particolare crudeltà con cui Ruggieri pose fine ai suoi giorni. Conoscendola, Dante potrà meglio giudicare la gravità dell’offesa da lui subìta.

 
pag. 479 – 480, vv. 10 – 21
Io non so chi tu se’ né per che modo
venuto se’ qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand’io t’odo.
 
Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perch’i son tal vicino.
 
Che per effetto de’ suo’ mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri;
 
però quel che non puoi aver inteso,
ciò è come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso.
 

       Ugolino inizia il racconto del suo Calvario. Egli si trovava prigioniero nella torre [di Gualandi] (la “muda”) che dalle sue vicende prese poi il nome di “torre della fame”. Da una fessura del muro (“pertugio”) aveva visto avvicendarsi diverse fasi lunari (“più lune”). Erano, quindi, già trascorsi diversi mesi dall’inizio della sua prigionia, quando ebbe un incubo (“‘l mal sonno”) che, squarciandogli un tenue velo di simboli (cit.) (“‘l velame”) gli ricordò l’esperienza di persecuzione già sofferta e gli rivelò la fine che attendeva lui ed i suoi figli. Gli parve di vedere l’arcivescovo Ruggieri (“questi”) nel ruolo di guidatore e capo (“maestro e donno”) di una caccia mentre inseguiva un lupo ed i suoi lupicini verso il monte [S. Giuliano] che separa Pisa da Lucca (“per che i Pisan veder Lucca non ponno”). Cagne “magre” (e perciò fameliche e invogliate dalla preda: “studiose”) e ben ammaestrate (“conte), guidate dai Gualandi, con i Sismondi ed i Lanfranchi [le famiglie ghibelline di Pisa, nemiche di Ugolino] incalzavano i lupi e i lupicini, Questi, in breve tempo (“in picciol corso”) affaticati, venivano raggiunti e dilaniati dalle zanne (“scane”) acute delle cagne. Svegliatosi prima che facesse giorno, Ugolino sentì che i suoi bambini piangevano nel sonno e chiedevano pane.

 
pag. 480 – 481, vv. 22 – 39
Breve pertugio dentro dalla muda
la qual per me ha il titol della fame,
e ‘n che convien ancor ch’altri si chiuda,
 
m’avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand’io feci ‘l mal sonno
che del futuro mi squarciò ‘l velame.
 
Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e’ lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno.
 
Con cagne magre, studiose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s’avea messi dinanzi dalla fronte.
 
In picciol corso mi parìeno stanchi
lo padre e’ figli, e con l’agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi.
 
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti’ fra ‘l sonno i miei figliuoli
ch’eran con meco, e domandar del pane.
 

        Come spesso si riscontra nei sogni, i simboli sono sovradeterminati. Ugolino e i suoi figli sono rappresentati da lupi che, da un punto di vista politico, simboleggiano la Curia romana, a capo della parte guelfa. C’è, qui, un’allusione ad un tradimento di questo dannato che, originariamente ghibellino, passò al partito guelfo quando questo prevalse in Toscana. Inoltre, come la lupa che compare nel primo Canto (vv. 49 e seg.), questo animale è simbolo di avidità famelica. Avidità, fame e tradimento vengono condensati in un unico simbolo: Ugolino si rende conto, nel sogno, che la sua persecuzione fu conseguenza di un tradimento legato alla sua avidità di potere. Qui i persecutori (le “cagne magre”) sono ugualmente famelici e feroci quanto le loro prede: la deprivazione di cibo, nelle fantasie della prima infanzia, è proiettivamente vissuta come frutto della voracità di chi, anziché nutrire il soggetto, tiene tutti gli alimento per sé o, persino, si sfama con la carne del piccolo, assottigliandone il corpo. Avidità e tradimento finiscono fatalmente per scontrarsi con le tendenze ferine, del tutto simili, degli avversari. Il sogno dei figliuoli preannuncia chiaramente l’agonia prodotta dalla fame, nel momento in cui la deprivazione di cibo deve ancora iniziare.

 

        A questo punto, Ugolino interrompe per un momento la sua narrazione per chiedersi quali possono essere i sentimenti del suo interlocutore:

 
pag. 481, vv. 40 – 42
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che ‘l mio cor s’annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?
 

        Ugolino non ha ancora raccontato i fatti, ha solo parlato di sogni premonitori. Le produzioni oniriche, se un interlocutore empatico le vive insieme a chi le comunica, hanno il potere di parlare alle sue emozioni, prima ancora che all’intelletto. Esse scavalcano un’eventuale barriera di fredda razionalità, in chi ascolta, se solo questi è dotato di un minimo di sensibilità.
        In un contesto terapeutico, il curante che s’affretta a concepire e ad esprimere interpretazioni prima d’aver vissuto (“sognato”), insieme al suo paziente, il sogno che questi propone, mette in atto una manovra difensiva volta ad evitare emozioni spiacevoli. Finisce per apparire al malato come freddo e cinico. Come Ugolino a Dante, il paziente potrebbe chiedergli: “e se non piangi, di che pianger suoli?”.

 

         Ora Ugolino rivela quanto il suo sogno e quello dei bambini avevano preannunciato. Quando già tutti s’erano svegliati, e s’avvicinava l’ora in cui, di solito, veniva portato il cibo (fatto che i sogni premonitori avevano messo in dubbio), Ugolino sentì inchiodare (“chiavar”) l’uscio della torre. Egli, guardò in viso i figliuoli senza far parola e senza neppure riuscire a piangere, tanto era impietrito (“impetrai”) dal terrore. I bambini, però, piangevano ed Anselmuccio, il più piccolo, gli chiese angosciosamente il perché di quello sguardo così disperato. Ugolino non rispose e rimase senza parole e senza lacrime fino al giorno seguente.

 
pag. 481, vv. 43 – 54
Già eran desti, e l’ora s’appressava
che ‘l cibo ne solea essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;
 
e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
all’orribile torre; ond’io guardai
nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.
 
Io non piangea, sì dentro impetrai:
piangeano elli; e Anselmuccio mio
disse: ‘Tu guardi sì, padre! Che hai?’
 
Perciò non lacrimai né rispuos’io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l’altro sol nel mondo uscìo.
 

        Il bambino angosciato spesso cerca, nello sguardo del genitore, un messaggio che lo aiuti a contenere il suo malessere. È come se l’adulto, accolta in sé la sofferenza del figlio, gliela restituisse ridimensionata e resa più sopportabile attraverso l’espressione del viso. Ciò non può avvenire quando l’adulto è sopraffatto dal terrore. È impossibile, in questi casi, che il genitore riesca a comunicare, con le parole, l’opposto di quel che ha trasmesso con lo sguardo: l’espressione del viso, nel caso di forti emozioni, è incapace di mentire ed è più convincente.
        Una situazione del tutto simile si presenta in un contesto terapeutico in cui, pressoché di regola, il malato regredisce ad una relazione di dipendenza infantile. Se il terapeuta è sopraffatto dalla stessa angoscia del paziente, è inutile e controproducente che cerchi di smentire con le parole quel che lo sguardo sta comunicando. Un curante può essere all’altezza del suo compito solo se sa contenere l’angoscia del bambino che c’è in lui stesso. Può succedere che occasionalmente non ci riesca. Meglio, in questi casi, astenersi da risposte impulsive, cercare di “staccare la spina” delle emozioni, ed invitare il malato a fare altrettanto. Con una pausa di riflessione si può ottenere ciò che è stato impossibile attraverso una reazione immediata. Ogni curante ha bisogno di saper padroneggiare non solo l‘angoscia del bambino che c’è in lui, ma anche il suo narcisismo terapeutico, che lo spingerebbe ad apparire come non è, ossia sempre pronto e infallibile. Se cedesse a tale tentazione, finirebbe per essere giudicato non più credibile da parte del paziente.

 

        Il giorno dopo, appena un debole raggio di sole illuminò i volti, nelle (“per”) espressioni dei quattro piccoli, Ugolino lesse la sua stessa disperazione. Allora, non riuscendo più a contenere il suo dolore, egli si morse ambedue le mani. I bambini, pensando che lo facesse per fame (“voglia di manicar”) gli dissero che li avrebbero afflitti di meno (“men doglia”) se si fosse cibato della loro carne. Egli, in quanto genitore, ne “vestì” i corpi, ed ora ha pieno diritto di “spogliarli” per nutrirsene.

 
pag. 481 – 482, vv. 55 – 63
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
 
ambo le man per lo dolore morsi;
ed ei, pensando ch’i’ ‘l fessi per voglia
di manicar, di subito levorsi
 
e disser: ‘Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia.’
 

        Nell’ingenua e commovente affermazione dei bambini c’è un’evidente allusione a fantasie cannibalesche. In risposta all’angoscia dei piccoli, Ugolino si trova nella completa impossibilità di offrire un modello di reazione composta ed adulta: il suo mordersi le mani è significativo di una regressione ad uno stato mentale dominato da pulsioni sadico-orali incontrollate. I bambini lo hanno compreso: la comunicazione extra-verbale di Ugolino lo ha comunicato con chiarezza.

 

        Ugolino, allora, si calmò, per non affliggere ulteriormente i figliuoli, e per tre giorni nessuno pronunciò parola. Il quarto giorno Gaddo, il figlio maggiore, si gettò ai piedi del padre invocando invano il suo aiuto, e subito morì. Così come Dante lo sta vedendo, Ugolino, con la stessa terribile chiarezza, vide cadere uno dopo l’altro gli altri tre bambini tra il quinto e il sesto giorno. Poi, reso cieco dalla debolezza e dalla denutrizione, si diede a brancolare sopra i cadaveri dei figli, chiamandoli disperatamente per nome; infine “più che il dolor, poté ‘l digiuno”

 
pag. 481, vv. 64 – 75
Queta’mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t’apristi?
 
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gettò disteso a’ piedi,
dicendo: ‘Padre mio, ché non m’aiuti?’.
 
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ‘l quinto dì e ‘l sesto; ond’io mi diedi,
 
già cieco, a brancolar sovra ciascuno
e due dì li chiamai, poi che fur morti:
poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno.”
 

        Lo Scartazzini-Vandelli (cit.) a proposito dell’ultimo verso, scrive: “ormai è abbandonata quasi da tutti l’interpretazione: ‘La fame fu più forte del dolore e m’indusse a cibarmi delle carni de’ figli’. Di tale antropofagia si fa cenno già in un’antica cronaca… ma che il cenno corrisponda alla realtà non è sicuro… Ugolino vuol raccontare come la morte sua fu cruda; epperò, descritte le tragiche sofferenze degli ultimi giorni, tocca del momento supremo di sua vita dicendo che più potente del dolore… che quasi lo nutriva, fu su di lui il digiuno: questo solo ebbe forza d’ucciderlo”.
        I versi che ci narrano la fine del Conte Ugolino comunicano, filtrata attraverso l’espressione poetica, una grande angoscia. È quindi inevitabile che qualcuno dei lettori (o dei commentatori) cerchi di attenuarla attraverso l’uso difensivo della negazione. Questa, tuttavia, si palesa grazie a contraddizioni e incongruenze che suonano stridenti. Lo Scartazzini-Vandelli dice: “Di tale antropofagia si fa cenno già in un’antica cronaca… ma che il cenno corrisponda alla realtà non è sicuro…”. Qui il commentatore pare essersi dimenticato che la Poesia non ha bisogno d’essere fedele alla cronaca. Poesia e cronaca dei fatti oggettivi possono essere discordanti per il semplice motivo che il Poeta si occupa delle vicende interiori, e non di quelle oggettivamente rilevate da un cronista. Appellarsi alla cronaca sia per affermare, sia per negare l’antropofagia è del tutto fuori luogo.
        D’altronde, i commentatori non hanno avuto nulla da eccepire quando Dante descrive i minori imprigionati con Ugolino come fossero tutti suoi figli, quando in realtà due di essi erano nipoti; e quando nei versi ci vengono presentati tutti bambini, quando in realtà il più giovane, Anselmuccio, aveva circa quindici anni. Ci sono qui ragioni poetiche: i figli sono gli esseri umani in cui ci si identifica al massimo grado; i bambini sono coloro che, nel caso di situazioni angosciose, presentano “allo stato puro” la stessa tempesta emotiva che, contrastata in vario modo, c’è anche nell’adulto.
        Dante, in questo Canto ricrea e ci fa vivere la terribile esperienza di una fine imminente prodotta dalla deprivazione dell’alimento vitale. In questa situazione, rivelandosi le risorse adulte del tutto inefficaci, è inevitabile una regressione estrema. Non esiste più un adulto capace di proteggere e sostenere i bambini. Dice Ugolino: “io scorsi / per quattro visi il mio stesso aspetto”. Tutti sono divenuti ugualmente bambini, incapaci di fronteggiare la realtà ed inclini alla regressione. Che questa possa raggiungere il limite estremo in cui emergono pulsioni sadico-orali cannibalesche non è affatto inverosimile (fatti di cronaca, anche recenti, lo confermano). Che tali pulsioni si siano manifestate come pure fantasie (espresse in modo simbolico con il “mordersi le mani”) oppure che siano state tradotte in atto, ai fini della Poesia, è del tutto irrilevante. Dante, con l’espressione ambigua “più che il dolor poté il digiuno” ce lo comunica: c’è qui una possibile allusione ad un’effettiva antropofagia, ma ne abbiamo solo il sospetto, non una certezza. Qui il Poeta si distingue nettamente dall’analista “selvaggio” che direbbe senz’altro: “si nutrì della carne dei suoi figli, oppure ebbe la fantasia di farlo”. L’espressione poetica non è mai così cruda: suggerisce in modo allusivo tale interpretazione, ma lascia libero il lettore (a seconda del suo grado di maturità e di saldezza interiore) di scegliere se accoglierla o respingerla. Ecco il motivo principale per cui ritengo che il Poeta abbia molto da suggerire al terapeuta: l’espressione poetica, in casi di questo genere, è da prendersi come modello.

 

        Terminato il suo discorso, Ugolino, con occhi ferocemente biechi (“torti”), riprende a rodere il teschio di Ruggeri con denti forti come quelli di un cane.

 
pag. 482, vv. 76 – 78
Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese ‘l teschio misero co’ denti,
che furo all’osso, come d’un can, forti.
 

        L’uomo adulto, sopraffatto dal senso d’impotenza e dal dolore, ha finito di parlare. Subentra di nuovo, ora, l’individuo regredito ad una feroce voracità animalesca. La regressione e la rabbia sono le uniche risorse che possono offrire un qualche sollievo quando il dolore non trova alcuno sbocco costruttivo. Che qui Ugolino dia libero corso alle sue pulsioni cannibalesche è fuori da ogni dubbio.

 

       Segue un’invettiva di Dante contro la città di Pisa. La definisce “vituperio” dell’Italia, il paese dove viene usato l’avverbio affermativo “sì” (“dove ‘l sì sona”). Dato che i vicini [le città guelfe di Firenze e di Lucca, contrapposte alla ghibellina Pisa] tardano a punirla, si augura che le isole di Capraia e di Gorgona si muovano e chiudano la foce dell’Arno (“faccian siepe ad Arno”). In tal modo le acque, straripando, farebbero annegare tutti i Pisani. Se il Conte Ugolino poteva essere accusato (“aveva voce”) d’aver tradito la sua città cedendo castelli ai nemici (“tradita te delle castella”), non c’era alcun motivo per infliggere un simile supplizio (“tal croce”) ai figli Uguiccione, Brigata e agli altri due. L’età giovanile di questi li rendeva innocenti. Definisce Pisa una “novella Tebe”, la città degli eventi sinistri e dei delitti dell’antichità.

 
pag. 482 – 483, vv. 79 – 90
Ahi Pisa, vituperio delle genti
del bel paese dove ‘l sì sona,
poi che i vicini a te punir son lenti,
 
muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch’elli annieghi in te ogni persona!
 
Ché se ‘l conte Ugolino aveva voce
d’aver tradita te delle castella,
non dovei tu i figliuol porre a tal croce.
 
Innocenti facea l’età novella,
novella Tebe, Uguiccione e ‘l Brigata
e li altri due che ‘l canto suso appella.
 

        Anche Dante, qui, sembra reagire ad un dolore insopportabile con la rabbia. Una rabbia che fa perdere al Poeta la preoccupazione per la coerenza: accusa Pisa d’aver condannato ingiustamente degli innocenti, ma sembra (sembra) non accorgersi che si augura che le acque dell’Arno travolgano tutti, senza escludere donne e bambini.
        L’invettiva di Dante non si rivolge a particolari persone, o ad una fazione politica, ma alla “città madre” che, come l’antica Tebe, è stata il terreno da cui i più efferati delitti sono emersi. Il Poeta è consapevole che c’è una matrice originaria che favorisce il nascere del tradimento e dei crimini che esso comporta.

 

        I due Poeti passano ora nella terza zona del Cocito [la Tolomea, dove vengono puniti i traditori degli amici e dei commensali] dove il lago ghiacciato (“la gelata”) cinge strettamente (“ruvidamente… fascia”) un’altra schiera di dannati (“un’altra gente”), costringendoli all’immobilità, non solo dal collo in giù (“non volta in giù”), ma in tutto il corpo in posizione supina (“riversata”). Hanno il viso rivolto verso l’alto, cosicché il pianto stesso impedisce loro di piangere, perché le lacrime, ghiacciando, ostacolano (“fanno groppo”) il loro stesso fluire e, come “visiere” [delle armature], riempiono la cavità oculare (“il coppo”).

 
pag. 483, vv. 91 – 99
Noi passammo oltre, là ‘ve la gelata
ruvidamente un’altra gente fascia,
non volta in giù, ma tutta riversata.
 
Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
e ‘l duol che truova in su li occhi rintoppo,
si volge in entro a far crescer l’ambascia;
 
ché le lagrime prime fanno groppo,
e sì come visiere di cristallo,
riempion sotto ‘l ciglio tutto il coppo.
 

        Il pianto è l’espressione del dolore. È come un invito, rivolto ad un interlocutore reale o immaginario, a condividere tale sentimento, affinché, anche solo essendone partecipe, possa lenirlo. Ciò è impossibile per questi “traditori degli amici”. Il gelo li avvolge, li paralizza, e domina anche la loro vita interiore. La freddezza, che ha pervaso tutto il loro essere, impedisce loro di credere che possa esistere un amico capace di consolarli, e sulla cui spalla poter piangere. Perciò, il dolore, non trovando un modo di esprimersi nel mondo esterno, ristagna nella vita interiore, e ciò accresce la loro sofferenza. La parola “ambascia”, ossia grave difficoltà di respiro, descrive molto bene in termini fisici questa situazione di paralisi dell’espressione emotiva e di oppressione interiore.

 

        Benché, come un callo, il freddo avesse reso insensibile il suo viso (“cessato… del mio viso stallo”, ossia la sensibilità non vi avesse più sede), Dante avverte sul volto come un vento. Chiede, perciò, a Virgilio da dove venga (“chi move?”) tale corrente. Com’è possibile, visto che nell’Inferno il sole non solleva vapori [per cui, creandosi un vuoto, si produce il vento]? Il Maestro gli risponde che presto (“avaccio) saranno i suoi occhi a soddisfare la sua curiosità, rivelandogli la causa del vento (“la cagion che ‘l fiato piove”, ossia lo fa venire).

 
pag. 483 – 487, vv. 100 – 108
E avvegna che sì come d’un callo,
per la freddura ciascun sentimento
cessato avesse del mio viso stallo,
 
già mi parea sentire alquanto vento:
per ch’io: “Maestro mio, questo chi move?
non è qua giù ogne vapore spento?”
 
Ed elli a me: “Avaccio sarai dove
di ciò ti farà l’occhio la risposta,
veggendo la cagion che ‘l fiato piove.”
 

        A questo punto, uno degli sciagurati (“tristi”) racchiusi nel ghiaccio (la “crosta”), avendo sentito Dante e Virgilio mentre parlavano dell’origine del vento [nel fondo del Cocito], e credendoli spiriti di dannati destinati alla peggiore punizione, li apostrofa chiamandoli “anime crudeli”, ossia malvage al punto d’essere assegnate alla zona più profonda dell’Inferno (“l’ultima posta”). Li prega di togliere dai suoi occhi i “duri veli” di ghiaccio che gl’impediscono di lacrimare, per poter dare sfogo, col pianto, al dolore che gli opprime il cuore; e questo almeno un poco, prima che le lacrime si congelino nuovamente. La risposta di Dante è piena di malizia: come se fosse un giuramento, garantisce al dannato di soddisfare la sua richiesta (“ti sovvegna”); se non lo farà (“non ti disbrigo”) che finisca pure al fondo del lago ghiacciato [in realtà dovrà raggiungerlo, ma non per restarvi]. Gli chiede, in cambio, di rivelare il suo nome.

 
pag. 487, vv. 109 – 117
E un de’ tristi della fredda crosta
gridò a noi: “O anime crudeli,
tanto che dato v’è l’ultima posta,
 
levatemi dal viso i duri veli,
sì ch’io sfoghi il duol che ‘l cor m’impregna,
un poco, pria che ‘l pianto si raggeli.”
 
Per ch’io a lui: “Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna,
dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo,
al fondo della ghiaccia mi convegna.”
 

        Il pianto è la prima forma di comunicazione della sofferenza che compare nella vita. Se compreso empaticamente dalla genitrice, presto diviene un modo d’invocare il soccorso materno. Dante sembrerebbe, qui, segnalarci che la freddezza che lo frena nel traditore ha origini antichissime: risale ai primordi dell’esistenza. Ci segnala, inoltre, che non è del tutto scomparsa, in questi dannati, l’esigenza d’esprimere in modo sano il dolore piangendo. Essendoci ancora questa possibilità, e dato che esiste in costoro un margine di libero arbitrio, ne risulta che il tradimento e la freddezza (propria e altrui) sono stati il frutto di una loro scelta; come tale, essa viene punita dalla Giustizia divina (dalla realtà): chi, nei confronti dei propri simili, usa un cinico inganno è inevitabile che venga contraccambiato con la stessa “moneta” (come sta facendo Dante con la sua promessa ingannevole); questo è un aspetto della punizione della loro colpa che loro stessi si sono procurata.

 

        Il dannato, questa volta vittima e non artefice dell’inganno, s’affretta a rivelare il suo nome: Alberigo [dei Manfredi, signori di Faenza]. Egli, avendo invitato alcuni parenti ad un banchetto, diede ordine di ucciderli al momento della frutta (lo dice con amara ironia: “io son quel dalle frutta del mal orto”); e ora, sempre rimanendo in tema di frutta, riceve “dattero per figo”, ossia, essendo il dattero più squisito del fico, sta subendo una punizione ancor peggiore del suo atto colpevole.

 
pag. 487, vv. 118 – 120
Rispuose adunque: “I’ son frate Alberigo;
io son quel dalle frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo.”
 

        Il significato dell’espressione “dattero per figo” è intuitivamente evidente. È, quindi, superfluo rilevare l’incongruenza: se il dattero è il frutto più squisito, come può essere il simbolo di una punizione più dura? Per chi ha famigliarità con gli aspetti profondi della mente, è altrettanto superfluo rilevare il significato sessuale del dattero, un frutto dalla forma allungata e dal nocciolo duro, rispetto a quello di un frutto soffice, che accoglie al proprio interno i suoi semi teneri, qual è il fico. Non meno evidente è che qui, come nell’episodio del conte Ugolino, siamo all’interno di vicende perverse e sciagurate che appartengono all’oralità.

 

        Le parole di questo dannato suscitano in Dante grande meraviglia: gli risultava che frate Alberigo fosse ancora vivo. Gli chiede, stupito, se sia già (“ancor”) morto. Il peccatore gli risponde che dello stato del suo corpo vivo (di come stia: “stea”), su nel mondo, non ne sa nulla (“nulla scienza porto”). Affinché più volentieri gli tolga via (“mi rade”) dal volto le lacrime ghiacciate (“’nvetriate”), spiega ancora a Dante che i dannati della Tolomea hanno questa speciale condizione (“vantaggio”): spesso le loro anime cadono nell’Inferno prima che Atropo [la “inesorabile” delle tre Moire] recida i fili della vita corporea. Appena l’anima tradisce, come nel suo caso, il corpo le viene sottratto da un demonio che lo domina per tutto il tempo della vita mortale, finché essa ancora persiste (“mentre che ‘l tempo suo tutto sia vòlto”). L’anima, però, precipita (“ruina”) nel pozzo infernale (“cisterna”). Forse è ancora visibile (“si pare”) nel mondo il corpo dell’ombra che, dietro di lui, sta “svernando” (“verna”) nel gelo. È l’anima di Branca d’Oria, [nobile genovese], precipitata nell’Inferno già da parecchi anni. Dante non riesce a credergli: gli risulta che Branca d’Oria dia tutti i segni visibili della vita: mangia, beve (“bee”), dorme e veste panni.

 
pag. 487 – 488, vv. 121 – 141
“Oh!,” diss’io lui “or se’ tu ancor morto?”
Ed elli a me: “Come il mio corpo stea
nel mondo su, nulla scienza porto.
 
Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l’anima ci cade
innanzi ch’Atropòs mossa le dea.
 
E perché tu più volontier mi rade
le ‘nvetriate lacrime dal volto,
sappie che tosto che l’anima trade
 
come fec’io, il corpo suo l’è tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che ‘l tempo suo tutto sia vòlto.
 
Ella ruina in sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
dell’ombra che di qua dietro mi verna.
 
Tu ‘l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
elli è ser Branca d’Oria, e son più anni
poscia passati ch’el fu sì racchiuso.”
 
“Io credo” diss’io lui “che tu m’inganni;
ché Branca d’Oria non morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni.”
 

        Questi versi danteschi colpirono la sensibilità di Primo Levi. In un periodo in cui una profonda depressione aveva ormai preso piede in lui, egli, contro ogni evidenza si auto-accusava d’aver condannato alla morte per inedia alcuni suoi compagni di prigionia. Clandestinamente, Levi si era procurato del cibo; tuttavia questo bastava appena per lui e per pochi amici: era inevitabile che altri ne fossero esclusi. Tuttavia, con l’irragionevolezza di un’estrema regressione, egli era tormentato da sentimenti di colpa. Nella Poesia “il superstite”, vedendo comparire in sogno i “sommersi” (coloro che, a differenza dei “salvati”, erano stati travolti dalla deprivazione di cibo di Auschwitz), cerca disperatamente di difendersi dalle loro accuse in un modo che, poco convinto, denuncia l’irremovibilità delle auto-accuse:

“Indietro, via di qui, gente sommersa,
Andate. Non ho soppiantato nessuno,
Non ho usurpato il pane di nessuno,
Nessuno è morto in vece mia. Nessuno.
Ritornate alla vostra nebbia.
Non è mia colpa se vivo e respiro
E mangio e bevo e dormo e vesto panni”

La citazione del verso dantesco testimonia che qui Levi vede un’affinità fra la sua condizione interiore e quella di Branca d’Oria. Pur essendo apparentemente vivo, la sua anima è già morta, e si trova nel luogo delle colpe inemendabili: nella zona dell’Inferno detta Tolomea, destinata ai traditori degli amici. Il suo corpo, invece, sopravvive (in un’esistenza puramente vegetativa) grazie ad un “demonio”: la personificazione delle tendenze ferine volte esclusivamente alla salvaguardia della vita, e non sfiorate dai sentimenti di colpa.
        Levi qui, ispirato da Dante, illustra la situazione soggettiva sua e di molti depressi: una scissione difensiva tra mente e corpo fa sì che solo la psiche risenta delle conseguenze mortali di (presunte) “colpe” irreparabili, mentre nel corpo prevalgono ancora gli istinti di sopravvivenza. Che si tratti di una difesa poco efficace è purtroppo testimoniato dalla morte di questo grande scrittore: egli pose fine ai suoi giorni col suicidio.
        Pur essendo profondamente regredito – anche qui sono evidenti i conflitti tipici della fase orale – Levi conserva la presenza di spirito che gli consente d’illustrare con grande lucidità la sua situazione interiore. Tuttavia le sue tragiche vicende testimoniano che autocoscienza, razionalità e ispirazione poetica non bastano per salvare una persona; non bastano se questa persona – come fece Levi – rifiuta testardamente, quasi fino all’ultimo, un aiuto da parte di un suo simile. A Dante fu possibile un viaggio nell’Inferno (il luogo caratterizzato dall’assenza di Dio) in virtù della Grazia divina e della guida di Virgilio. A noi tutti, nei momenti di profonda crisi (un’esperienza “infernale”), occorre la guida e la protezione di una persona, diversa da noi, che ci aiuti a ripristinare il contatto interiore con l’Oggetto arcaico ideale (che lo si chiami, o non lo si chiami Dio), ossia con la fonte prima di ogni tipo di soccorso interno. Da soli non siamo in grado di farlo. In assenza di tale protezione, retaggio di un antico rapporto d’amore, le sole risorse umane adulte sono del tutto impotenti; ed è inutile che Levi cerchi di difendersi dalle fantasie depressive-persecutorie tentando di ricacciare nella “nebbia” dell’oblio le immagini delle sue presunte vittime, e faccia uso della negazione (che non lo convince) per smentire le sue irremovibili auto-accuse.

 

        Alberigo controbatte l’obiezione di Dante ribadendogli che già da tempo Branca d’Oria lasciò il suo corpo ad un diavolo, in vece sua, all’epoca del tradimento che costò la vita a Michele Zanche (inferno, XXII, vv. 88 – 89). Quest’ultimo non era ancora precipitato nella bolgia dei barattieri, e l’anima di d’Oria si trovava già nella Tolomea.
        Terminato il suo resoconto, Alberigo invita Dante a mantenere la sua promessa, aprendogli gli occhi. Il Poeta, però, si rifiuta di farlo, e fu nobile atto (“cortesia”) usare villania (“esser villano”) nei confronti di tale scellerato.

 
pag. 489, vv. 148 – 150
Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi gli occhi.” E io non li apersi;
e cortesia fu lui esser villano.
 

        Dante rispetta i decreti della Giustizia divina contraccambiando il traditore con un tradimento, ossia con l’inganno della sua falsa promessa. Ciò rappresenta parte della punizione che questi dannati si sono cercati. È la conseguenza inevitabile delle loro scelte, che non può essere modificata da alcun atto di “cortesia”. Anche un gesto apparentemente “villano” non è tale, visto che è impossibile agire contro la realtà: essa ha decretato che un traditore, cui la cortesia è sconosciuta, non possa essere trattato in altro modo che non sia uguale e contrario a come lui si comporta.

 

        Dante, sdegnato di fronte a tanta scelleratezza, prorompe in un’aspra invettiva contro i Genovesi, uomini alieni da ogni buon costume (“diversi d’ogne costume”) e rotti ad ogni vizio (“pien d’ogni magagna”), augurando loro d’essere dispersi (“spersi”) nel mondo. Insieme ad uno di loro, incontrò Alberigo, il “peggiore spirito di Romagna” che, per castigo delle sue opere (“per sua opra”) è immerso, nell’anima (“si bagna”), nel ghiaccio del Cocito, mentre il suo corpo sembra ancora vivere nel mondo al di sopra (“di sopra”) della voragine infernale.

 
pag. 489, vv. 151 – 157
Ahi Genovesi, uomini diversi
d’ogne costume e pien d’ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?
 
Chè col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra
in anima in Cocito già si bagna,
 
ed in corpo par vivo ancor di sopra.
 

        I traditori degli amici non possono aspettarsi alcun sentimento amichevole di comprensione e pietà. La condanna (la conseguenza inevitabile) delle loro scelte sbagliate è di suscitare solo sdegno, anche quando sofferenti, anche quando già defunti. Dante, tuttavia, anche in quest’occasione non manca di sottolineare la matrice dei comportamenti proditori: la gente e la città di Genova, come già ha fatto con Pisa, città madre dei traditori. Al Poeta non manca la consapevolezza del ruolo della cultura – di cui i genitori si fanno, in qualche misura, portavoce – nel favorire la comparsa di questi comportamenti scellerati.

 
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Canto XXXIV

        Il Canto descrive la parte più profonda dell’Inferno. Esso è introdotto da una solenne presentazione di Virgilio, con la quale egli allude alle sei ali di Lucifero, che Dante ancora non vede. Appariranno distintamente al Poeta appena avrà messo a fuoco (“se tu ‘l discerni”) quel che si presenta ai suoi occhi.

 
pag. 491, vv. 1 – 3
“Vexilla regis prodeunt inferni
verso di noi; però dinanzi mira”
disse ‘l maestro mio “se tu ‘l discerni.”
 

        Virgilio cita il primo verso dell’Inno alla Croce, composto nel 569 da Venanzio Fortunato, vescovo di Poitiers – La traduzione in italiano è “i vessilli del re dell’inferno si avvicinano” – L’inno “era cantato dalla chiesa nel venerdì santo, allo scoprirsi della Croce; ma il Poeta vi aggiunge la parola ‘inferni’, applicandone il senso non più alla Croce, ma alle ali di Lucifero” (Del Lungo, cit.). Nella croce Gesù, con il suo sacrificio, espiò le colpe del mondo, sollevando l’essere umano dall’oppressione del peccato originale e ridandogli vita. Le ali di Lucifero hanno il significato opposto: esse, con il vento che creano, gelano le acque del Cocito; producono, cioè, il ghiaccio che sopprime ogni vitalità e rappresenta l’estrema perdizione.

 

        Alle parole di Virgilio, Dante dirige gli occhi davanti a sé. Tuttavia, per l’oscurità del luogo (“come quando una grossa nebbia spira”, oppure quando “annotta”) scorge confusamente qualcosa che gli sembra un mulino a vento, o un enorme ordigno di guerra (“dificio”). Raggelato dal vento e dalla paura, il Poeta si ripara (“mi ristrinsi”) dietro al suo Maestro, dato che non c’era altra protezione (“grotta”).

 
pag. 491, vv. 4 – 9
Come quando una grossa nebbia spira,
o quando l’emisperio nostro annotta,
par di lungi un molin che ‘l vento gira,
 
veder mi parve un tal dificio allotta,
poi per lo vento mi ristrinsi retro
al duca mio; ché non li era altra grotta.
 

        Nel frattempo, Dante volge lo sguardo sul fondo della ghiaccia, e la scena che scorge gli suscita una paura che si rinnova anche quando ne parla nei suoi versi (“il metto in metro”): le ombre erano interamente immerse nel ghiaccio (“tutte eran coperte”), e trasparivano come pagliuzze nel vetro (“come festuca in vetro”). Alcune giacevano supine, altre in posizione eretta o capovolta, altre ripiegate su sé medesime (“com’arco, il volto a’ piè rinverte”). Quasi preso dall’orrore, il Poeta non indugia più di tanto nella descrizione, non fa nomi, non va al di là di sei versi tuttavia molto eloquenti.

 
pag. 491, vv. 10 – 15
Già era, e con paura il metto in metro,
là dove l’ombre tutte eran coperte,
e trasparìen come festuca in vetro.
 
Altre sono a giacere; altre stanno erte,
quella col capo e quella con le piante;
altra, com’arco, il volto a’ piè rinverte.
 

        Dante non si limita a descrivere gli aspetti esteriori della scena paurosa, ci fa anche entrare nella sua esperienza menzionando il proprio stato d’animo nell’atto in cui la rende Poesia. Catturati dalla scena, c’identifichiamo anche con il soggetto che la percepisce. L’orrore del Poeta diventa anche il nostro orrore nel momento in cui ci viene presentata la completa dissoluzione della vita: cadaveri in posizioni disordinate che, a differenza delle salme di persone care, nessuno ha avuto la pietà di ricomporre. La morte, qui, non lascia quella “eredità d’affetti” che fa sì che i sopravvissuti offrano al defunto la parvenza di vita del sonno. Qui non sono più “parvenze umane, ma materia inerte, fredda, dura, pietrificata per l’eternità” (cit.). L’allontanamento dall’Oggetto arcaico ideale (Dio per i credenti), fonte di amore e di vita, non potrebbe essere più grande.

 

        Quando i due Poeti si sono inoltrati in quel “cimitero di ghiaccio” (cit.), Virgilio fa fermare il suo discepolo e gli mostra l’orribile immagine di Dite [Lucifero] che, prima della ribellione a Dio, fu il più bello degli angeli (“ebbe il bel sembiante”). Raccomanda a Dante, di fronte a tale terribile spettacolo, di armarsi di coraggio (“convien che di fortezza t’armi”). La visione di Satana rende il Poeta talmente agghiacciato di terrore e senza fiato (“gelato e fioco”) da non riuscire, ora, a tradurre in parole il suo stato d’animo. Non muore, ma si sente privo di vita. Se il lettore ha un poco (“fior”) d’ingegno [d’immaginazione creativa], può intuire come si sentì immune dalla morte, ma nello stesso tempo senza vita (“d’uno e d’altro privo”)

 
pag. 495, vv. 16 – 27
Quando noi fummo fatti tanto avante,
ch’al mio maestro piacque di mostrarmi
la creatura ch’ebbe il bel sembiante,
 
d’innanzi mi si tolse e fe’ restarmi,
“Ecco Dite” dicendo £ed ecco il loco
ove convien che di fortezza t’armi.”
 
Com’io divenni allor gelato e fioco,
nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo,
però ch’ogni parlar sarebbe poco.
 
Io non morì, e non rimasi vivo:
pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno,
qual io divenni, d’uno e d’altro privo.
 

        La ribellione a Dio ha mutato radicalmente le sembianze di Lucifero: fu il più bello fra gli angeli, e ora ha assunto un aspetto orribile. Adler stabilì un nesso fra le caratteristiche psichiche dell’individuo ed il suo corpo, riconducendo le alterazioni mentali ad una “inferiorità d’organo”. Kohut obbiettò che, a rendere l’individuo insicuro, vulnerabile o aggressivo, non sono le deformità corporee di per sé, ma le conseguenze permanenti di uno scarso amore della madre arcaica verso un bambino brutto, “mal riuscito”. Ciascuno di noi, per sentirsi amabile e sicuro di sé, ha bisogno d’essere visto, all’inizio della vita, come il “bello di mamma”. Tale percezione dell’apprezzamento materno, anche quando non del tutto oggettivamente fondata, influenza in qualche misura anche l’aspetto esteriore stesso: ci sentiamo “belli” dentro e, in parte, diveniamo davvero “belli” anche fuori.

        Dante pare sostenere l’origine affettiva, e non primitivamente corporea, dei cambiamenti del mondo interno e, con essi, dell’aspetto esteriore: finché Lucifero godette del benvolere del Creatore, egli fu il più bello fra gli angeli. Quando si ribellò, e per sua scelta non poté più giovarsi dell’amore del Signore, il suo aspetto divenne mostruoso e raccapricciante. È l’amore del Creatore (del genitore arcaico) che crea il sentimento e la realtà della bellezza; il corpo non ne è del tutto indipendente.

        Il Poeta è come “contagiato” dalla visione di Satana: come lui (come vedremo), si sente non ancora morto, però anche senza vita, ossia privato dell’influenza vivificante dell’amore del Creatore. Anche qui, Dante non ci offre soltanto una pura descrizione della scena: ci coinvolge anche nell’esperienza da lui vissuta invitandoci a creare, nel nostro intimo, quel che le parole non possono esprimere.

 

        Satana emerge dal ghiaccio solo con il petto. È di tali dimensioni che Dante può confrontare sé stesso (“mi convegno”) con un gigante più di quanto la statura del colosso si possa equiparare al braccio di Lucifero. Da tale paragone, il lettore può farsi un’idea dell’enormità di tutta quanta la persona (“quel tutto”) dello “’mperador del doloroso regno”. Egli ha un aspetto di una mostruosità tanto grande quanto un tempo fu la sua bellezza: osò sfidare il suo Creatore, che l’aveva reso così bello, fissandolo in modo arrogante negli occhi (“contra ‘l suo fattore alzò le ciglia”); colpevole di un tale tradimento, si comprende come da lui debba procedere tutto quel che nel mondo è tristo, doloroso, e spogliato di ogni bellezza (“ogni lutto”).
        Satana ha tre facce di diverso colore: la centrale è vermiglia; delle altre, che emergono dalle sue spalle e si congiungono sulla cima (la “cresta”) del capo, la destra è giallo chiaro, la sinistra è dello stesso colore bruno della pelle degli Etiopi, gli abitanti del paese da dove discende il Nilo (“onde ‘l Nilo s’avvalla”). Sotto ciascuna faccia spuntano grandi ali prive di penne, dalla forma (“modo”) simile a quelle del pipistrello (“vipistrello”). Agitandole, Lucifero crea tre venti che raggelano le acque del Cocito. Dai suoi sei occhi sgorgano lacrime che, miste alla bava sanguinolenta che esce dalle bocche, gli bagnano i tre menti.

 
pag. 495 – 496, vv. 28 – 54
Lo ‘mperador del doloroso regno
da mezzo il petto uscìa fuor della ghiaccia;
e più con un gigante io mi convegno,
 
che giganti non fan con le sue braccia:
vedi oggimai quant’esser dee quel tutto
ch’a così fatta parte si confaccia.
 
S’el fu sì bello com’elli è or brutto,
e contra ‘l suo fattore alzò le ciglia,
ben dee da lui procedere ogni lutto.
 
Oh quanto parve a me gran maraviglia
quand’io vidi tre facce alla sua testa!
L’una dinanzi, e quella era vermiglia;
 
l’altr’eran due, che s’aggiugnìeno a questa
sovresso ‘l mezzo di ciascuna spalla,
e sé giugnìeno al luogo della cresta:
 
e la destra parea tra bianca e gialla;
la sinistra a vedere era tal, quali
vegnon di là onde ‘l Nilo s’avvalla.
 
Sotto ciascuna uscivan due grand’ali,
quanto si convenìa a tanto uccello:
vele di mar non vid’io mai cotali.
 
Non avean penne, ma di vipistrello
era lor modo; e quelle svolazzava,
sì che tre venti si movean da ello:
 
quindi Cocito tutto s’aggelava.
Con sei occhi piangea, e per tre menti
gocciava ‘l pianto e sanguinosa bava.
 

        Satana, con le sue dimensioni colossali, è la rappresentazione visiva della perversione, sempre smisurata ed eccessiva per il suo stesso carattere. I molteplici nomi con cui viene designato ci descrivono la storia del suo tradimento e del modo in cui si trasformò la sua natura: “Lucifero, dal latino lucem fero, ossia portatore di luce, (evoca il passato splendore di quando ancora godeva del favore divino); Satana, dall’ebraico Satàn, che significa l’avversario, il nemico di Dio; Belzebù, dall’ebraico Baalzebub, il falso Dio adorato dai Filistei” (cit.) (e tuttora “adorato” dai perversi come lui: anche la natura della “adorazione” viene stravolta).
        Lucifero rappresenta l’antitesi di ciò che è divino: le sue tre facce rappresentano l’equivalente e l’opposto della Trinità; i tre colori di ciascuna di esse sono lo stravolgimento del triplice colore che il Poeta attribuisce alla Trinità stessa (Paradiso, XXXIII, 116, 117).    Qualcosa del Creatore persiste, ma ha perso il suo carattere originario e si è trasformato in un che di demoniaco.
        Come Satana, anche il perverso ha ricevuto, da chi l’ha messo al mondo, il dono delle facoltà umane ma, pur conservandole, ne ha stravolto la natura e le finalità: il pensiero, il linguaggio, gli affetti, la sessualità sono volti a scopi puramente distruttivi e non più propriamente umani. Anche il pianto ha perso in Satana (come nel perverso) la sua funzione d’esprimere e comunicare sentimenti spiacevoli: esso non coinvolge il suo essere e “non lo turba nella sua inerte abitudine di ventilatore meccanico” (Rossi, citato da Del Lungo). Lucifero è “il puro terrestre, inintelligente e bestiale, rappresenta tutto l’inferno, è il male nella sua ultima degradazione” (Cit.); è “la sintesi morale e pittorica della perversione morale e fisica del regno del male” (Momigliano, citato da Del Lungo).
        Nulla, più dei versi danteschi (e delle acute osservazioni dei commentatori sopra citati) potrebbe renderci l’idea del mondo interno del perverso; un mondo difficilmente accessibile al clinico poiché si tratta di un individuo che non cade in crisi, se non al momento del crollo finale, e non chiede aiuto. La perversione rappresenta l’unico modo con cui egli può esistere: alla fine soccombe, ma finché vive non si lascia conoscere e non cambia.

 

       Con ciascuna delle tre bocche, Lucifero dilania un peccatore, come una macchina che trita i fusti legnosi (“maciulla”). Quello che pende dalla bocca centrale e anteriore (“quel dinanzi”) viene non solo maciullato, ma anche ferocemente graffiato, cosicché la sua schiena rimane scorticata (“brulla”). Virgilio dice a Dante che si tratta di Giuda Iscariota, il traditore di Gesù. Essendo più colpevole degli altri due, la sua pena è più severa: Satana infierisce anche sulla sua pelle; la sua testa è dentro la bocca del demonio, fuori agita le gambe. Gli altri due, gli assassini di Cesare, hanno il capo che pende (“di sotto”) dalla bocca. Dal volto scuro di Satana emerge Bruto; egli si contorce per il dolore, ma soffre in silenzio (“non fa motto”). L’altro, dal possente rilievo fisico (“sì membruto”), è Cassio.

 
pag. 496 – 498, vv. 55 – 67
Da ogni bocca dirompea co’ denti
un peccatore, a guisa di maciulla,
sì che tre ne facea così dolenti.
 
A quel dinanzi il mordere era nulla
verso ‘l graffiar, che tal volta la schiena
rimanea della pelle tutta brulla.
 
“Quell’anima là su c’ha maggior pena”
disse ‘l maestro “è Giuda Scariotto,
che ‘l capo ha dentro e fuor le gambe mena.
 
Delli altri due c’hanno il capo di sotto,
quel che pende dal nero ceffo è Bruto
– vedi come si storce! E non fa motto! –
 
e l’altro è Cassio che par sì membruto.
 

        È la perversione che punisce sé stessa: Satana è l’essere che rappresenta tale stravolgimento dell’animo umano al massimo grado; è come la personificazione dell’essenza stessa della perversione. I peccatori hanno conservato qualche traccia di qualcosa che non è stato stravolto: i sentimenti di Giuda verso il Salvatore sono ambivalenti; se in lui prevale l’odio al momento del tradimento, la consapevolezza della sua colpa lo porta al suicidio. Bruto e Cassio possono convincersi d’aver assassinato Cesare per l’amore della patria e della libertà, però dal fondo del loro animo emerge, alla fine, l’elemento perverso: quel che pensavano fosse un tirannicidio si rivela, in realtà, come parricidio. Satana è, per loro, come uno specchio che li pone di fronte alla loro stessa natura perversa: un aspetto dell’animo umano che, essenzialmente distruttivo, non può che essere anche autodistruttivo.
        La maggiore colpevolezza è di Giuda: ha tradito chi portò sulla terra un messaggio d’amore; chi, liberando gli esseri umani dal peso del peccato originale, ha consentito loro di trovare nell’amore un modo per vivere pienamente la propria vita. Bruto e Cassio tradirono l’autorità che riportò ordine fra gli uomini; tuttavia la loro colpa è attenuata dal loro reale affetto per la loro patria; nel soffrire in silenzio dell’austero stoico Bruto possiamo anche ravvisare una certa virile dignità eroica. Giuda, al contrario, ha rinnegato, e senza attenuanti, qualcosa di molto più fondamentale: l’amore, la prima fonte della vita e dell’evoluzione di cui è capace l’essere umano. Il sentimento di chi ci donò la nostra esistenza corporea e che protesse l’integrità del nostro corpo, ora rinnegato, cede il posto ad una forza che disintegra le membra.
        Per chi ha familiarità con la psicologia del profondo è facile vedere, alla radice dei comportamenti perversi dei traditori, sentimenti e desideri parricidi e matricidi. Al solito, tuttavia, l’espressione poetica ci trasmette qualcosa che è più facilmente comprensibile ed accettabile perché vicino alla coscienza e capace di suscitare un sentimento di armonia interiore.
        Lo fa persino nella rappresentazione di Satana, la personificazione dell’essenza della perversione, che ci mostra il risultato finale del prevalere di tale forza distruttiva e autodistruttiva: un essere mostruoso ridotto a una gran massa priva di connotazioni umane; una massa enorme, smisurata, “pressoché inerte, irrigidita nell’automatica ripetizione delle due eterne punizioni: macinare tre traditori e mantenere ghiacciato il Cocito” (Del Lungo). Il comportamento perverso tende a divenire automatico, non più ponderato, come fosse l’atto del respirare. Non c’è più la capacità d’operare una vera e propria scelta, non c’è più un autentico libero arbitrio.

 

       Dopo aver pronunciato le ultime parole sui più grandi peccatori, Virgilio annuncia che si sta facendo notte un’altra volta (“la notte risurge”) e che, non essendoci più altro da vedere, è tempo di partire. Dante si avvinghia al collo del suo maestro e questi, colto il momento e il luogo più opportuni in rapporto al muoversi delle ali, quando esse sono più aperte, si aggrappa ai fianchi pelosi (le “vellute coste”) di Satana e prende a discendere passando da un ciuffo all’altro (“di vello in vello”) fra il folto pelame e le incrostature di ghiaccio (“le gelate croste”).

 
pag. 498, vv. 68 – 75
Ma la notte risurge, e oramai
è da partir, ché tutto avem veduto.”
 
Com’a lui piacque, il collo li avvinghiai;
ed el prese di tempo e luogo poste;
e quando l’ali fuoro aperte assai,
 
appigliò sé alle vellute coste:
di vello in vello giù discese poscia
tra ‘l folto pelo e le gelate croste.
 

        Giunti al punto in cui la coscia s’attacca al fianco (“sul grosso dell’anche”), Virgilio, con fatica e con angoscia, si capovolge dirigendo la testa dove il demonio ha le gambe (“zanche”) e prende a salire. Dante crede di ritornare nell’inferno. Tuttavia Virgilio, dopo aver raccomandato al discepolo di tenersi ben stretto al suo collo (“attienti ben”), abbandonando il pelame di Lucifero (“uscì fuor”), passa per un’apertura (“foro”) della roccia (“d’un sasso”), depone Dante sull’orlo della fessura e gli si pone accanto con movimenti accorti.

 
pag. 498 – 499, vv. 76 – 87
Quando noi fummo là dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso dell’anche,
lo duca, con fatica e con angoscia,
 
volse la testa ov’elli avea le zanche,
e aggrappossi al pel com’uom che sale,
sì che ‘n inferno i’ credea tornar anche.
 
“Attienti ben, ché per cotali scale”
disse ‘l maestro, ansando com’uom lasso,
“conviensi dipartir da tanto male”
 
Poi uscì fuor per lo foro d’un sasso,
e puose me in su l’orlo a sedere;
appresso porse a me l’accorto passo.  
 

        Il Poeta si volge verso Lucifero, ma ora lo vede capovolto, con le gambe in su. In quel momento Dante si sente confuso (“travagliato”) come la gente ignorante (“grossa”) che non conosce la natura del punto [il centro della terra] che i Poeti avevano oltrepassato. Virgilio, ignorando per il momento le perplessità del discepolo ed attento a ciò che è più urgente, esorta Dante ad alzarsi e a camminare, dato che la strada da percorrere è lunga, aspra e disagevole (“malvagia”). Il percorso non è paragonabile a quello dei corridoi dei palazzi signorili (“di palagio”), ma una sorta di stanza sotterranea naturale (“natural burella”) oscura e dal pavimento accidentato. Inoltre il sole [nell’emisfero australe] è già sorto da un’ora e mezza (“a mezza terza riede”).

 
pag. 499, vv. 88 – 99
Io levai li occhi, e credetti vedere
Lucifero com’io l’avea lasciato;
e vidili le gambe in su tenere;
 
e s’io divenni allora travagliato,
la gente grossa il pensi, che non vede
qual è quel punto ch’io avea passato.
 
“Levati su” disse ‘l maestro “in piede:
la via è lunga e ‘l cammino è malvagio,
e già il sole a mezza terza riede.”
 
Non era camminata di palagio
là ‘v’eravam, ma natural burella
ch’avea mal suolo e di lume disagio.
       

        Il Poeta, tuttavia, desidera che il maestro lo tragga dall’errore (“erro”); lo prega di rispondere a tre domande, prima di distaccarsi (“mi divella”) dall’abisso: vuole sapere dove sia la “ghiaccia” del Cocito, che ora non vede più; come mai ora Lucifero gli appaia capovolto (“fitto di sottosopra”); e come mai in così poco tempo si sia passati dalla sera alla mattina (“in sì poc’ora / da sera a mane ha fatto il sol tragitto”). Virgilio gli risponde che si sbaglia perché immagina di trovarsi ancora al di là del centro della terra, nel luogo dove egli si appigliò (“mi presi”) al pelo dell’essere infame e immondo (“vermo reo”) che attraversa (“fora”) il mondo da emisfero ad emisfero. Le sue impressioni corrispondevano al vero finché (“cotanto”) si stava scendendo; quando Virgilio si è capovolto, i Poeti hanno oltrepassato il centro gravitazionale della terra (“’l punto / al qual si traggon d’ogni parte i pesi”)

 
pag. 499 – 500, vv. 100 – 111
“Prima ch’io dell’abisso mi divella,
maestro mio,” diss’io quando fui dritto,
“a trarmi d’erro un poco mi favella:
 
ov’è la ghiaccia? e questi com’è
fitto sì sottosopra? e come, in sì poc’ora,
da sera a mane ha fatto il sol tragitto?”
 
Ed elli a me: “Tu immagini ancora
d’esser di là dal centro, ov’io mi presi
al pel del vermo reo che ‘l mondo fora.
 
Di là fosti cotanto quant’io scesi;
quand’io mi volsi, tu passasti ‘l punto
al qual si traggon d’ogni parte i pesi.
 

        Dante qui finge d’ignorare concetti, riguardanti la natura oggettiva delle cose, che in realtà conosce (o crede di conoscere) benissimo. Sa bene che, al di là del centro gravitazionale della terra, quel che nell’emisfero boreale appare basso in quelli australe diviene alto. Seguendo le convinzioni della sua epoca, crede anche che nell’emisfero australe sia giorno quando in quello boreale è notte. In realtà questa pseudo-ignoranza esprime metaforicamente tutto lo sconcerto e la perplessità di chi è giunto ad un punto in cui la prospettiva in cui vede le cose cambia radicalmente, si capovolge. È il punto in cui, in un’evoluzione spontanea o in un processo terapeutico, il soggetto ha toccato il “fondo dell’inferno”, ossia ha preso coscienza di quanto di più sinistro e malvagio esiste nell’animo umano e nel suo animo. È completamente levato il velo dell’ipocrisia, che nega le colpe e le responsabilità personali; sono superate le distorsioni percettive della malvagità e della perversione: il mondo, ora, appare completamente diverso. Tuttavia, il cammino ancora da percorrere, quello dei processi riparativi e auto-riparativi, è ancora lungo e disagevole. I sentimenti di colpa e di perdita sono duri da superare; la strada è buia: non è sicura la direzione da prendere verso “il cielo”, ossia verso il recupero o l’acquisizione di quanto di più elevato e propriamente umano esiste in noi. Tuttavia che esista una direzione di quel genere è ora divenuto una certezza.

 

        Virgilio risponde alle domande del discepolo riguardo all’allontanamento dalla “ghiaccia” e riguardo alla comparsa del mattino in così breve tempo, passando all’emisfero australe. Riguardo all’apparente capovolgimento di Lucifero, aggrappandosi al cui pelo i due Poeti poterono allontanarsi dall’inferno e risalire (“questi, che ne fe’ scala col pelo”), fa presente a Dante che, in realtà, è rimasto confitto nella terra (“fitto) così come l’avevano visto in un primo momento. Precisa, poi, che quando Satana precipitò dal cielo dalla parte dell’emisfero australe, la terra che occupava questa regione, per paura di lui si ritrasse verso l’emisfero boreale e si nascose sotto le acque (“fe del mar velo / e venne all’emisperio nostro”). E forse, per lo stesso moto di ripugnanza, quella terra che appare nell’emisfero dove ora si trovano (“di qua”) lasciò questo vuoto [l’inferno] e si spinse in su (“ricorse”) [formando, così, la montagna del purgatorio]

 
pag. 500 – 501, vv. 119 – 126
e questi, che ne fe’ scala col pelo,
fitto è ancora sì come prim’era.
 
Da questa parte cadde giù dal cielo;
e la terra, che pria di qua si sporse,
per paura di lui fe’ del mar velo,
 
e venne all’emisperio nostro; e forse
per fuggir lui lasciò qui luogo voto
quella ch’appar di qua, e su ricorse”
 

        Lucifero, per sua scelta, si sottrasse alla dimensione ideale dell’esistenza, ossia ad ogni forma di valore spirituale e di bellezza: avendo pervertito e sostanzialmente distrutto quel che ci eleva al di sopra del mondo animale, “cadde giù dal cielo”. Nel suo crollo, non poté trovare un rifugio ed una forma primitiva di conforto neppure in seno alla Madre terra: questa, anziché accoglierlo, si ritrasse da lui lasciandolo nel vuoto dell’inferno.

 

        Virgilio e Dante riprendono il cammino verso la superficie dell’emisfero australe. Passano attraverso un luogo, lontano da Belzebù tanto quanto s’estende la caverna (“tomba”), percorrendo un sentiero che si fa conoscere (“è noto”) non perché visibile, ma perché lungh’esso scorre, facendosi sentire (“per suono”), un ruscelletto a piccola pendenza (“poco pende”). Questo si è aperto una via tortuosa attraversando uno scoglio (“un sasso ch’elli ha roso”); attraverso di essa i Poeti procedono faticosamente, ma senza curarsi della stanchezza. Ritornano, quindi, nel mondo illuminato dal sole (“nel chiaro mondo”), e Dante può ora ritrovare, comparsa attraverso un pertugio, la bellezza delle costellazioni celesti (“le cose belle / che porta ‘l ciel”). Infine escono all’aperto “a riveder le stelle”

 
pag. 501, vv. 127 – 139
Luogo è là giù da Belzebù remoto
tanto quanto la tomba si distende,
che non per vista, ma per suono è noto
 
d’un ruscelletto che quivi discende
per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso,
col corso ch’elli avvolge, e poco pende.
 
Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritorna nel chiaro mondo;
e sanza cura aver d’ogni riposo
 
salimmo su, el primo e io secondo,
tanto ch’i’ vidi delle cose belle
che porta ‘l ciel, per un pertugio tondo;
 
e quindi uscimmo a riveder le stelle.
 

        Il percorso attraverso cui i Poeti s’allontanano faticosamente dall’inferno porta ad una sorta di resurrezione (emergono da una “tomba”) o di rinascita: escono all’aperto ed alla luce dopo un lungo e difficile travaglio. Solo dopo aver conosciuto (e posto sotto il suo controllo) tutte le brutture del mondo, Dante può finalmente riscoprire la Bellezza: la vede nello scorcio di cielo che gli compare dal pertugio da cui sta uscendo; può finalmente disporre di una chiara visione del mondo. Uscito all’aperto può “riveder le stelle” ossia intravvede, attraverso di esse, la meta suprema del suo viaggio. Non a caso, la parola “stelle” è quella con cui terminano le tre Cantiche.
        Qui le mete del viaggio del Poeta e quelle di un percorso terapeutico coincidono in modo evidente: acquisire una visione “chiara” (realistica e non distorta) del mondo, ritrovare il sentimento della Bellezza, riscoprire le mete ideali del proprio progetto di vita.

 

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