Dal “perché” al “come”: verso una psicoanalisi affermativa della varianza di genere

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17 settembre, 2024 - 03:34
Riassunto. In questo articolo, l’autore suggerisce che spostarsi da modelli teorici basati sul “perché” delle identità Transgender e di Genere Non Conforme (TGNC) a modelli incentrati sul “come”, possa aiutare la psicoanalisi a diventare “affermativa”, ossia rispettosa e inclusiva delle diverse identità di genere, evitando posizioni stigmatizzanti e patologizzanti. Porre enfasi sul “come” implica l’analisi del percorso attraverso cui le persone TGNC affrontano le sfide e le aspettative sociali legate al loro genere, piuttosto che cercare una causa da diagnosticare e trattare. A tal fine, vengono presentate teorie psicoanalitiche contemporanee che esplorano come le diverse linee evolutive si intreccino per formare l’identità di genere e l’immagine corporea delle persone TGNC, come l’ambiente possa facilitare o ostacolare lo sviluppo di un autentico Se’ di genere e come le esperienze di vita influenzino la salute mentale di queste persone. [Parole chiave: genere; transgender; genere non conforme; psicoanalisi; approcci affermativi]

 

Abstract. In this article, the author suggests that moving from theoretical models based on the “why” of Transgender and Gender Nonconforming (TGNC) identities to models focused on the “how” can help psychoanalysis become “affirmative” (i.e., respectful and inclusive) of different gender identities, avoiding stigmatizing and pathologizing positions. Emphasis on the "how" involves analyzing how TGNC people address the societal challenges and expectations associated with their gender, rather than looking for a cause to diagnose and treat. To this end, contemporary psychoanalytic theories are presented that explore how different developmental lines intertwine to form the gender identity and body image of TGNC people, how the environment can facilitate or hinder the development of an authentic gender-self and how life experiences affect these people’s mental health. [Keywords: gender; transgender; gender non-conforming; psychoanalysis; affirmative approaches]

 

 

Introduzione

Negli ultimi anni, abbiamo assistito ad un aumento significativo delle richieste di supporto psicologico per questioni riguardanti l’identità di genere. Queste richieste includono valutazioni per avviare processi di conferma e affermazione del genere attraverso terapie ormonali e interventi chirurgici (Turner, 2017). Tale situazione ha suscitato maggiore interesse nel mondo accademico, nel settore sanitario e nella cultura popolare verso le popolazioni Transgender e di Genere Non Conforme (TGNC). Questi termini, in costante evoluzione, descrivono una vasta gamma di identità che superano una visione binaria e tradizionale del genere basata sulla dicotomia uomo/donna o maschile/femminile. Le persone che si identificano con questi termini possiedono una molteplicità di identità di genere e/o ruoli di genere che non corrispondano a ciò che è tipicamente associato al sesso assegnato loro alla nascita (APA, 2021).

Non è semplice individuare le ragioni precise dell’aumento di queste cifre, ma è innegabile che via sia una correlazione tra tale fenomeno e la maggiore diffusione di informazioni sull’argomento nei media e social network. Più specificamente, sembra che la crescente visibilità ed esposizione a identità non conformi al binarismo di genere possano aiutare gli adolescenti nella ricerca della propria identità, permettendo loro di dare un nome a ciò che un tempo era confuso e incerto e accelerando così la comprensione di sé ed il processo di coming-out (Lemma, 2021).

Anche le eziologie di questa varianza di genere rimangono ancora poco chiare. Attualmente, i dati suggeriscono che queste identificazioni siano il risultato di una combinazione di fattori biologici e psicosociali (Turban & Ehrensaft, 2018).

Sebbene le cause di questo cambiamento e le eziologie alla base di queste varianze di genere non siano ancora completamente comprese, è chiaro che questo fenomeno ha intensificato il dibattito sulle questioni di genere, rendendolo un tema centrale, acceso e controverso. Attualmente, diverse prospettive dominano le riflessioni sulla sessualità e l’identità di genere in ambito accademico, clinico, politico e sociale. Queste prospettive sono spesso contrastanti tra loro e portano a modi di pensiero rigidi e binari come biologico versus sociale e patologico versus normale (Lemma, 2021).

A partire da tali considerazioni, questo articolo mira a superare queste visioni riduzioniste e dicotomiche sulla varianza di genere. L’approccio proposto sposta l’attenzione da modelli teorici basati sul “perché” delle identità di genere TGNC a modelli incentrati sul “come”. Si suggerisce che focalizzarsi sul “come” anziché sul “perché”, aiuti la psicoanalisi a diventare “affermativa”, ossia più rispettosa e inclusiva delle diverse identità di genere, evitando posizioni stigmatizzanti e patologizzanti. Infatti, considerando che le identità TGNC non seguono una singola linea evolutiva, molti psicoanalisti moderni preferiscono esaminare “come” queste persone abbiano attraversato/affrontato vari possibili percorsi di sviluppo, inclusi i diversi ostacoli, e quali soluzioni abbiano adottato per negoziare tra la loro esperienza interiore di genere e le aspettative dell’ambiente circostante, anziché cercare una causa (eziologia) che implichi una patologia da diagnosticare e trattare (Hansbury, 2011).

Lo spostamento del focus nel processo analitico dal “perché” al “come” dell’identità di genere non è nuovo in psicoanalisi. Corbett (1997) riformulò la domanda relativa alla questione omosessualità in psicoanalisi come una domanda sul come, non sul perché alla fine degli anni 1990: “[Quando] si tratta dell’origine dell’identità sessuale, sono disposto a vivere senza sapere. In effetti, credo nel non sapere… [Non mi interessa] la domanda eziologica mal concepita del “perché” [qualcuno è omosessuale], mi interessa “come” qualcuno è omosessuale” (p. 499). In maniera simile, l’analista transgender Griffin Hansbury (2005) è giunto allo stesso punto sulle identità TGNC quasi un decennio dopo: “L’eziologia del trans è una domanda che ho smesso di pormi, per me stesso e per la mia pratica. Siamo qui, e adesso? Dopo 24 anni vissuti a disagio nel mio corpo femminile, la risposta è stata la transizione” (p. 251; cfr. anche Hansbury, 2017).

Interrogarsi sul “perché” dell’identità di genere comporta allinearsi con modelli teorici tradizionali che si basano sul concetto di “malattia”. Questi modelli sostengono che le persone TGNC hanno sviluppato un’identità di genere che è considerata “anormale” a causa di una qualche compromissione nel loro sviluppo (abusi sessuali o difetti genetici) che causa loro un disagio che può essere alleviato solo attraverso un ritorno alla congruenza tra sesso biologico, identità di genere e ruolo di genere, tramite interventi ormonali o chirurgici, se necessario. Interrogarsi sul “come” significa, invece, allinearsi con modelli basati sull’identità che sostengono che la varianza di genere è semplicemente una forma di diversità umana e che il disagio che alcune persone TGNC possono provare non è causato dalla loro identità di genere, ma piuttosto dallo stigma sociale che spesso li circonda (Bockting, 2019; Valente et al., 2022).

In sintesi, i modelli basati sul “come” esaminano il modo in cui le diverse linee evolutive si intrecciano per formare il senso di Sé e dell’immagine corporea in individui TGNC, come l’ambiente possa favorire o sfavorire lo sviluppo di un autentico Sé di genere e come le esperienze di vita a cui le persone TGNC sono esposte influenzano la loro salute mentale in maniera positiva o negativa. Per esempio, queste teorie si concentrano su come fattori come pregiudizio, discriminazione, stigma, esperienze di bullismo e mancato rispecchiamento influenzino negativamente la formazione di un’identità TGNC integrata, congruente e coerente.

 

Teorie contemporanee sul genere

Le teorie contemporanee sul genere si sono liberate dall’ancoraggio all’anatomia e biologia. Sebbene sia innegabile che il genere sia basato sulla biologia e che venga costruito a partire da essa, allo stesso tempo esso si estende ben oltre tale dimensione. Pur essendo vero che il genere sia stato sempre concepito come caratterizzato da un ciclo evolutivo, in definitiva gli è sempre stato attribuito un esito finale biologicamente predeterminato, che non ha nulla a che fare con la vita psichica (Ehrensaft, 2021). Ciò ricorda il pensiero di Jacques Lacan quando pose la domanda: “Il genere è realmente non conflittuale (...) al punto da essere presupposto acriticamente fin dall’inizio?” (cit. in: Laplanche, 2003, p. 169 trad. inglese del 2011). Disancorare il genere dal sesso biologico non solo contesta l’equivalenza sesso = genere, ma solleva anche domande significative sul primato che abbiamo accordato alla biologia nella vita psichica (Saketopoulou, 2020).

L’espansione della conversazione sulle identità di genere sta portando sempre più al superamento della scissione tra il riduzionismo spesso presente nei dibattiti sulla questione e la complessità delle presentazioni e dei vissuti di genere che osserviamo nella realtà. Infatti, l’adozione di pensieri binari non sembra essere utile a esplorare le molte sfumature ed esperienze interiori di genere nelle persone TGNC. Questa varietà di esperienze dimostra che non esiste una “narrazione trans dominante”, ma piuttosto una serie di “narrative minori, plurime e complesse” (Halberstam, 2018, p. 43). Di conseguenza, la complessità delle esperienze di genere in persone TGNC e delle diverse linee di sviluppo sottostanti a tali identità richiede una vasta gamma di prospettive cliniche e teoriche che vanno oltre l’approccio di una singola disciplina specifica (Lemma, 2013).

Le teorie contemporanee relative al genere sono strettamente connesse alla nascita di diverse teorie femministe e queer che, negli ultimi quarant’anni, hanno messo in discussione la concezione binaria di sesso/genere, contestando l’idea che il “genere” imponga la sua volontà culturale su un “corpo sessuato” preesistente e universalizzato (Rubin, 1975). Gayle Rubin, un’autorevole studiosa queer, ha affermato fin dal 1975 che la feticizzazione dei genitali è alla base della pratica dell’“assegnazione del sesso”, l’atto fondamentale di categorizzazione attraverso cui veniamo chiamati “bambino” o “bambina”, “ragazzo” o “ragazza”, “uomo” o “donna”. Questa pratica è vista come una forma di regolazione sociale che divide i sessi in due categorie escludenti, “maschile e femminile, li crea e li crea eterosessuali” (p. 178). In questo modo, uomini e donne sono definiti in termini di una matrice oppositiva di complementarità invece di essere considerati i due estremi di un continuum di genere.

Infatti, nella cultura occidentale il concetto di genere è stato incastonato nella nostra psiche come fondamento – dobbiamo sapere: bambino o bambina. Nelle parole di Susan McKenzie (2010), analista junghiana e accademica, “è un maschio o una femmina? Questo è la domanda primaria posta al momento della nascita di un bambino. Insieme alla dichiarazione del sesso di un bambino arriva un manuale operativo prestampato che descrive un modello di come il bambino deve performare il genere all’esterno nonché un modello contenente ipotesi sul suo funzionamento interno” (p. 92). In altre parole, i modi in cui i comportamenti di genere vengono trascritti sui corpi e il Sé dell’individuo sono intimamente connessi a modelli culturali più ampi di comportamenti di genere considerati normativi. Secondo Sullivan (1956), “il bambino deve essere educato a un ordine sociale molto complesso, molto prima che la ragione e il buon senso dell’intera faccenda possano essere digeriti, molto prima che diventi comprensibile, se mai lo sarà” (p. 4).

Questo sistema di regolazione del genere binario porta a una “situazione patogena universale” che induce nei suoi soggetti un “falso Sé” che cerca di conformarsi alle aspettative di genere imposte dalla società. La forzata conformità di genere imposta sugli individui può generare sintomi spesso non riconosciuti come tali. Questi sintomi includono da un lato il narcisismo onnipotente dell’economia fallica, l’aggressività difensiva e l’ipersessualizzazione, tipiche di un modello normativo di mascolinità; dall’altro lato, si riscontrano il trauma narcisistico legato al considerare la femminilità come un sesso di second’ordine, la fragile pseudo-autonomia, la relazionalità depressiva e l’inibizione dell’agire e del desiderio, tipiche di un modello normativo di femminilità (Goldner, 1991).

L’effetto della cultura sulla concezione di genere richiama l’uso del termine gaze come descritto da Foucault (1988). Secondo Foucault, il concetto di gaze (sguardo) rappresenta una metafora visiva che indica come l’atto di “vedere” implica l’applicazione di linguaggio, concetti e categorie mentali preesistenti dell’osservatore al soggetto osservato. È così che le scienze umane creano i soggetti che sono oggetto della loro analisi, separandoli, valutandoli e classificandoli in gerarchie di normalità e moralità difficili da eliminare. Ad esempio, quando un ragazzo si sente attratto da elementi considerati "femminili" o una ragazza si identifica con tratti culturalmente associati alla mascolinità come modo per esprimere sé stessi, spesso tendiamo a valutare queste azioni come un mancato adattamento alle aspettative di genere, invece di riconoscere che queste persone stanno semplicemente esplorando diverse possibilità di manifestare le loro identità di genere.

L’influenza della cultura di appartenenza sul modo di pensare al genere è al centro di molte teorie contemporanee. Un primo esempio di questa prospettiva è il lavoro di Judith Butler (1990) che descrive il genere come un costrutto sociale e l’espressione di genere come un concetto performativo che muta a seconda della cultura e società di appartenenza. Secondo l’autrice, il sistema binario di genere è così intriso di un potere normativo che “coloro i cui generi non sono conformi alle norme di intelligibilità culturale appaiono solo come fallimenti dello sviluppo e impossibilità logiche” (p. 24 ediz. orig.). Butler ha definito il genere come “una copia senza originale” (cit. in: Goldner, 2011, p. 168). Quando la copia è ben riuscita, approviamo e pensiamo che è sempre stata lì dentro. Ma quando la copia non è ben riuscita, il fallimento della nuova immagine ottenuta ci spaventa e il soggetto che la contiene ed esprime è tenuto a debita distanza, persino ribattezzato come mostro (Butler, 2004). Un secondo esempio è il lavoro di Susan McKenzie (2006), che prende in prestito il concetto di inconscio collettivo di Jung e suggerisce che le norme eterosessiste sono “artefatti collettivi” prodotti a livello culturale, trasmessi a ogni generazione attraverso la memoria collettiva e soggetti a cambiamenti storici e ideologici. In quanto artefatto collettivo, il genere non ha essenza, ma è piuttosto definito dalla differenza: lo spazio tra maschile, femminile, e altro ed è “concepito culturalmente, negoziato interpersonalmente e sperimentato intrapsichicamente” (Dimen, 2002, pp. 49-50).

Questi cambiamenti radicali hanno favorito lo sviluppo di nuove forme di trattamento per le popolazioni TGNC, basate su un approccio definito “affermativo-validante-assertivo” verso la loro esperienza di genere. Tale approccio si fonda sui seguenti principi (Ehrensaft, 2018): 1) le variazioni di genere non sono disturbi; 2) esistono molteplici percorsi evolutivi di genere; 3) ogni percorso di genere è positivo; 4) nessun percorso è privilegiato rispetto a un altro; 5) le presentazioni di genere variano a seconda della cultura di appartenenza; 6) il genere è un’interazione di biologia, sviluppo, socializzazione, cultura e contesto sociale; 7) il sesso è un costrutto fluido e non binario; 8) i problemi psicologici concomitanti, se presenti, non sono correlati a patologie interne all’individuo, ma alle reazioni della società (discriminazione, pregiudizio, marginalizzazione, rigetto) verso espressioni non conformi di genere (Meyer, 1995, 2003). L’obiettivo del trattamento non è “riparare il genere”, ma creare uno spazio sicuro per esplorare ed esprimere sé stessi, costruendo resilienza per affrontare un mondo per loro non sempre accogliente (Ehrensaft, 2017).

 

Teorie psicoanalitiche affermative della varianza di genere basate sul “come”

Recentemente, parte del mondo psicoanalitico sta riconsiderando il proprio approccio verso le persone TGNC. Tale mutamento ha comportato la revisione e l’aggiornamento di alcune teorie psicoanalitiche preesistenti riguardanti sesso, genere e sessualità, con l’obiettivo di fornire un sostegno più costruttivo e rispettoso a tali individui. Non tutto il mondo della psicoanalisi si allinea a questo cambiamento di rotta. Infatti, si possono ancora trovare teorie patologizzanti in tutta la letteratura e la pratica psicoanalitica che dipingono le persone TGNC come narcisiste, immature, impulsive, ossessive, introverse, schizoidi e borderline (McBee, 2013). Ciò non sorprende se si tiene conto del fatto che per molti anni la psicoanalisi ha patologizzato le minoranze sessuali e sviluppato modelli teorici e clinici per “riparare il genere” di questi pazienti e “convertirli” in una “normale eterosessualità” considerata l’unico esito di sviluppo psicosessuale possibile. Qualsiasi deviazione da questa norma, ossia il raggiungimento di una “normale eterosessualità”, viene considerata un’anomalia e trattata con terapie riparative o di conversione, che cercano di cambiare i comportamenti, le idee e le identificazioni di genere di queste persone per evitare un’eventuale omosessualità o transgenderismo (Crapanzano, 2020; Ehrensaft, 2021).

Al contrario, molte delle teorie psicoanalitiche contemporanee condividono l’idea che le variazioni di genere non sono disturbi, che il genere sia costantemente costruito e che l’esperienza e l’espressione di genere siano fortemente influenzate dalla cultura e dalla società di appartenenza. Queste teorie, come ad esempio la Queer Theory, superano le visioni riduzionistiche e semplicistiche del genere basate solo sulla biologia, che presuppongono una “normale teleologia” nello sviluppo sessuale e di genere e non considerano gli influssi di fattori esterni, come la storia (Suchet, 2011; Goldner, 2011). Inoltre, queste teorie mettono in discussione l’aspettativa irrealistica che tutte le persone in una società civilizzata debbano aderire a modelli eteronormativi centrati sull’ideale eterosessuale. Secondo queste teorie, ogni sviluppo sessuale, tipico o atipico, viene considerato come rappresentante al tempo stesso una formazione di compromesso, un sintomo, una difesa, un intreccio di diverse linee evolutive, di compromessi narcisistici, di relazioni oggettuali e di fantasie inconsce (Chodorow, 1992; Saketopoulou, 2015). Il lavoro degli analisti diventa, quindi, seguire il percorso di genere dei loro pazienti TGNC, aiutandoli a riflettere sul “come” abbiano attraversato questo percorso, ovvero sulle soluzioni che hanno adottato in prima persona per diventare un soggetto (Goldner, 2003).

Le teorie contemporanee superano una visione patologica delle identità di genere in quanto, invece di considerare queste identificazioni come sintomi, sono viste come atti creativi o sinthomé. Secondo la tradizione lacaniana, durante il processo terapeutico i pazienti dovrebbero identificarsi con i loro sintomi per poterli sfruttare a loro favore invece di rifiutarli (Lemma, 2022). Quindi, il sintomo diventa una soluzione creativa che aiuta il soggetto a mantenere la propria identità e a esistere in modo nuovo. Allo stesso tempo, questa soluzione creativa rappresenta il modo (il “come”) la persona rende le variazioni di genere che prima erano solo interiori rappresentabili anche all’esterno. Secondo questi autori, le modificazioni corporee che alcune persone transgender decidono di affrontare non sono comportamenti distruttivi, ma rappresentano una parte essenziale del lavoro psicologico necessario per negoziare fra il proprio mondo interno, il proprio corpo e il mondo esterno integrando così principi psicoanalitici, sociologici e biologici (Gherovici, 2017). La prospettiva di Freud sul sintomo, considerato non come un’anomalia ma come una formazione di compromesso e un significante, ovvero un messaggio che esprime un significato anche se sconosciuto ed inconscio, si allinea anch’essa con un approccio non patologizzante e stigmatizzante verso le diversità di genere (Freud, 1923). Il sintomo, che per alcune persone TGNC può manifestarsi come angoscia (disforia), comunica qualcosa al soggetto, rappresentando una funzione comunicativa che parla di un’identità autentica rimossa, in quanto conflittuale e generatrice di angoscia, e in attesa di trovare un linguaggio, una lettura che la decifrino, affinché possa esprimersi pienamente. In quanto tale, il sintomo può quindi diventare una via di accesso all’inconscio e l’inizio di un percorso di analisi della propria variazione di genere.

Le prospettive psicoanalitiche affermative possono contribuire a una migliore comprensione del contesto e del significato delle variazioni di genere. Questo avviene, per esempio, attraverso l’analisi del modo in cui i pazienti esplorano l’impatto della propria transizione sul concetto di Sé e sulle dinamiche relazionali. Infatti, all’interno di questo quadro psicoanalitico contemporaneo, lo sviluppo dell’identità di genere è considerato un’esperienza profondamente relazionale che plasma i modelli interni di rappresentazione di sé e degli altri (Lev, 2004).

Di seguito, vengono descritte una serie di teorie psicoanalitiche affermative del genere che possono fungere da guida per la comprensione del “come” le diverse identità delle persone TGNC si sviluppino e del “come” queste persone arrivino a “inabitare” il loro corpo e incarnare le proprie menti (embodiment).

 

Sviluppo delle identità TGNC

La formazione dell’identità di genere può essere concepita come un processo in cui diversi fili si intrecciano nel corso dello sviluppo del bambino, dando vita a una rete di genere complessa. Questa rete comprende elementi sociali, culturali, psicologici, famigliari, politici, religiosi, storici e molteplici altri fattori. Questa rete non è statica, bensì evolve nel corso del tempo attraverso le continue interazioni dell’individuo con il mondo esterno. Queste interazioni esercitano un’influenza sull’identità e sulle espressioni di genere dell’individuo (Ehrensaft, 2011a, 2011b, 2014a, 2014b, 2017, 2018, 2021).

Questo approccio alla comprensione del genere si discosta dalle teorie psicoanalitiche tradizionali basate sul complesso di Edipo (cfr. Loewald, 1979; Wakefield, 2023). In primo luogo, questo nuovo modello evidenzia come il processo di identificazione di genere non possa essere semplicemente spiegato in termini di somiglianza o differenza rispetto al genitore del medesimo sesso o del sesso opposto. In altri termini, l'identità di genere non viene considerata come derivante dalle sole identificazioni materne e paterne. Questo presupposto semplicistico si basa sulla nomenclatura sociologica del senso comune, che non tiene conto della vasta gamma di espressioni di genere che possono provenire da entrambi i genitori. In aggiunta, l'indebolimento delle famiglie e l'influenza sempre maggiore della cultura di massa suggerisce che il genere di un bambino non rifletta necessariamente un'identificazione con la madre o il padre, ma piuttosto l'accesso autorizzato dai genitori alla femminilità e mascolinità. Come afferma Goldner (2011), "Negli anni dell'adolescenza, quando le famiglie sono messe da parte da celebrità e prodotti di consumo, il genere è in caduta libera" (p. 162).

In secondo luogo, la capacità del bambino di definire il genere esclusivamente in base ai genitali e come costante non è più considerata una tappa importante dello sviluppo cognitivo infantile. Mentre nel modello piagetiano tradizionale dello sviluppo improntato sulla biologia, questa costanza di genere è considerata un passo evolutivo fondamentale, le teorie contemporanee sul genere suggeriscono, invece, che potrebbe essere semplicemente un'altra espressione della normatività sociologica del genere. Infatti, la crescente presenza di bambini TGNC dimostra che alcuni di loro abbracciano il concetto di inclusività di genere ben oltre i tre anni. Non solo questi bambini considerano di poter essere sia di genere maschile che femminile (Fast, 1984, 1989), ma si identificano con ogni genere immaginabile (bambino, bambina o altre identità), ovvero pensano di poter essere di tutti i generi (Ehrensaft, 2014a, 2014b). Questi processi sfatano il mito secondo cui tutti i bambini abbandonerebbero questa posizione di inclusività di genere una volta diventati consapevoli dell'impossibilità di essere sia un bambino che una bambina, cristallizzando in modo permanente la loro identità di genere attraverso l'identificazione con il genitore dello stesso sesso (Ehrensaft, 2021). Se l'atto di cambiare genere viene interpretato come una reazione maniacale, un tentativo di sfuggire alla sofferenza legata alla persistenza e alla stabilità del genere, perché non valutare anche l'adesione a un genere come una risposta ossessiva, un modo di proteggere confini rigidamente definiti? Tutte queste norme regolatorie potrebbero creare l'illusione che, a differenza della sessualità, il genere sia sempre immutabile, che non cresca, non cambi e non si complichi mai (Goldner, 2011).    

In terzo luogo, la ricerca empirica sullo sviluppo del genere nei bambini ha messo in discussione la narrativa classica dell'acquisizione del genere. Laddove Freud ha radicato il genere nella scoperta della differenza sessuale (genitale), che riteneva avvenuta intorno ai 4 anni, ricercatori contemporanei hanno da allora stabilito che la consapevolezza, l'etichettatura e la simbolizzazione genitale iniziano molto prima, durante il secondo anno di vita (Dimen, 2005). 

La rete di genere può influire positivamente o negativamente sullo sviluppo del genere del bambino. Infatti, i fili che costituiscono queste reti sono molteplici e si intrecciano in vari modi dando origine a diversi scenari possibili. Nel miglior scenario possibile, il bambino avrà la possibilità di esprimere il proprio vero Sé di genere, ovvero il nucleo della sua identità ed espressione di genere. Tuttavia, in molti casi, il bambino potrebbe essere costretto a reprimere il proprio vero Sé di genere e mostrare soltanto un falso Sé di genere come difesa, una maschera che rappresenta ciò che l’ambiente esterno si aspetta da lui e che è il risultato dell’interiorizzazione di comportamenti di genere ritenuti “appropriati” o “adattivi” (socializzazione di genere) (Ehrensaft, 2009, 2011a, 2011b, 2014a, 2014b, 2016; McKenzie, 2010; Winnicott, 1971). A seconda del contesto di appartenenza, sarà più o meno facile per il bambino unire o negoziare in modo creativo (creatività di genere) fra fattori interni (corpo, cervello e mente) e fattori esterni (socializzazione, cultura, scuola, famiglia, etc.). Infatti, l’ambiente può rispecchiare o meno l’autentico senso di genere del bambino. Durante lo sviluppo, il bambino interiorizza esperienze di rispecchiamento (Borden, 2009; Winnicott, 1965, 1971) – o mancato rispecchiamento – man mano che sperimenta il proprio genere nel corpo in via di maturazione ed elabora queste esperienze “in una categoria conscia nella mente, in una posizione di genere” (McKenzie, 2006, p. 413). Winnicott sostiene che lo sviluppo del Sé è possibile grazie a un accurato rispecchiamento da parte degli altri (Winnicott, 1965) in particolare da parte dei caregivers e che la base evolutiva per sentirsi reali risieda nel vero Sé (Winnicott, 1971).

Quando le espressioni di genere delle persone TGNC non sono riflesse dagli attori sociali in nessuna fase dello sviluppo possiamo assistere a diverse conseguenze. Hansbury (2005) utilizza una prospettiva kleiniana per illustrare come alcuni individui TGNC descrivano una “spaccatura all’interno di sé tra il Sé corporeo vissuto come persecutore e il Sé mentale vissuto come buono” (p. 23). Sotto la pressione di un ambiente sociale che non rispecchia accuratamente il loro autentico Sé di genere, le persone TGNC possono respingere il loro sé vissuto come “non-me”, non “reale” o “ombra” a favore di un “buon-me” o di un “Sé idealizzato”. In tali casi, il vero Sé di genere dell’individuo non viene riconosciuto (Ehrensaft, 2009). Solitamente, questo rappresenta il caso in cui assistiamo alla comparsa di sintomi causati dal continuo soffocamento del vero Sé di genere. In casi estremi, questi sintomi portano a veri e propri tentativi di suicidio. Secondo Winnicott (1971), l’adattamento a un Sé falso o compiacente comporta la rinuncia a modi di essere sani e creativi, generando un senso di futilità e il sentimento che la vita non valga la pena di essere vissuta.

L’identità di genere non conforme, pertanto, può avere un effetto profondamente destabilizzante sul soggetto poiché le rappresentazioni interne del Sé sono in diretto conflitto con la sfera sociale (McKenzie, 2006). In questa ottica, Griffin Hansbury (2005) sostiene che i problemi psicologici che possono derivare dalla frammentazione dell’Io non dovrebbero essere visti come una patologia, ma come strategie difensive per l’autoconservazione. In questo contesto, diventa fondamentale il modo in cui l’oggetto primario prima, e l’ambiente poi, alloggiano (Winnicott), metabolizzano/contengono (Bion), mentalizzano (Fonagy e Target) o rispecchiano (Kohut) le esperienze precoci di incongruenza (divario, separazione) tra il corpo biologico (apparenza, ciò che viene visto dall’esterno) e l’esperienza soggettiva di genere (corpo parallelo o immaginato, vera casa, ciò che viene vissuto dall’interno) dei bambini TGNC. Infatti, questa esperienza di incongruità, incomunicabile da parte del bambino a causa dell’assenza di linguaggio, se non viene mentalizzata dall’oggetto primario, può interrompere il processo di coesione del Sé e privare l’individuo della sensazione di “essere visto”, ovvero dell’esperienza di sé stesso come un oggetto visibile (Lemma, 2012, 2013, 2021).

A tal proposito, Avgi Saketopoulou (2014) introduce il concetto di «trauma grave di genere» (massive gender trauma) (p. 12 trad. it.) per descrivere i traumi profondi che molti bambini TGNC subiscono nel corso dello sviluppo. Queste esperienze traumatiche nascono dall’intersezione tra la disforia corporea, ovvero la sensazione dolorosa che il proprio corpo fisico e il proprio genere siano disallineati e le continue esperienze di misgendering, ovvero esperienze di misconoscimento del proprio genere da parte dei propri oggetti primari ed ambiente di appartenenza che riconoscono queste persone soltanto come appartenenti al proprio sesso natale. Questo massive gender trauma nasce dalla combinazione tossica e psichicamente combustibile di questi due eventi psichici distinti ma inter-implicati. Le soluzioni dinamiche che i bambini possono adottare per gestire il massive gender trauma, il modo in cui l’inconscio viene reclutato nell’affrontare le discontinuità tra il corpo e il genere, possono poi ripiegarsi nella struttura stessa della personalità, portando a seri problemi caratterologici, difficoltà con la regolazione emotiva e persino alla compromissione dell’esame di realtà. Queste difficoltà spesso derivano dall’impatto traumatico e non mentalizzato dell’essere TGNC piuttosto che esserne la causa originaria, come spesso si presume.

 

Il corpo

Nelle persone TGNC, la modifica del corpo diventa un modo per trovare un luogo che sia maggiormente in grado di accogliere e rappresentare l’esperienza soggettiva di genere e le diverse sfaccettature della propria identità. Tali cambiamenti corporei migliorano il funzionamento globale e aumentano il livello di soddisfazione nella vita di queste persone, contribuendo in modo significativo alla riduzione dell’ansia e di altri sintomi correlati al minority stress (Meyer, 1998, 2003).

Nonostante le molte ricerche che hanno dimostrato in modo inconfutabile questi dati (APA, 2021; Chen, Abrams et al. 2021; Ehrensaft & Tishelman, 2021), le decisioni delle persone TGNC di intraprendere percorsi di affermazione e conferma di genere attraverso modifiche corporee provocano reazioni molto ambivalenti da parte della società. Gli individui TGNC che esprimono il loro autentico Sé di genere attraverso il comportamento, l’abbigliamento o le modifiche corporee non possono rimanere nascosti (closeted). Devono impegnarsi in un processo di transizione che li esporrà “agli altri” che assistono e reagiscono a ciò che viene percepito come devianza (Lev, 2004, p. 233). Inoltre, gli specialisti del settore trovano difficile comprendere il desiderio di queste persone di cambiare il proprio corpo “naturale” o “natale” senza l’obiettivo di curare una malattia o ripristinare una funzione corporea (Lemma, 2021). Infatti, l’utilizzo da parte delle persone TGNC di “tecnologie del Sé” (Foucault, 1988), ovvero di “strumenti che consentono alle persone di effettuare un certo numero di operazioni sul proprio corpo, anima, pensieri, comportamenti e modi di essere per trasformarsi” (Foucault, 1988, p. 18 trad. inglese del 1998), non vengono facilmente comprese da parte della società poiché confondono l’idea che genere e sesso biologico siano equivalenti. Al contrario, le tecnologie di miglioramento della propria espressione normativa di genere, come la dieta, l’esercizio fisico, il trucco e la chirurgia, comunemente utilizzate per raggiungere l’eccellenza nella propria mascolinità e femminilità, vengono approvate e applaudite in quanto volte a performare un genere che è conforme con la propria assegnazione sessuale alla nascita.

Anche il mondo psicoanalitico presenta sentimenti ambivalenti riguardo a questi interventi, poiché la modifica del proprio corpo non si adatta al modello psicoanalitico basato sull’analisi e risoluzione del conflitto intrapsichico che dovrebbe essere elaborato in modo astratto e simbolico all’interno della psiche piuttosto che in maniera concreta e ingegneristica attraverso vere e proprie manipolazioni corporee (Suchet, 2011).

Le teorie psicoanalitiche che etichettano le persone TGNC come narcisistiche o psicotiche presuppongono che esista un corpo “naturale” che rappresenta il punto di partenza da cui possono essere osservate le successive deviazioni. Questa posizione è stata criticata da diversi psicoanalisti contemporanei. Infatti, il corpo che una persona ha alla nascita viene immediatamente plasmato dall’ambiente circostante attraverso il contatto, la voce, gli odori e le proiezioni degli individui intorno al neonato. In seguito, a seconda della fase di sviluppo in cui si trova il bambino, il suo ambiente si allarga (famiglia, scuola, etc.) e le possibilità di proiezione e introiezione aumentano (Lemma, 2021).

L’introduzione del concetto di embodiment (Damasio, 1994; Saketopoulou, 2014, 2020) ovvero del percorso attraverso il quale, durante lo sviluppo del bambino, il corpo si incarna nella mente e la mente inabita psichicamente il corpo ha sicuramento aiutato a superare il riduzionismo intrinseco in queste posizioni teoriche. Infatti, dobbiamo considerare che durante i processi di costruzione dell’identità, il corpo e la mente interagiscono costantemente tra di loro e si influenzano reciprocamente in quanto interconnessi. Questo processo porta alla trasformazione del corpo che una persona possiede nel corpo che una persona è, ovvero alla “personificazione del corpo” (Winnicott, 1971). In altre parole, non possiamo considerare il corpo come il semplice contenitore della mente. Questo rappresenta un punto di arrivo, il risultato di un percorso che parte dal corpo, ovvero dalle primissime esperienze sensorie ed affettive del bambino. Come espresso da Freud (1922), l’Io è prima di tutto un Io corporeo e la prima rappresentazione di sé del bambino è, per l’appunto, corporea. L’Io nasce quindi come una proiezione mentale della superficie del nostro corpo. In altri termini, il senso di sé si origina dal corpo e le prime percezioni e fantasie del bambino sono sensoriali, preverbali e pre-simboliche (Kristeva, 1995). Il corpo dà forma alle nostre esperienze, così come le nostre esperienze danno forma al corpo e al senso di sé, una volta che ciò che è esperito a livello corporeo viene rappresentato a livello mentale attraverso continue proiezioni e introiezioni (Lemma, 2021).

Nelle persone TGNC, il processo di embodiment diventa particolarmente complesso a dimostrazione del fatto che il processo di trovare una casa permanente per la mente non può essere dato per scontato (Winnicott, 1971). Nel caso delle persone TGNC, la ricerca di una “casa corporea” non può essere vista come un recupero di ciò che è stato perso, ma come la ricerca di una casa mai conosciuta. Quando il corpo non si sente a casa, quando non è possibile raggiungere un senso di proprietà del proprio corpo o quando il corpo è stato inconsciamente invaso dall’“altro”, la fantasia inconscia più profonda è quella di reclamare il proprio corpo. L’obiettivo di liberare il Sé dai confini imprigionanti del corpo e decolonizzare l’Io dall’invasione che abita la carne materiale, può essere raggiunto solo attraverso una concreta trasformazione corporea, una reiscrizione del proprio corpo (Suchet, 2011).

La “materialità” delle narrazioni transgender è legata al fatto che, per queste persone, l’essenza della soggettività è la “corporeità” (Prosser, 1998). Di conseguenza, per comprendere la transessualità, è necessario considerare la “materialità del corpo stesso” (p. 77) e il bisogno del soggetto transgender di acquisire un’incarnazione sessuata, ovvero la sensazione di avere un corpo coerente, integro ed erogeno. L’Io-pelle (Anzieu, 1989) riveste un ruolo centrale nell’acquisizione del senso di sé. La soggettività riguarda il sentire di possedere la propria pelle fisica e “l’investimento psichico di sé nella pelle stessa” (Prosser, 1998, p. 73). Ci si può sentire “a casa nella propria pelle” solo se l’immagine del proprio corpo è sinonimo di corpo materiale. Poiché il problema è localizzato nel corpo materiale, l’intervento deve essere a quel livello, alterando chirurgicamente la carne piuttosto che intervenendo a livello psicologico sull’immagine corporea.

Nel processo analitico, il cambiamento per le persone TGNC coinvolge sia l’interno che l’esterno ovvero sia il mondo psicologico che quello fisico. Per loro, cambiare il corpo è cruciale per trasformare la psiche (dall’esterno verso l’interno) in quanto è il contenitore che deve cambiare affinché il contenuto venga esperito in modo diverso. Infatti, la comprensione interiore (dall’interno verso l’esterno) non sempre risolve il disagio corporeo. In altre parole, le modificazioni corporee non precludono l’analisi del genere così come l’analisi del genere non preclude le modificazioni corporee (Suchet, 2011).

Alcuni pazienti TGNC utilizzano la fantasia inconscia che il loro sesso e corpo biologico non siano reali e non lo siano mai stati. La convinzione di molte persone TGNC di essere nate nel corpo sbagliato deriva da ciò. Tale convinzione aiuta a evitare l’elaborazione di due temi cruciali: la temporalità e il lutto. In sintesi, la convinzione dell’esser nati nel corpo sbagliato consente alle persone TGNC di dare un senso al proprio genere senza dover affrontare la realtà fisica del proprio sesso biologico. Negando il proprio sesso biologico, non c’è bisogno di elaborarne l’aspetto temporale e, di conseguenza, non vi è più la necessità di elaborare il lutto per qualcosa che non è mai esistito (Saketopoulou, 2013).

Il corpo ha una connessione intrinseca con la temporalità in quanto esso è configurato a livello mentale in modo temporale (Lemma, 2012, 2016, 2021). Ad esempio, il nostro corpo ci ricorda il legame con la coppia genitoriale da cui deriva, la distinzione tra il tempo in cui il nostro corpo “non era” e il tempo in cui “è cominciato a essere”, la differenza tra le generazioni e l’accettazione del cambiamento e della continuità, ovvero a tollerare ciò che cambia e ciò che non può essere cambiato (esame di realtà). Nel caso delle persone TGNC, la temporalità diventa di fondamentale importanza nella loro vita così come nel processo analitico. Infatti, gli interventi di conferma di genere, pur rappresentando una fonte di sollievo, non cancellano i marcatori biologici presenti sin dalla nascita, i quali non sono eliminabili. Pertanto, anche dopo gli interventi ormonali e chirurgici più sofisticati e riusciti, la differenza tra il corpo e l’esperienza interiore di genere è ancora parzialmente presente. In altre parole, il nuovo corpo modificato porta sempre con sé una storia, sia essa conscia o inconscia, riconosciuta o negata. Pertanto, l’elaborazione della storia relativa allo sviluppo del corpo assegnato alla nascita e del percorso che alcune persone TGNC decidono di intraprendere con il loro corpo è fondamentale per sviluppare una narrativa integrata della loro identità e della loro vita. L’elaborazione di questi fattori assume particolare rilevanza per l’adeguamento post-operatorio a un corpo ricostruito che deve essere integrato con un corpo passato (Lemma, 2012, p. 94).

Una transizione psicologicamente sana dipende quindi dalla capacità di elaborare e attraversare il lutto e il dolore portati da ciò che, dopo diversi interventi medici, ancora funge da rimembranza del corpo natale. Il corpo deve essere accettato come un progetto imperfetto. Questa accettazione dipende dalla capacità di riconoscere, possedere e integrare il passato biologico nella nuova identità formata. Il lutto della fantasia inconscia di poter eliminare il passato facilita l’adattamento alla nuova identità di genere. Tuttavia, l’accettazione del proprio corpo non significa rinunciare alla transizione medica. Gli interventi ormonali e chirurgici sono spesso ricercati per allineare i contorni esterni del corpo con il “corpo sentito all’interno” e non vanno intesi come acting-out di fantasie inconsce. Quindi, venire a patto con il corpo che si ha è una porta verso un processo di transizione medica psicologicamente sano. La distinzione tra l’accettazione del proprio corpo e la transizione medica è importante e dovrebbe guidare la tecnica clinica: il paziente deve conoscere il proprio corpo biologico con cui è nato per poter eventualmente accettarlo o decidere di cambiare, di lasciarlo andare (Saketopoulou, 2014).

 

Conclusioni

Nella mia esperienza di lavoro con persone TGNC, inclusi minori gender variant e le loro famiglie, ho avuto modo di assistere alla nascita di diverse narrative sul tema del genere spesso in opposizione tra loro. La mia speranza è che si possa presto avere un dialogo più pacato su queste questioni, evitando un linguaggio emotivo che ostacola una discussione costruttiva su una tematica già molto complessa. Sdrammatizzare il tema implica moderare i toni ed evitare affermazioni estreme sulla presunta minaccia della transessualità per il genere, la salute mentale o l’ordine sociale.

Trovo di fondamentale importanza condurre ricerche obiettive sull’argomento per comprendere meglio gli aspetti ancora poco chiari della varianza di genere, comprese le possibili eziologie delle identità di genere, senza pregiudizi. Condurre ricerche sul tema di natura eziologica non è un problema, ma l’utilizzo patologizzante e stigmatizzante che ne viene spesso fatto può diventarlo.

Nell’incontro con queste popolazioni, l’obiettivo del terapeuta dovrebbe essere quello di fungere da osservatore partecipante al fine di favorire l’emergere di un’autentica identità di genere e coesione del Sé attraverso il ritiro del falso Sé di genere e la costruzione di connessioni profonde con persone reali del mondo esterno.

La mia formazione psicoanalitica iniziale non mi ha preparato adeguatamente a trattare la relazione complessa che queste persone hanno con il proprio corpo. Dobbiamo continuare a rivedere le teorie esistenti basate sulla dicotomia sesso/genere e adottare una prospettiva più aperta, flessibile e inclusiva, ispirata alla visione postmoderna del genere e alla teoria queer.

Nel corso del processo analitico con queste persone, dobbiamo mettere in discussione il nostro modo di pensare al genere ed esplorare la materialità delle narrazioni, la centralità del corpo e l’acquisizione dell’incarnazione di genere in queste persone. Dobbiamo inoltre comprendere che psicoanalisi e chirurgia non sono incompatibili e considerare la chirurgia come un’opzione terapeutica valida per ottenere un senso di proprietà e investimento nel proprio sé corporeo e nei genitali.

Come ha sottolineato Goldner (2011), è necessario un cambio di paradigma nella teoria del genere. Il genere dovrebbe essere pensato come un processo piuttosto che una cosa in sé, un gerundio piuttosto che un prodotto finito. Il termine trans è l’unico in grado di abbracciare questa complessità. “Serve come nome completo e proprio, nessun suffisso fornito, nessuno ricercato” (p. 166).

 

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