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Dall'adolescenza all'età adulta oggi, nell'epoca del precariato e della globalizzazione
di Leonardo (Dino) Angelini

La formazione di base e la specificità dello psicologo nel servizio pubblico

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8 ottobre, 2024 - 17:38
di Leonardo (Dino) Angelini
Psicologo dell’AUSL di Reggio Emilia
 
Relazione presentata al Convegno “Università e Professione”
tenutosi a Bologna il 5 Ottobre 2002
ora nel testo di Angelini, Bertani "La psicoterapia nei servizi pubblici"


 
 
Vorrei partire proponendovi cosa mi è venuto in mente allorché il Presidente Frati, a nome del Consiglio dell’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna, mi ha invitato a partecipare alla giornata odierna:
 
  1. Da un’inchiesta, promossa alla fine degli anni ’80 dalla Regione Emilia-Romagna sugli Psicologi allora operanti nel ‘pubblico’ emerge, fra l’altro, che la maggior parte di questi Colleghi avevano frequentato (spesso a loro spese e fuori orario di lavoro) corsi o momenti di supervisione di natura clinica[1]. Se però ci poniamo alla ricerca di riflessioni sul significato che in concreto ha assunto la pratica clinica nel ‘pubblico’ in questo ultimo trentennio vediamo che c’è un gap notevole fra pratica e riflessioni sulla pratica.
 
  1. Sono iscritto alla Mailing List della rivista ‘Gli Argonauti’. Ebbene, una delle preoccupazioni che emerge in maniera ricorrente fra gli psicoterapeuti di questa ML, operanti spesso nel ‘privato’, è quella di definire un fenomeno emergente: le psicoterapie che hanno la cadenza di una seduta settimanale. “Sono esse apparentabili o no alla psicoterapia di chi opera nel privato, spesso molto più ortodosse rispetto ai protocolli tradizionali?” si chiedono questi Colleghi che spesso sono anche supervisori di psicoterapeuti operanti nel pubblico. E sembrano ancora chiedersi: “Come mai da una parte c’è un’offerta  di tre o quattro sedute settimanali senza utenti e dall’altra una esplosione di psicoterapie con cadenza settimanale (esplosione desumibile dalle supervisioni che molti di loro fanno nei confronti di Colleghi operanti nel pubblico)”?
 
  1. A proposito dei giovani Psicologi specializzandi viene da chiedersi: che cos’è la clinica per questi giovani Colleghi? Ho l’impressione che, mentre da parte loro non pare esserci alcun problema, nel momento del tirocinio post lauream, a svolgere attività cliniche quali progetti riabilitativi, lavoro all’interno della disabilità e del disagio, lavoro sugli anziani, ecc., ecco che, come per un sortilegio malefico,  all’improvviso diventano schizzinosi e poco attenti a questi aspetti della clinica allorchè cominciano a frequentare la scuole di specializzazione.
 
  1. E sulle scuole di specializzazione: sono tutte in mano ai privati o alle università. In entrambi i casi si tratta di due contesti che spesso non hanno all’interno del proprio corpo docente esperti, supervisori, etc. che abbiano un minimo di esperienza nel “pubblico”.
 
  1. La crisi del welfare: quale destino attende il lavoro clinico e di comunità nel momento in cui, dopo le revisioni ad opera delle istanze del potere locale, ora ben più corpose e pesanti istanze centrali vengono a mettere in crisi la sanità, la psichiatria, il lavoro nel sociale? Quale destino, in particolare, attende il lavoro dello Psicologo clinico nel pubblico?
 
Da questo tipo di considerazioni discendono alcune linee di riflessione sulla clinica nel ‘pubblico’ che vi propongo:
 
  1. innanzitutto, a mio avviso, nella situazione attuale vi è il rischio di una biforcazione che vede da una parte un settore sempre più ampio della clinica diffondersi nel ‘pubblico’ in base ad una pratica a volte “acefala” e spesso non sufficientemente ripensata e agglutinata in base alle esigenze nuove che nel pubblico emergono; dall’altra, nel privato, si evidenzia un’offerta di prestazioni più tradizionali ben più rodate, a volte riproposte con accenti feticistici ad una clientela che si assottiglia. Da una parte un corpo che rischia di rimanere senza testa, dall’altra una testa ormai quasi senza corpo. Tale biforcazione, fra l’altro, è destinata a riproporsi in termini nuovi in questi momenti di governo di centro-destra, con quel po’ po’ di scure che si sta abbattendo sul welfare. Peraltro ciò sta accadendo in termini nuovi e tutti da analizzare, poiché, ad esempio, non è detto che le attività psichiatriche e psicologiche siano destinate ad essere tagliate: sembra, piuttosto, che si voglia ricondurle a istanze di roboante e pedestre controllo sociale.
 
  1. Fra gli elementi che hanno contribuito in questi anni ad allargare inesorabilmente questa forbice fra pubblico e privato ve ne sono almeno tre che meritano la nostra attenzione: 1. La legge istitutiva delle scuole di specializzazione, che per ragioni - diciamo così - venali, istituzionalizza la cesura fra questo nuovo corpo e questa vecchia testa senza chiedersi peraltro se questi due tronconi appartengano alla stessa entità; 2. L’inerzia di noi psicoterapeuti operanti nel pubblico nel far crescere una nostra visione autonoma del nostro operare, cioè la nostra tendenza a rimanere senza testa; 3. L’aziendalizzazione delle UU.SS.LL. che, ben prima che la scure governativa cominciasse a calare i suoi freddi colpi,  ha prodotto una disaffezione nei confronti dei problemi intrinseci della clinica, sospingendoci verso altre mete e condannando ai margini dei processi decisionali coloro che non erano d’accordo con questo andazzo “simil-manageriale”.
 
  1. Vi è poi il problema della rapida disaffezione dei giovani a vari aspetti della clinica quali – come dicevamo prima - progetti riabilitativi, lavoro all’interno della disabilità e del disagio, lavoro sugli anziani, etc, che spesso in passato solo nel pubblico hanno potuto svilupparsi e che spessissimo poi diventano parte centrale del destino lavorativo che in concreto a loro si prospetta, magari non più nel pubblico, ma nel Terzo settore. Tale disaffezione  a mio avviso è da ascriversi alle deficienze che su questo piano mostrano coloro che hanno assortito i programmi delle scuole di specializzazione, alla loro distanza direi siderale da questi temi, oltre che – spesso - al loro feticistico attaccamento a protocolli di cura inapplicabili con i nuovi utenti. Insomma, usando una metafora: se si seminano cetrioli nelle scuole di specializzazione poi sarà difficile ottenere carote nei Servizi e nel Terzo settore. Ma se abbiamo bisogno di carote, perché insistere col seminare cetrioli!?
 
  1. Mancano anche analisi sulle nuove utenze, sulle loro richieste, sui loro bisogni. Mancano perfino riflessioni su quelle attività che sono (ancora) obbligo di legge, come ad esempio le certificazioni previste dalla Legge 104. E su questa assenza di dati poi sorgono strane ed assurde leggende metropolitane, ad esempio quella per cui la clinica nel Pubblico sarebbe concorrenziale alla clinica nel Privato, con tutte le varianti che su queste leggende poi si formano. Ebbene:  a Reggio Emilia, per iniziativa della Provincia e su sollecitazione della collega Carla Tromellini, è stata fatta un’inchiesta sui nostri utenti (quelli degli Psicologi), permettendo ad un gruppo di ricerca di mettere cautamente il naso nelle cartelle, ed è venuto fuori fra l’altro che la nostra utenza è fatta di persone provenienti dai ceti medio–bassi che sicuramente non avrebbero le risorse economiche per accedere al privato. Ciò innanzitutto fa piazza pulita del fatto che il pubblico farebbe concorrenza al privato, ma anzi ci fa anche intendere che c’è e può essere estesa una complementarità fra i due tronconi della clinica. E, soprattutto, ciò rende ancora più urgente una riflessione sul che cosa stiamo facendo da trent’anni a questa parte nel pubblico, magari senza esserne pienamente coscienti. Infatti è mia impressione, ad esempio, che l’accesso alla psicoterapia da parte di nuove classi sociali - che solo attraverso il pubblico ha potuto fruire di questo genere di interventi - ha sicuramente contribuito a diffondere in tutti gli utenti un atteggiamento nuovo nei confronti della sofferenza mentale, meno incentrato sui timori che avevamo incontrato da parte dei cittadini all’inizio della storia dei servizi psichiatrici territoriali del giovane welfare italiano.
 
  1. Infine due considerazioni su un aspetto che mi sta particolarmente a cuore, data anche l’età che ormai mi porto dietro, sul rapporto fra più generazioni di operatori della psichiatria nel pubblico. La prima sul rapporto fra Psicologi giovani e meno giovani.  A Reggio abbiamo fatto un insieme di seminari sul rapporto fra tirocinante e tutor, che hanno visto intorno allo stesso tavolo Psicologi giovani e meno giovani, Colleghi provenienti da altre città del Nord, ed altri social workers  sensibili al problema: uno degli elementi trattati, anzi direi uno dei punti di partenza era quello del passaggio del testimone fra la generazione degli anziani e quella dei giovani, con tutte le ambivalenze che provengono da questa sede, il tirocinio, così scarsamente istituzionalizzata e perciò così sfuggente. Ebbene: un elemento che emergeva da tutti gli interventi dei Colleghi Psicologi era quello della sostanziale non considerazione (per usare un eufemismo) che l’Università mostra nei confronti di questo delicato momento di innesto di competenze, di pratiche, ma anche di riflessioni che possono essere fatte ‘in corpore vili’ e non ‘ex cathedra’ sulla nostra professione, e sulla clinica in particolare. Non considerazione che traspare dalla stessa collocazione post lauream del tirocinio, dalla non presa in considerazione, in sede di esame di stato, di questo percorso iniziatico che serve ad introdurre il giovane nei territori della professione.
 
  1. La seconda considerazione è sul rapporto fra Psicologi e altri operatori della Neuropsichiatria Infantile, della Psichiatria, del Sociale, specie in età evolutiva. Uno dei tratti caratteristici più evidenti in questo trentennio è costituito dalla partecipazione in sede formativa degli Psicologi al lavoro di ridefinizione delle competenze di educatori, infermieri, logopediste, ed altri operatori, cioè di riconversione del personale che le sempre nuove esigenze emergenti nel territorio imponevano. Si è trattato di un lavoro spesso pieno di soddisfazioni che ha permesso anche il radicamento degli stessi Psicologi nelle équipe, il diffondersi di una cultura Psicologica fra gli operatori. Ebbene: la nascita della Psicologia clinica come luogo monoprofessionale (frutto secondario, ma per noi importante del processo di aziendalizzazione) ci sta estraniando da questi processi. Vedo questa come una grave perdita per la Categoria, non perché io sia contrario alle Unità di Psicologia, ma perché penso che buona parte della cura non possa essere adeguatamente svolta in unità di Psicologia monoprofessionali che, in questo modo, sono costrette ad un lavoro defatigante di attivazione sia di reti interne all’AUSL sia di reti interistituzionali soggette spesso a diverse e difficilmente conciliabili priorità, a diversi criteri di lealtà, ecc.  Cosa che - per carità - stiamo già facendo con grande impegno, ma che più opportunamente potrebbe essere sostituita, a mio avviso, da Unità di Psicologia  poliprofessionali, guidate ovviamente da psicologi e con un campo di competenze chiare e complementari rispetto alle altre Unità Operative.
 
Che fare per cominciare a riparare a questo stato di cose?
  1. In primo luogo, a mio avviso, occorre partire dagli elementi del sistema sanitario più facilmente aggredibili da noi professionisti operanti nel pubblico. Come diceva la Manoukian Olivetti[2] è molto improbabile che istituzioni tradizionalmente molto ‘forti’, come ad esempio l’Università,  si mettano effettivamente in discussione confrontandosi direttamente con  elementi più ‘deboli’ appartenenti invece al sistema sanitario, come ad esempio le AUSL o le stesse Regioni. Allora occorre partire da noi stessi e:
  2. osare far sentire il nostro punto di vista con pacatezza, ma anche con quel vigore che probabilmente finora ci è mancato;
  3. programmare nelle AUSL e fra le AUSL momenti di riflessione sulle impellenze cliniche del presente;
  4. riflettere, sfruttando gli spazi istituzionali, con quei didatti, quei supervisori, quei metodologi della clinica - operanti nelle scuole o al di fuori delle scuole - più sensibili alle esigenze del ‘pubblico’, sui perché e i “percome” dei necessari aggiustamenti che la clinica nel pubblico impone, al fine di fondare nel tempo una scienza della clinica Psicologica nel pubblico elastica ed autoriflessiva;
  5. istituire luoghi di discussione con i Colleghi del privato ed in particolar modo  del privato “sociale”;
  6. riparare ai guasti inerenti il processo di aziendalizzazione che ha teorizzato e permesso il proliferare di "contenitori che si fanno e si disfano nel tempo su singoli progetti", innescando un processo di rimozione del passato, di definizione del presente come luogo in cui individui nomadi si incontrano e fortuitamente generano qualcosa, e del futuro come luogo in cui ogni follow-up diventa improbabile anche perché, oltretutto, non si capisce né chi lo dovrà fare né come lo si dovrà fare;
  7. suggerire all’Ordine una linea di condotta più attenta agli effetti di ricaduta che le scelte del Murst et similia  hanno sulla professione. Ad esempio: se invece di inventare lo ‘junior’ ci si fosse mossi per istituire lauree brevi per educatori della riabilitazione, per logopedisti ecc. all’interno delle facoltà di Psicologia, magari insieme alle istituzioni in cui operano i professionisti, avremmo potuto avere un occasione in più per la diffusione della cultura psicologica;
  8. se, infine, si facesse più attenzione alla legislazione nazionale, regionale e locale in tema di disabilità, di anziani, di disagio ecc., oggi forse avremmo leggi e regolamenti in grado di riflettere la realtà in maniera più chiara (ad es.: nell’ambito della disabilità la clinica psicologica ha impregnato di sé molta parte del lavoro di consulenza alla scuola, ma di questo vi è scarsa traccia a livello legislativo); forse, quindi, avremmo leggi e regolamenti rispettosi delle competenze reali e non costruite sulla disponibilità dei santoni, dei venditori di fumo, dei moralisti di turno come ad es. avviene a volte nel campo della tossicodipendenza, e saremmo di conseguenza in grado di rispondere ancor meglio alle richieste ed ai bisogni che i Cittadini concretamente ci pongono.
 
 

[1] Trasforini Maria Antonietta, Psicologi e supervisione: percorsi di professionalizzazione nei servizi, F. Angeli, Milano, 1993
[2] Manoukian Olivetti, Per finire, a chi viaggia, in: Castellucci A (a cura di), Viaggi guidati: il tirocinio e il processo tutoriale nelle professioni sociali e sanitarie, F. Angeli, Milano, 1997


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