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Alcune considerazioni non in linea sulle diffuse preoccupazioni riguardo il rapporto media/bambini/adulti

14 Feb 20

Di r.maragliano

Introduzione

 

Non c'è discorso tra i moltissimi che circolano sul rapporto tra minori e media che sfugga alle insidie di due pregiudizi di fondo: quello dell'integrità psichica da salvaguardare e promuovere nei soggetti in crescita, e quello degli attentati che a tale integrità vengono dall'azione dei media.
Il problema più rilevante, su questo fronte, è a mio avviso rappresentato dal fatto che schemi del tipo di quelli indicati non vengono presentati come "ipotesi di lavoro" ma come "dati di fatto": di conseguenza, avviene assai raramente che si mettano in discussione idee su i bambini e sugli adolescenti o idee sulle macchine della conoscenza e dell'esperienza che, nell'attingere a luoghi comuni caratterizzati da pressapochismo e rigidità e nel rifiutare un approccio più sereno e pacato al complesso delle variabili in gioco, danno per risolta o risolvibile la questione; salvo poi dover riconoscere che ogni azione volta a regolamentare il rapporto minori-media, sia riducendo gli spazi di autonomia dei gestori dei media sia investendo in sede scolastica e familiare sullo sviluppo di competenze critiche delle quali dotare i giovani, affonda dentro una palude vischiosa di dubbi, controreazioni, sofismi interpretativi.
Già sarebbe un buon passo in avanti riconoscere che queste tematiche, pur essendo di portata pubblica e coinvolgendo quotidianamente l'universo degli adulti direttamente o indirettamente impegnati sul terreno educativo – o forse proprio per questo!-, meritano un supplemento di analisi e di problematizzazione.
E' in questa direzione che si sviluppano le considerazioni seguenti: facendo propria l'esigenza di misurarsi con un impegno di storicizzazione delle idee correnti di "minore", utilizzano l'universo dei media non come problema materiale ma come risorsa per la concettualizzazione dei nuovi spazi di identificazione dell'infanzia.

Perché lo ho chiamate "considerazioni non in linea"?

Per due ragioni. La prima è di merito. I ragionamenti proposti qui esprimono punti di vista e idee che mettono a dura prova le ideologie correnti in fatto di media e bambini, e avviano una critica dei presupposti su cui si basano le critiche più diffuse nei confronti dell'azione dei mezzi della conoscenza e della comunicazione sui soggetti in crescita.

La seconda ragione ha a che fare con la struttura discorsiva delle considerazioni che qui propongo. Che è duplice: per un verso procede secondo un andamento lineare (come risulta dai punti contrassegnati con un solo numero), per un altro sviluppa aperture di tipo reticolare, o ipertestuale, collegando gli approfondimenti di alcuni dei passaggi dell'esposizione lineare ad una serie di nodi problematici disposti in modo orizzontale (come risulta dai punti contrassegnati con una numerazione doppia).

 

Gli effetti dei bambini di oggi sui media di oggi

 

L'idea sottesa all'impegno di ridefinizione precedentemente enunciato èche sia il caso di fuoriuscire dal ricatto esercitato dall'assunzione dischemi di concettualizzazione tanto condivisi quanto sprovvisti diautentico potere interpretativo ed esplicativo. E' il caso dello schemacostruito attorno all'esigenza di analizzare "gli effetti dei media ingenerale sui bambini in generale". Viene da chiedersi, ogni volta che informe più o meno ingenue viene proposta una simile ottica: quali sono imedia di cui si discute, e, soprattutto, a quale bambino vien fattoriferimento? Già rispondere onestamente a questi interrogativipregiudicherebbe l'accettazione degli esiti ai quali generalmente conducel'adozione dello schema. 
Ci sarebbe invece da indagare il tipo di mentalità (per molti aspetti"infantile", come vedremo) promossa dalle macchine, adottando dunque unoschema per certi versi contrario, in quanto orientato a documentare "glieffetti dei bambini di oggi sui media di oggi".
E ci si troverebbe allora a misurarsi non tanto con i testi di unatradizione scientifica coerente con scenari assai diversi da quelloattuale, quanto con i contesti materiali dentro i quali dar corpo ariflessioni antropologiche e psicologiche più vicine al presente, ed ancheindicazioni per un'azione pedagogica contemporanea all'età storica cheadulti e bambini vivono: contesti di vita che sono appunto storici,scaturiscono da trasformazioni non superficiali nei comportamentiindividuali e collettivi e nei modi di rappresentarsi il mondo, e che peressere colti e valorizzati nel loro portato filosofico richiedono modalitàoriginali di lettura e d'interpretazione.
In questo quadro il ruolo assunto dai media non coinciderebbe con lasemplice "trasmissione" di conoscenze altrimenti elaborate, ma avrebbe ache fare con la promozione di una forma originale di conoscenza,irriducibile a quelle note e in buona parte consacrate dall'articolazioneche i saperi sono andati assumendo nella cosiddetta civiltà della stampa.

Nei confronti dei problemi filosofici (quello che sto sollevando qui èin primo luogo un problema filosofico) sono possibili, e di fatto vengonopraticati, due approcci: quello di chi intende affrontarli e portarli asoluzione come se fossero dei dilemmi, e a questo propoposito usa degliattrezzi che considera dotati di solidità, e quello di chi si propone diindagare i contesti entro i quali tali problemi si sono sviluppati, cioè lecondizioni che li hanno resi possibili (Sparti, p. 14). 
Relativamente alnostro tema e alla centralità assunta dallo schema degli "effetti dei mediasui bambini": in un caso, il primo, si tratterà di attenuare quella che siconsidera la parte negativa di tali effetti (il dibattito sullaregolamentazione delle emissioni televisive e sul libero accesso a Internetsi inscrive qui); nel secondo caso ci si chiederà preliminarmente diindagare attorno alla nuova domanda di conoscenza ed esperienza (anche daparte dei soggetti infantili) di cui i media sono espressione econseguenza.

Qui faccio mia questa diversa ottica.
Non perché sia migliore dell'altra, ma perché evita l'ingabbiamento dentrouna cornice culturale data, e pone in discussione proprio quella stessacornice. Nel caso che sto trattando, essa non accetta la presunta soliditàdello schema degli effetti, né dà per sicure idee sui media e sui bambiniche invece richiederebbero un supplemento di analisi.
Relativamente all'opportunità di dotarsi di paradigmi di interpretazionedei media meno ingenui di quelli correnti, mi corre l'obbligo diesplicitare i quadri di analisi scientifica ai quali faccio direttoriferimento: si tratta, per un verso, dei contributi classici dellacosiddetta "scuola di Toronto" (in particolare, Ong e Havelock) e, perl'altro, delle prospettive aperte da alcuni "liberi pensatori" che,sfidando le imperanti forme di perbenismo mediale, dedicano impegno einvestono spregiudicatezza nel contattare e concettualizzare il grosso nododell'intelligenza tecnologica (da Lèvy a Papert, dalla Turkle adAbruzzese).

 

Contesto storico attuale

 

E' scontato riconoscere che nella determinazione del contesto storicoattuale, entro il quale il bambino acquisisce identità e configurazionerappresentativa, non operano solo gli elementi della nuova epistemologiapromossa dai media, ma anche altri fattori, che sarebbe opportuno prenderein considerazione: fattori sociali, culturali, demografici. 
Qui intendo far cenno solo a questi ultimi, chiamando in causa i problemiposti (e mai sufficientemente indagati) dal rapidissimo affermarsi, neipaesi dell'occidente postindustriale, di nuove abitudini procreative. Anche limitando l'ottica al nostro paese è evidente che nel giro di pochegenerazioni si è passati da un regime demografico caratterizzato daun'elevata natalità ad uno caratterizzato da una natalità notevolmentebassa, addirittura inferiore – come è a tutti noto – alla soglia delrimpiazzo. 
Non possiamo non chiederci quali siano le conseguenze ideologiche di questarivoluzione radicale nei comportamenti collettivi e come esse sianosupportate e ulteriormente articolate dalle conseguenze di un altrofenomeno ugualmente vistoso, vale a dire l'allungamento della vita media. 
Non sarebbe sufficiente, allora, parlare di invecchiamento della società edi progressiva scomparsa dell'infanzia. 
Occorrerà anche confrontarsi con latrasformazione dell'idea di bambino della quale tali processi (materiali eideologici) sono ad un tempo fattore di generazione ed effetto. Esserebambino dentro una società mediamente giovane (il secolo scorso) o matura (la prima metà di questo secolo) è cosa diversa dall'essere bambino dentrouna società mediamente anziana (questo fine di secolo).
La stessa identità di "minore" va oggi assumendo una configurazioneoriginale e complessa, anche in ordine allo stile e ai contenuti di unanuova progettualità pedagogica.
Per definire lo spazio di tale trasformazione sarà sufficiente riflettereattorno ad un cambiamento drastico sopravvenuto sul terreno delletecnologie e dei dispositivi (nel senso di Foucault) di "costruzione delsé" del bambino.
Il carico di aspettative di riuscita educativa di cui igenitori si fanno portatori tende oggi ad essere distribuito non più su unapluralità di soggetti-figli, come era in un contesto di natalità elevata,ma, per così dire, sul "pezzo unico". In questo contesto, così diverso daquello al quale fanno riferimento le idee purtuttavia correnti e condivisein fatto di psiche infantile, ogni figlio è inteso come (e subiscel'immagine di) figlio unico.
Associando questo elemento "ideologico",caratterizzato da forti aspettative pedagogiche, al contesto storico di unasocietà dominata dalle logiche della produttività e dell'efficienza, e alprocesso di nuclearizzazione della famiglia, si può avere una prima stima(e nello stesso individuare una prima spiegazione) del cumulo di elementiansiogeni che l'adulto prova, oggi, nei confronti del singolo bambino e cheinevitabilmente riversa su di lui (e sul suo ambiente primario diriferimento, caratterizzato dall'azione del media).
Il teatro contemporaneo della riproduzione individuale e sociale mette inscena, dunque, un bambino vincolato al paradigma dell'eccezionalità: unbambino eccezionale, insomma, che è tale (o inteso come tale) sia perché ladecisione di metterlo al mondo è vissuta come eccezione rispetto ad unascelta di non generazione che oggi si tende a considerare normale(esattamente come era normale, ieri, la scelta di generarlo, ed eccezionalequella contraria), sia perché l'investimento su questa scelta in un certosenso anomala chiede di essere garantito da un'alta, quasi eccezionale,probabilità di riuscita.
In altri termini, quell'unico pezzo, che tanto è costato, sul pianopsicologico, a chi l'ha realizzato, dev'essere un "pezzo buono", appagantee ripagante.
Di qui la quantità e l'eterogeneità delle attese di realizzazione, tutte dilivello qualitativo elevato, che soprattutto i genitori ma sullo sfondoanche i parenti e gli adulti pedagogicamente impegnati (dagli amici agliinsegnanti) riversano su quel pezzo unico. Di qui, ancora, l'isolamentomateriale e psicologico che lo stesso bambino e i suoi custodi vivonodirettamente sulla loro pelle, isolamento che riflette un atteggiamentocollettivo caratterizzato da un notevole carico di preoccupazione neiconfronti dell'infanzia. Di qui, anche, l'aggressività esercitata neiconfronti di quanto (i media soprattutto) mette in discussione una simileprospettiva d'azione.

Come sosteneva in tempi non sospetti Ariés, la detronizzazione delbambino è un catalizzatore corposo e denso della fase storica che stiamovivendo: esso si inscrive nella trasformazione profonda dei regimiistintuali e delle pratiche educative, e dà alimento a rappresentazionisegnate da ideologie negative. "Dagli anni '60 in poi la riduzionedemografica non risponde più alle medesime motivazioni" della denatalitàdegli anni '30: quella muoveva dallo scopo di ottenere "una famigliafelice", questa non è più "child oriented".
"Questi indizi non significanoche si torni ad epoche di indifferenza. Un limite della sensibilità è statovarcato troppo di recente e troppo a fondo perché sia possibile unaregressione". Ma qualcosa, inevitabilmente, si è rotto. Corriamo il rischio"che nella società di domani il posto del bambino non sia più quello cheera nell'Ottocento: il re potrebbe venir detronizzato e il bambino nonconcentrare più su di sé, come è avvenuto per uno o due secoli, tuttol'amore e la speranza del mondo" (Ariés, 431-442).
L'ansia che la collettività esprime riguardo l'autorealizzazione e lariuscita del singolo bambino esprime la lacerante contraddizione tra questedue istanze di eccezionalità: quella statistica e quella qualitativa.

 

Il bambino "fa problema", oggi

 

Sarebbe poco onesto negarlo: il bambino "fa problema", oggi.
E i mediariflettono questo sentire comune rinforzandolo attraverso il rilevo dato aletture del mondo infantile (dalla violenza alla pedofilia,dall'indifferenza dei genitori alla crisi della scuola) che, per quantopoggino sulla denuncia di elementi di drammatica negatività presenti nelcontesto entro cui il singolo cresce, finiscono con il proiettarsi sullasua stessa identità: sia indirettamente (l'adulto sente il bambino comealieno) sia direttamente (il bambino si sente alieno a se stesso).
Troppo negativo il quadro tracciato fin qui? 
Può anche essere. Ma àdifficile che, immergendosi dentro le forme della cultura mondana, in fattodi pedagogia praticata e problematizzata, si sfugga ad un'atmosfera dentrola quale i temi della vita sono fortemente intrecciati con quelli dellutto; e, in particolare, non si provi disagio per il conflitto tra questaideologia per molto aspetti negativa e ideologie di stampo contrario,basate su rappresentazioni idealizzanti, come quelle fornite da tanta partedella psicologia e della pedagogia ufficiali.
A questo punto intendo fare entrare in campo l'ideologia dei media: nonquella che, secondo una banale accezione contenutistica, li vede e li faagire come specchio e catalizzatore delle preoccupazioni collettiveriguardo alla crescita del bambino, ma quella, più profonda, e ancora dasviluppare compiutamente – anche in sede scientifica -, che ha a che farecon la qualità nuova dei linguaggi attivati dai mezzi, quindi con la formasemiotica che è costituivamente inscritta nel loro agire.Anche su questo versante, l'atteggiamento corrente è caratterizzato daaccenti di forte preoccupazione.

Nel suo più recente romanzo (pubblicato sotto lo speudonimo RichardBachman) Stephen King, grande "metteur en scene" degli incubi collettividel presente, personizza il male – meglio, l'ignoto presente dentro di noie che intendiamo come male – nella figura di un bambino autistico, chiusoad ogni rapporto con l'adulto quanto aperto ad una comunicazione vitale coni personaggi di un serial tv e la loro concretizzazione in forma di pupazzie giocattoli. 
Pupazzi e giocattoli che egli chiama sulla terra peresercitare la sua e la loro "vedetta".
Come non cogliere in questa tragicascena lo specchio delle nostre ansie riguardo la parte opaca, nondominabile, del bambino e il sostegno che essa ricevedall'azione dei media?

 

L'idea di infanzia ereditata dalla tradizione culturale

 

L'idea di infanzia ereditata dalla tradizione culturale e in buona partescientifica è, per così dire, "letteraria", trova cioè il suo ambito diconcettualizzazione e legittimazione dentro ad uno spazio sociale e unordine semiotico dominati dal carattere di esclusività riconosciuto allalingua scritta: esclusività duplice, sia perché all'alfabetismo siriconosce la prerogativa di essere il medium per eccellenza, per moltiaspetti l'unico medium cui affidare la riproduzione dei saperi e deicomportamenti, sia perché esso agisce isolando i suoi utenti in fasce dietà, di interessi, di identità. 
In altri termini, la sua stessadesignazione di "essere che non parla" fa del bambino un individuomanchevole, incompiuto, il cui destino di crescita e completamento èfortemente segnato dall'alfabetismo.
Una volta assicurato il possesso di untale strumento, materiale e spirituale, la sua identità di bambino (dentrolo scenario tradizionale, è il caso di ripeterlo) smette di essere"negativa", carente, ed egli entra a pieno titolo nello scenario dicomunicazione e di dialogo con il mondo.
Il bambino che legge e scrive è unbambino compiuto, che non trova più ostacoli sia nel rapportarsi al mondo eagli altri, sia nell'autorappresentarsi come essere innocente (si pensi, aquesto proposito, al ruolo "fondante" che famiglia e scuola attribuisconoalla lettura, da parte del bambino in via di compimento, di testi letterariche hanno come protagonista l'infanzia).

La tesi secondo cui è l'alfabetismo a creare l'infanzia può certamenteessere accusata di superficialismo e di rozzezza deterministica.
Ma èdifficile negare che nell'età precedente l'avvento della stampa i bambinifossero considerati meno diversi dagli adulti e che nell'età presente,anche in forza dell'oralità di ritorno di media come la televisione e ilcomputer, questa distinzione abbia perso molti dei suoi tratti: il bambinoè coinvolto direttamente, dalla tv, in quella parte del mondo che prima gliera preclusa o presentata in termini edulcorati dalla stampa.
Il libro,insomma, isola il bambino dal mondo adulto in una maniera inconcepibile peruna cultura orale, pre o post scritturale.
Ovviamente non è il libro di persè che determina l'età infantile e quella adulta, ma le maggioripossibilità proprie dell'alfabetismo di tenere nettamente separati isistemi informativi adulti e quelli infantili. 
La tv, permettendo aibambini di accedere ad uno spazio aperto, non più diviso (se non in modomolto blando) per "fasce d'età", fa saltare l'idea di innocenza e mette incrisi l'idea di una progressione prestabilita dei contenuti e delle formedell'esperienza individuale. 
Tv e computer hanno radicalmente compromessola gerarchia delle informazioni e dei modelli di apprendimento storicamentecostituita dall'alfabetizzazione e dal suo contesto di massimalegittimazione, cioè la scuola (Meyrowitz, cap. XII).

 

Prova a dirlo con una formula provocatoria

 

Lo schema che garantisce all'alfabetismo il compito di fissare egovernare il sistema delle età e di conseguenza il filtraggio delleesperienze e delle conoscenze entra in crisi non tanto con l'avvento deimedia (che comunque usano altri codici, accanto o in alternativa a quelloscritto) quanto con il fatto che essi, occupando e plasmandogli spazi dellerappresentazioni collettive secondo modalità aperte – non più riservate -,trovano un interlocutore privilegiato nel bambino, più propriamente nellasua componente "analfabetica": non intesa come carenza, ma come dotazionecostitutiva del suo essere "soggetto simbolico".
Il rapporto di amore che ogni soggetto in crescita, fin dal suo primoaffacciarsi sul mondo, vive nei confronti di strumenti come il telefono, ilregistratore audio, la radio, la televisione, il videoregistratore, latelecamera, fino ad arrivare al computer trova qui la sua origine: nelfatto che l'accesso a tali mezzi e il loro uso prescinde dal (anzi talvoltatrova ostacolo nel) possesso formale della strumentazione alfabetica.
Letecnologie della riproduzione audio e quelle audiovisive ma per certiaspetti anche le tecnologie multimediali investono molto, e spesso in modoesclusivo, su codici diversi da quelli dell'alfabetismo. Ma quel che è piùimportante e dirimente, per il ragionamento proposto qui, è che esse sifanno garanti di forme di esperienza e di conoscenza assai diverse rispettoa quelle codificate (e giudicate come esclusive) dalla scrittura (e dallatradizionale vocazione imperialistica che essa esercita negli spaziscolastici).
Provo a dirlo con una formula provocatoria. Il contributo più rilevante chele macchine cognitive offrono al cambiamento dei regimi collettividell'esperienza e della conoscenza non sta nella diffusione massiccia eintergenerazionale di quadri di sapere, quanto nella messa in discussionedi una concezione "macchinistica" (o meccanicistica) del sapere stesso.
E' il caso che mi spieghi. La stampa e la cultura testuale di cui si faportatrice ci hanno abituato a considerare ogni ambito di sapere come unospazio oggettivato o oggettivabile in un discorso scritto, o testo, a suavolta scomponibile nei suoi elementi costitutivi.
Mettere un individuonelle condizioni di acquisire questo ambito equivale a consentirgli discriverselo dentro, e ciò avviene perlopiù attraverso una pianificazionedelle attività di lettura, dalle porzioni più semplici a quelle piùcomplesse che compongono il sapere-testo (vale a dire il sapere inteso cometesto).
Così funziona la scuola, e in buona parte funzionano tutte le attività diinsegnamento formale: promuovendo un adeguamento meccanico ad un testo, chefunge da mappa e da ambiente concreto per la pianificazione-realizzazionedegli itinerari didattici e successivamente da garanzia per l'eserciziodelle eventuali attività di verifica ("capire se l'allievo ha capito"significa, in questo spazio, sottoporlo ad una prova di riconoscimento o diriproduzione testuale).
Dentro i media non albergano gli attributi formali della conoscenza e dellacomunicazione testuale. Al posto di una forma di sapere caratterizzata dachiusura, sistematicità, verticalità (nel senso di approfondimento)troviamo un sapere centrato sui principi dell'apertura, della reticolarità,dell'orizzontalità (nel senso di estensione): non meccanico bensì magmaticoe fluido, non analitico ma connettivo e quindi integrante, non totalmenteoggettivo o soggettivo ma contemporaneamente contaminato da istanze disoggettivazione e istanze di oggettivazione, non distaccante maproiettante.
Ciò che intendo sostenere qui è che un tale pensiero si presenta, da unpunto di vista formale, come assai vicino alla componente non alfabetica(non ancora alfabetizzata) del pensiero del bambino: quella che viene agitadal potere attrattivo, coinvolgente, immersivo del suono e dell'immagine inmovimento, quella che l'adulto sente come insidia e si propone di annullareattraverso l'imposizione sovente formalistica e violenta dell'alfabetismo.
Contattati in questo modo, i media si configurano comeespressione-legittimazione di un sapere ad un tempo primordiale epost-alfabetico (qualcuno direbbe post-moderno), pre-adulto e post-adulto(dove l'attributo "adulto" concide con il possesso pieno e consapevoledella strumentazione alfabetica), astratto ma non totalmente distanziante(in quanto garantito dal circolo immersione-astrazione-immersione).

Registriamo qui l'insorgere oggettivo di una soggettività che è alfondo di noi stessi e nello stesso tempo al di fuori di noi: unasoggettività non totalmente in-scritta nei dispositivi istituzionali delcontrollo e della persuasione (dalla famiglia alla scuola), ma affidataalle forme del desiderio veicolate dal mercato e dai media (Abruzzese); unasoggettività che trova specchio e rifrazioni molteplici nel rapporto diprofonda sintonia e materiale complicità che l'infanzia odierna instauracon le macchine della multimedialità (Maragliano). Ma assistiamo anche allanascita e alla diffusione (per vie il più delle volte nuove) di unamentalità ipertestuale che mette in movimento i presupposti dello schemaclassico di intendere l'esperienza, ogni tipo di esperienza, come "testo"(Bolter, Landow). 

 

Torniamo al bambino del presente

 

Torniamo dunque, con ottiche nuove, a questo nostro bambino delpresente, che ama i media, ama attornarsene, dialogarci, proiettarcisi,farne patrimonio di scambio con i suoi simili; e all'adulto che regisce alfenomeno con un carico esorbitante di preoccupazioni, la parte esplicita diqueste derivando dal desiderio di preservare l'infanzia (e l'idea di essadi un soggetto innocente) dai pericoli di inquinamento e disintegrazione, ela parte implicita venendo dal timore di dover mettere in discussione quelsistema di valori, di conoscenze e di pratiche istituzionali che dannolegittimità alla sua identità (di fatto, in profonda crisi) di adulto.
E' dentro a questo campo di nuove tensioni che dovrebbe maturare sia unanuova concezione dell'infanzia, più attenta al contesto storico attuale,sia la possibilità di vedervi riflessa quella parte infantile che funge dacomponente irriducibile (anche se materialmente rimossa) dell'identitàstessa dell'adulto: la componente che dovrebbe rendere il non bambino,comunque, un individuo curioso del mondo, proiettato verso il nuovo,disponibile al dialogo, dotato di un'intelligenza compassionevole e di unirrifrenabile gusto per il gioco.

"…La nevrosi non rinnega la realtà e semplicemente di essa non vuolesapere nulla; la psicosi invece rinnega la realtà e cerca di rimpiazzarla.Chiamiamo normale o 'sano' un comportamento che unisca determinati trattidi entrambe le reazioni, che al pari delle nevrosi non rinneghi la realtà,e che però poi, come la psicosi, cerchi di modificarla" (Freud).
Il sensodelle presenti note sta nell'invito ad assumere un'ottica "sana" neiconfronti dei media, sottolineandone il contributo ad un processocollettivo di normalizzazione del reale, ed evitando ogni pre-giudizio(questo sì nevrotico o psicotico) che attribuisca ad essi un ruolo diproduzione-riproduzione di reazioni nevrotiche o psicotiche.

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