Per riattivare gli altari
di Piero Coppo e Lelia Pisani
Da anni è attivo nella Provincia di Bandiagara (Mali) il Centro Ricerche Medicine Tradizionali (CRMT) frutto di un Programma della Cooperazione Tecnica italiana. Questa struttura è impegnata nello studio dei sistemi tradizionali di cura, nel loro sostegno e organizzazione nei vari campi della salute umana, e in particolare in quello che i medici chiamano dei "disturbi psichici". I risultati delle ricerche e degli interventi effettuati sono stati in parte pubblicati in Italia e all’estero.
Il presente articolo vuole rendere conto di una ricerca-azione effettuata negli anni 2002-2004 dai due Autori, anche per conto di alcuni soggetti collettivi locali e italiani.
Il contesto della ricerca-azione
Una delle attività del CRMT è il sostegno e l’organizzazione delle reti tradizionali di cura attraverso la promozione di dinamiche associative. Le nuove forme aggregative quali Associazioni locali di terapeuti tradizionali (AT) e la Federazione delle Associazioni Terapeuti Tradizionali di Bandiagara (FATTB) sono sempre più praticate perché consentono ai singoli terapeuti, costituendosi come soggetto collettivo legalmente riconosciuto, da un lato di aumentare il proprio potere negoziale nei confronti del sistema convenzionale della Sanità, delle istituzioni tecniche, amministrative e politiche, di eventuali soggetti esterni desiderosi di entrare in contatto o partenariato con il sistema tradizionale e dall’altro di contrastare la crisi che travaglia il mondo tradizionale della cura e il suo progressivo indebolimento.
I terapeuti tradizionali della zona, in prevalenza dogon, sono sottoposti infatti a una triplice pressione. La prima, è quella modernista che investe tutte le attività e i saperi tradizionali, svalorizzati dalla penetrazione delle nuove merci materiali e immateriali (ideologie, stereotipi). La seconda è specifica: i sistemi tradizionali di cura affondano le loro radici nelle cosmovisioni animiste e nelle pratiche relative, radici che le religioni monoteiste (in questo contesto la più rappresentata è l’Islam) soprattutto nelle loro declinazioni fondamentaliste impongono di recidere. La terza, quella più irresistibile, è strutturale ed economica. Il sistema tradizionale di cura si fonda sulla continuità trans-generazionale e sulla partecipazione delle popolazioni alla gestione dei luoghi di cura, spesso veri e propri santuari, sia attraverso offerte in natura (in particolare animali da sacrificare e cereali) sia attraverso la partecipazione collettiva alle grandi feste stagionali, soprattutto quelle di ringraziamento. Negli ultimi anni la continuità trans-generazionale è stata messa in profonda crisi da fattori economici (vista la sempre maggiore necessità di denaro, i giovani preferiscono andare, o sono inviati, in situazioni dove possono produrre maggiore reddito: a lavorare in città, a contatto coi turisti, eccetera) e culturali (veloci e profonde trasformazioni fanno sì che i giovani non riconoscano il valore del saper-fare dei vecchi e non siano disposti a sottoporsi alla lunga relazione di sottomissione e dipendenza richiesta dalle formazioni-iniziazioni). Ne consegue che i vecchi sono soli e progressivamente impotenti. Un anziano guaritore commentava le difficoltà domandando: "Chi acchiapperà il pollo per il sacrificio, se il figlio non è al fianco del vecchio padre?". Le offerte ai santuari si fanno rare e cambiano di natura: un numero sempre maggiore di persone rifiuta di contribuire con animali ai sacrifici necessari al mantenimento di altari (Adottiamo la traduzione proposta da M. Kervran (1993) del temine òmbòlò, che significa nello stesso tempo l’oggetto che viene usato come mediatore verso gli invisibili, gli interdetti che gli sono collegati e la disgrazia che può colpire una persona se infrange tali interdetti. La traduzione comune è fétiche. Tale termine che deriva dal portoghese feitiço, è stato coniato dagli esploratori e mercanti di schiavi portoghesi e ha un senso spregiativo(cfr. B. Latour 1996). Ambaeré André Tembely, catechista e collaboratore di M. Kervran e altri intellettuali dogon propongono "altare ricettacolo" sottolineando l’aspetto che più lo rende simile all’altare delle chiese cattoliche) che le religioni considerano diabolici.
In questa situazione, i centri di cura per ciò che i medici chiamano "malattie psichiche", malattie che più delle altre sono legate alla cosmovisione e al contatto con le dimensioni spirituali e invisibili, stanno perdendo forza e disattivandosi, in parte per le ragioni sovracitate, in parte per la difficoltà stessa delle cure e la responsabilità che esse comportano. Oggi un guaritore da solo non può ospitare nella sua casa un malato grave che richieda continua sorveglianza come era uso fino a pochi anni or sono. Racconta A. S., "guaritore di follia" vicino a Bandiagara, che alcuni mesi fa stava curando un malato che aveva ospitato nella sua casa. Quando quest’ultimo aveva iniziato a star meglio aveva allentato la sorveglianza e il paziente era fuggito. Arrivato in città aveva rubato una motocicletta e poco dopo l’aveva sfasciata in un incidente. Il giudice ha allora convocato il guaritore chiedendogli di pagare i danni: il malato era affidato a lui, e avrebbe dovuto avere un guardiano per impedirgli di fuggire. Questa idea è nuova; fino a qualche anno fa la responsabilità degli atti del malato era della famiglia, non del guaritore. Stando così le cose, molti terapeuti tradizionali pensano che i benefici delle cure intensive a gravi "malati psichici" ospitati nei loro "santuari" non compensino la fatica e i rischi e che addirittura questa attività stia diventando impossibile per la mancanza di aiutanti e coterapeuti al loro fianco; e la abbandonano. Poiché nessun servizio di Salute Mentale è attivo nella regione, e neppure è previsto, ciò significa che i "folli" sono abbandonati a loro stessi e alle loro famiglie. Il numero dei vagabondi psicotici che vivono nei pressi dei mercati aumenta infatti ogni anno, come il numero degli incatenati nei recessi delle case di famiglia.
Questa situazione impone la ricerca di soluzioni adattate e sostenibili, ed è in questa prospettiva che è stata eseguita la presente ricerca-azione.
Riattivare gli altari: il quadro istituzionale
Uno dei santuari di cura per disturbi psichici si trova a circa tre ore di pista da Bandiagara, nel villaggio di Dono Ban, Comune di Ondugu (Fig. 1), in area culturale Tommo, una tra le meno studiate (lingua locale Tommo-so - Adottiamo in questo articolo la grafia in uso in Mali nei corsi di alfabetizzazione funzionale, semplificata. In particolare "ò" si legge come una "o" aperta, "e " indica una "e" aperta, "g" va sempre letto "gh" e "h " corrisponde a un suono nasale "ng".).
E’ uno dei quattro più importanti luoghi di cura della Provincia, ma la sua operatività è da molto tempo ridotta al minimo. Oggi, dicono i guaritori, le cure che si trovano a Dono Ban possono migliorare il disturbo, ma non guarirlo. Il responsabile del santuario, Ambaindé Tembiné, è un vecchio di circa 80 anni, presidente della locale Associazione di Terapeuti Tradizionali che aggrega una quindicina di guaritori di varie specialità. Nel corso di una riunione della Associazione alla quale nel 2002 abbiamo partecipato, il Presidente della FATTB si è fatto portavoce, a nome della Federazione, di una richiesta all’Associazione italiana di cui facciamo parte (Organizzazione Interdisciplinare Sviluppo e Salute, ORISS): aiutare Ambaindé a riattivare gli altari del santuario in modo da restituire al luogo la piena operatività nella cura della follia.
Nel corso di due incontri successivi abbiamo discusso con Ambaindé e Ambakanee Tembiné, alla presenza dei loro "fratelli minori" e del Presidente della FATTB, le modalità pratiche della collaborazione che avrebbe portato alla riattivazione degli altari.
La richiesta a noi in quanto rappresentanti di ORISS era dunque partita dal presidente della FATTB e fatta propria dalla ATT di Ondugou. Nel corso delle riunioni della ATT era stato concordato che avremmo portato in Italia la richiesta, e Ambakanee aveva aggiunto che avrebbe voluto che, insieme agli altari di Donno Ban, fosse riattivato anche il suo, una piccola chiesa in rovina, della quale era il solo guardiano (del gruppo iniziale di quaranta cattolici era rimasto solo lui). Ci eravamo impegnati allora a definire con loro le modalità pratiche del lavoro in modo da portare in Italia un progetto dettagliato.
I due incontri di concertazione si sono svolti nella casa di Ambaindé a Dono Ban. ORISS avrebbe dovuto coprire alcuni costi, proprio quelli che avevano impedito al gruppo locale di riattivare gli altari, e che ammontavano a circa 490 Euro. Servivano per comprare gli animali da sacrificare: quattordici capre ben nutrite (otto femmine che avessero partorito almeno una volta, e sei maschi); due quintali di sorgo, quattro di riso. Inoltre coprivano i costi dei viaggi del logista di ORISS in Mali da Bandiagara a Ondugu per seguire i preparativi e partecipare alla cerimonia. Il denaro necessario per la cerimonia doveva arrivare per tempo: bisognava mettere a mollo il cereale per la birra, farlo germinare per circa dieci giorni e poi pestarlo nei mortai; quindi almeno un mese prima della data fissata occorreva che la somma fosse disponibile in loco.
I terapeuti avrebbero contribuito con quattro tra galline e galli per ogni altare, sesamo, olio, miele, biscotti, foglie di cipolla, spezie per la salsa, peperoncino e sale. Poi ci sarebbero stati altre galline e galli, offerti dai famigliari, il cui numero era impossibile precisare.
"Non so se tutti quelli della mia famiglia paterna contribuiranno con polli, perché alcuni sono entrati nella religione musulmana. Dobbiamo invitarli, e se rifiutano sono loro ad assumersi la responsabilità del rifiuto. Altri, contribuiranno dando denaro". (AT, 05.02.04)
Visto la formalità e la peculiarità della richiesta del Presidente della FATTB abbiamo portato la discussione sul fatto che il nostro sostegno non poteva che essere per l’Associazione locale dei terapeuti e che se il progetto di riattivazione degli altari era davvero da loro considerata una priorità potevamo farci portavoce di questa esigenza. Il Presidente della FATTB sollecitandoci non dimenticare l’altare di Ambakanee ci ha offerto l’occasione di attivare un confronto sui rapporti tra guaritori animisti, musulmani e cristiani. Il progetto doveva dunque includere anche un contributo per il restauro della chiesetta per farne uno spazio di incontro e discussione tra le diverse religioni in modo da favorire la convivenza pacifica in un contesto multireligioso. Abbiamo infine chiesto di poter partecipare e documentare la cerimonia, se possibile, anche in video e foto. Non ci sono stati problemi da parte loro, anche se alcuni momenti e luoghi sarebbero stati vietati. Per chiudere la concertazione, restava solo, per noi, da definire almeno approssimativamente l’epoca in cui sarebbe avvenuto il rito. La data viene allora fissata: il primo dicembre 2004.
Dopo una prima valutazione la richiesta è stata portata al Direttivo di ORISS che ha ritenuto l’azione interessante perché avrebbe permesso di raccogliere informazioni sul funzionamento, la dismissione e la riattivazione dei luoghi di cura della "malattie mentali", elementi preziosi per la prevista formulazione, da parte di ORISS, di un Progetto Provinciale di Salute Mentale in collaborazione con la FATTB, il CRMT e il Servizio Nazionale di Salute Mentale.
Se l’avvio della dinamica è stato quindi opera di due soggetti collettivi (FATTB e ORISS) attraverso i loro rappresentanti, essa è poi stata concordata e precisata con l’Associazione locale dei Terapeuti Tradizionali, con il responsabile stesso del santuario, Ambaindé, e il suo aiutante principale, Ambakanee.
In questo articolo intendiamo presentare gli elementi raccolti nel corso della fase preparatoria la riattivazione degli altari.
La storia del santuario
Le informazioni circa la storia del santuario sono state raccolte attraverso interviste al Presidente della FATTB Alusseini Baba Yalcouyé, al responsabile attuale del santuario, Ambaindé, al suo aiutante Ambakanee, ad alcuni membri della famiglia trasferitisi a Bandiagara (Amadu Tembiné, terapeuta e guardiano della sede della FATTB e Seydu Tembiné, terapeuta).
Il santuario di Dono Ban era nel pieno della sua forza e conosciuto in tutta la zona quando il responsabile era Jon Wanama (jon = colui che cura). Il padre di Jon Wanama, Ambaba, curava, ma il suo sapere era limitato: trattava la lebbra e alcune malattie minori. Jon Wanama ha ereditato il sapere del padre e l’altare relativo; ma è su di lui che è venuta la "conoscenza grande", quella che ha dato rinomanza a Donno Ban. Jon Wanama era il nonno dell’attuale responsabile, Ambaindé.
Grazie alla "forza" di Jon Wanama, Dono Ban era celebre nel paese dogon, come testimonia il Presidente della FATTB.
"Quando sono nato, verso il 1959, questa era una casa di cura (jon gine ), tutti ne parlavano. Mio nonno veniva qui per contribuire ai sacrifici sugli altari (òmbòlò nò mò di: per dare da bere agli altari). All’epoca posti come questo erano numerosi nel territorio dogon, oggi molti sono stati abbandonati. Gli altari di Dono Ban erano celebri per la cura della follia, ma se a qualcuno era stato somministrato il dugo(veleno, stregoneria) veniva qui dove con opportuni rimedi lo vomitava. Se una donna moriva in gravidanza, erano gli uomini di questa famiglia che venivano chiamati per raccogliere gli effetti (genu) delle donne morte e purificare le loro case. Qui ci sono quattro altari diversi. In più, c’è l’altare dege bála ("oggetti raccogliere") per poter manifestare il binu. I benjine dei dintorni venivano qui per partecipare alla cerimonia che aveva luogo ogni anno". (ABY, 10.11.04)
E’ Ambaindé Tembiné a raccontare la storia della famiglia.
"Ambaba (il bisnonno) conosceva la cura della lebbra, ma la vera conoscenza è venuta su Wanama. Il sapere è venuto col binu, Wanama era un benjine . Il binu è sceso (sugòde) su di lui all’improvviso, mentre era seduto (dannya), improvvisamente si è messo a dissotterrare gli oggetti, li raccoglieva qua e là. Tutti gli altari sono stati trovati da Wanama (òmbòlò wo belade: altari a lui trovare) ed è attraverso di lui che il sapere è entrato nella famiglia.
E’ stato un altro benjin a fissare Wanama (won dandu). Quando il binu viene sulla persona, bisogna distinguerlo dalla follia (yeme - yeme). La persona raccoglie ogni tipo di oggetti: veleni (dugo) e rimedi (jon). Se tiene i dugo, impazzisce; fino al momento in cui le cose non vengono separate il rischio è di impazzire. E non è la persona stessa che può fare la separazione, sono gli altri che vengono e dividono: questo è dugo, bisogna sbarazzarsene, questo è jon e si può tenere.
Quando la persona comincia a raccogliere gli oggetti, sono gli altri benjine che vengono a distinguerli e a fissare la persona. Quelli che hanno posato Wanama sono morti. I benjin oggi sono diminuiti." (AT, 10.11.04)
Così Ambakane descrive la crisi che ha aperto a Wanama la via del binu.
"Un giorno, nel corso di una festa dove la gente danzava, Wanama è salito su una roccia per sedersi. D’improvviso, mentre era tranquillamente seduto, qualcosa è venuto sulla sua testa. Allora le sue gambe sono divenute pesanti e ha cominciato a piangere. Allora si è arrovesciato ed è caduto, mentre il binu saliva sulla sua testa"( Kide mi dagu danna mo ule wò onone anemone gile m kane. Mi dagu piede ga similia mi sua ne binu ku mo ne u le. Letteralmente: "Cosa seduta testa a lui salita dopo di ciò le sue gambe pesanti ha fatto. Essendo seduto aveva intenzione di piangere arrovesciato, contorcersi disceso; così il binu sulla testa è salito".. AMB, 10.12.04)
Secondo Amadou Timbiné, che è stato da giovane assistente del benjine ,
"Quasi tutte le persone che manifestavano il binu sono morte. Il binu viene sotto forma di malattia, di follia. Quando una persona è colpita da follia o da malattia o da febbre (wobu) metti in opera tutti i rimedi che conosci. Se non funzionano chiami gli indovini (ku ma wein "quelli che vedono la testa" degli altri, ciò che è sulla persona). Sono gli indovini o gli altri binu che possono dire se si tratta di follia, malattia, obinu e in quest’ultimo caso come fare per fissarlo, posarlo. Una volta che è chiaro che si tratta del binu bisogna prima di tutto purificare la testa con la scorza di pe lù (Khaya senegalensis) poi si passa alla purificazione del corpo (godu jalama). Si impongono anche degli interdetti: non deve fare questo, non deve fare quello.
La persona che ha il binu, fugge nella boscaglia. Una volta che è andata nella boscaglia, può entrare nell’acqua, nelle grotte, può fare qualsiasi cosa: è fuori della società, è fuori di sé. Al ritorno dalla boscaglia, quello che lo aspetta per "posarlo" ha un pezzo di pe lù: la persona arriva, colui che lo aspetta gli fa un giro attorno poi stacca coi denti tre pezzetti di corteccia di pe lu e li sputa mormorando incantesimi. Così il binu comincia a discendere (binu sugòde).
Quando il binu lascia la persona è tranquilla; ogni tanto il binu torna su di lei.
Ma il binu resta binu, a condizione che non si mescoli (waanieliyo) con gli interdetti chiamati ta, perché in questo caso diviene normale follia. Oggi, pochi vogliono diventare benjine : per le religioni, chiunque segua la via del binu è kafiri, infedele, è fuori dalla religione ed è dannato. Nel mondo di oggi, se qualcuno manifesta i segni del binu invece della via del binu (binu odu: "binu sentiero, via, cammino") gli si danno medicine e così diventa follia che non potrà mai guarire. Oggi non c’è quasi più nessuno che possa diagnosticare il binu è per questo che è finito". (AMT, 12.11.04)
Ambaindé ritiene che Jon Wanama abbia potuto costituire il santuario grazie alla speciale conoscenza datagli dal binu.
"Wanama ha installato quattro altari per la cura delle malattie ed è diventato Jon Wanama (Wanama il guaritore). Uno, quello per la cura della lebbra lo ha ereditato dal padre, gli altri li ha trovati col binu. Yapilin ("donna bianca") era qui ben prima di lui, era qui con i primi antenati che hanno abitato il luogo. Poi quando c’è stata la grande siccità (ganda yamai: "mondo guastato") e se ne sono andati, prima di partire hanno sbarrato l’altare. Quando Wanama ha manifestato il binu, sapeva dove trovare l’altare e l’ha dissotterrato.
Gli antenati erano venuti dal Mandé e avevano portato insieme Na e Yapilin. Il nome Yapilin è incompleto; solo dicendo Na (madre) tutto è completo. Yapilin da solo non ha molta forza; sono i benjine che hanno aggiunto Na. Na, significa che tutti gli oggetti (genu), tutti i materiali sono completi. Na è conservato nelle grotte, non sta all’aperto e deve restare fuori dalla vista. La differenza tra Yapilin e Na è che una donna che muore dopo aver partorito senza che il sacco sia uscito, è per Yapilin. Mentre Na, è per una donna morta senza aver potuto partorire. Per una donna che muore in stato di gravidanza, il genu è diverso da quello di una donna che muore avendo partorito: òmbòlò den de n (i due altari sono diversi).
Wanama è nato a Ondugu, ha ereditato dal padre Melegen Die ("Melegen grande"), l’altare per la cura della lebbra, poi quando ha ricevuto ilbinu ha dissoterrato gli altri tre altari; Dege, Melegen dagi ("Melegen piccolo") e Na.
Dege è come la radio: il guaritore mette le dege e i morti vengono e parlano; ad esempio se una persona perde una persona cara e ha bisogno di parlarle viene e le parla, dege trasmette il messaggio come la radio. Melegen e Yapilin curano la follia (wede), altre malattie, e gli spiriti. Melegen Die cura la lebbra (dumbu).
Wanama ha trasmesso il suo sapere al figlio Anjelu; quando è morto, Anjelu avrebbe dovuto sostituirlo ma si è confuso (lighidyiai) con igenu e ne è morto.
All’epoca ero in esodo, quando sono tornato non sapevo come gestire tutto ciò. Quando ero partito per l’esodo, i fratelli erano qui ma non potevano sostituirmi. Dovevo tornare per prendere il posto del padre.
Ero a Niono; ero partito nel ’58. Ero partito che c’erano il padre e il nonno, e non ho visto i loro cadaveri, sono morti mentre ero via. Quando sono tornato, ho preso a fare quello che sapevo. Ma i fratelli paterni che erano qui non hanno voluto aiutarmi a sostenere gli altari perché erano entrati nella religione. Non ho voluto lasciare e ho continuato a fare quello che potevo, quello che mi avevano insegnato il padre e il nonno, ma senza poter riattivare gli altari.
Il padre si era confuso, non so come, ma quando si assumono certe responsabilità, ci sono cose che non si devono fare; se le si fanno, è pericoloso per chi le fa. Ci sono degli interdetti che vanno rispettati; se non li rispetti, gli yimen, gli antenati, sono pronti a colpire e a portarsi via la persona. Ci sono cose che non puoi mangiare, non devi salutare una donna mestruata, ci sono animali che se li uccidi non puoi toccarli. Di tutti i fratelli sono l’unico che continua. Qui a Dono Ban ci sono i fratelli minori e gli amici. Sono il più vecchio, il solo a rappresentare tutti gli altari. Gli altri sono entrati nella religione e hanno paura perché gli altari possono uccidere. Ci sono degli interdetti che anche loro, i fratelli, devono rispettare. Sono nella religione ma qui non pregano e mandano le loro donne nella casa delle mestruazioni. Hanno paura di morire". (AT, 10.11.04)
L’assistente di Jon Wanama è Ambakanee, l’unico "cristiano" di Ondugu, custode di una piccola cappella in rovina. Già musulmano (un altro suo nome è Mussa) si dichiara cristiano per "fede" (kinde: cuore, fegato, sede dei sentimenti) ma non è battezzato e da anni non ha contatti con la missione cattolica di Bandiagara. Il suo nome cristiano è Moïse. Secondo lui, il binu è venuto su Wanama al tempo della guerra di Kasa (1913).
Ambakanee è figlio di Pamo, una delle otto figlie di Wanama. Quando la nonna di Ambakanee era incinta di Pamo, il binu aveva appena cominciato a manifestarsi su Wanama. Tre anni più tardi, lo stesso giorno, è stato celebrato il battesimo di Pamo e la fissazione del binu. Il nome Pamo significa: "affido al binu questo bambino". Nello stesso giorno, hanno rasato la testa al padre e alla figlia.
Ambakane è un guaritore ma non ha ereditato il saper-fare terapeutico nel villaggio paterno (suo padre è di Ondugu, si chiamava Yama Odu e non era un terapeuta) ma da parte materna. Così la sua conoscenza è limitata: conosce le piante e i rimedi, le parole sacre e come mantenere gli altari ma non può esserne il responsabile.
Alla morte di Anjelu a Dono Ban c’era solo il figlio minore Seydu, che allora era molto piccolo. La gente, forse anche a causa della disgrazia che aveva colpito la famiglia con le due morti dei responsabili degli altari a pochissima distanza, ha detto che il santuario era finito ma Ambakane ha detto: no! le cose continueranno.
Ambakane racconta la sua opposizione alla fatalità e come ha agito per far si che le cose continuassero. Il cugino Ambaindé era a Niono e Seydu, il minore tra i cugini, era molto piccolo. Nondimeno ha cercato di spingerlo spiegandogli come fare, per lunghi anni aveva assistito Wanama nel suo lavoro, conosceva i gesti, le parole e le piante. Seydu ha rifiutato il suo aiuto sostenendo che lui era il figlio del guaritore, Ambakane non era della stessa famiglia e quindi non poteva pretendere di insegnargli niente. Ambakane ribatteva che avevano lo stesso nonno, che era lui che lo assisteva, che raccoglieva le piante, che curava la follia. Lui era l’unico, tra quelli rimasti, a sapere come fare. La sola cosa che non poteva, ciò che gli era vietato, era prendere gli altari e portarli nel suo villaggio paterno, non gli appartenevano, erano del padre di Seydu, era Seydu che li aveva ereditati. Lui conosceva solo le piante e gli incantesimi da utilizzare. Ma prendere il posto del figlio di Anjelu, sarebbe stato per lui un disonore (gire ah i: "vergogna degli occhi").
Poi, come a voler sottolineare che comunque i poteri passano anche per via materna, ricorda un episodio che riguarda la madre. Wanama doveva partecipare a una festa di cacciatori del Wazuba. Lui non poteva andare e aveva inviato la figlia con la sua lancia, perché lo rappresentasse alla festa. Tutti i villaggi che partecipavano all’organizzazione avevano contribuito con birra e cibo. Quando è stato il momento di iniziare, sono stati citati i nomi di tutti i partecipanti ma non quello di Wanama e del suo villaggio. Allora Pamo, grazie a un potere che aveva, ha sigillato tutti i recipienti di cibo, nessuno riusciva ad aprirli.
Il capo delegazione sorpreso che nessuno mangiasse o bevesse ha detto: vi abbiamo dato il benvenuto, avete da mangiare e da bere, ma tutti i piatti sono chiusi. Che cosa aspettate? Non ci sono uomini tra voi per iniziare?
Ma nessuno riusciva a sollevare i coperchi, impossibile mangiare e bere. A un certo punto uno tra i presenti ha detto: ecco, avete trascurato la donna che è seduta laggiù; non le avete dato la parola, non l’avete onorata né accolta, e adesso siamo in questa situazione.
La delegazione ha capito, sono andati a pregare Pamo, ma lei ha detto che non ne sapeva nulla. Gli uomini hanno insistito e le hanno chiesto scusa, allora Pamo ha detto che li perdonava e che andassero pure. Quando sono tornati al luogo della cerimonia i piatti erano aperti.
Ambakane con orgoglio sostiene che la storia è conosciuta in tutti i villaggi della zona Tommo. E conclude: "tutto quello che so l’ho imparato qui, qui sono nato, cresciuto, qui sono stato circonciso, qui mi sono sposato". A Bandiagara, Amadu Tembiné ci conferma la storia.
Quanto all’errore cerimoniale che ha causato la morte di Anjelu poco dopo quella di Jon Wanama (quest’ultimo era deceduto con le prime piogge; Anjelu prima della raccolta), sembra sia legata a un sacrificio di sangue che non avrebbe dovuto aver luogo.
"Dopo la morte del vecchio, è stato ucciso un animale su un altare e questo ha portato la disgrazia. Hanno portato qui un malato di follia (wede — wede); per lui hanno sacrificato un animale al contrario (dulò) e per questo il padre di Ambaindé è morto. All’epoca Ambaindé era a Niono e qui c’era suo padre, Anjelu. Poiché i Meleken curano ogni tipo di follia, gli hanno detto di sacrificare una capra, perché se non lo faceva non si poteva curare. Il proprietario dell’altare (Wanama) non c’era, era morto, e loro hanno ucciso una capra, e per questo l’òmbòlòha colpito il padre di Ambaindé uccidendolo. Da quando è morto Anjelu è stato tutto abbandonato, tutto è stato sbarrato. Non potevamo sopportare tutti interdetti e così abbiamo lasciato. Tutti i guaritori si sono riuniti qui, è stata fatta la birra e hanno bevuto, hanno riunito tutti gli oggetti del binu e li hanno portati in un luogo che è stato sbarrato; poi hanno giurato maledicendo a morte colui che tra loro sarebbe tornato sul posto o avesse parlato. Nessuno di loro tornerà a prendere gli oggetti o dirà dove sono nascosti. Chi li troverà è perché il binusarà montato sulla sua testa". (AMB, 04.02.04)
Gli altari
Dono Ban è un piccolo borgo: i suoi 53 abitanti abitano una quindicina di case in pietra e argilla poste su una piccola collina rocciosa a qualche chilometro da Ondugu. Alla base della collina, all’ingresso del paesino e in una grotta poco distante sono disposti gli altari (Fig. 2).
Melegen Die cura la lebbra e la tosse; Melegen dagi cura la follia (wede) così pure Yapilin; Na protegge il lignaggio dalle calamità e custodisce i resti delle donne morte di parto o in gravidanza e i loro "bagagli" (genu). Dege è il più forte, è lui che sostiene il lavoro di tutti gli altri; è come se tutti i rimedi sgorgassero da dege.
"La differenza tra Yapilin e Wewe è che per Yapilin sono le Madri (Na) che salgono sulla persona provocando la follia. Delle Madri puoi sentire il rumore e le loro parole; se le vedi sei finito. Yapilin si manifesta come Wewe, ma in quel caso è Na che sale sulla persona che manifesta Yapilin. Na e Yapilin sono la stessa cosa. Si può fare la differenza con la divinazione, ma anche chi cura vede la differenza. Per curare Yapilin, bisogna offrire una capra femmina e una gallina; Melegen vuole un capro e un gallo. Che si tratti di Yapilin o Wewe, i malati portano una capra e viene loro rasata la testa. Gli altari proibiti alle donne sono Na e Dege, degli animali sacrificati a Dege le donne possono mangiare la carne rossa (nama banu), ma assolutamente non le interiora (fegato, cuore, intestini).
Il Dege rifornisce (obòda) tutti gli altri altari. Si direbbe che tutte le cure escano dal corpo del Dege. ". (AT, 05.02.04)
Dege è all’ingresso del villaggio. Ai piedi della roccia, un piccolo tempio a base circolare con la porta in legno chiusa nasconde l’altare. È l’altare più antico. Seguendo sulla sinistra la base della collina, in un anfratto in parte nascosto da un muretto di pietra, si intravedono ossa, parti di animali seccate, parti di vegetali; dietro il muretto c’è l’altare Meleken Dagi che cura la follia. Poco più in là salendo sulla collina, una pianta nasconde l’altare del Binusbarrato (te -te h e di: impastoiare, impedire, ostacolare). Dall’altro lato della collina, in un anfratto, sotto la casa di Anjelu, si trova l’altare Melegen Die .
Dall’altra parte della valle, sulla collina di fronte, nascosto tra i cespugli, dietro un albero si trova l’accesso alla grotta dell’altare Yapilin e Na. Questi sono gli altari che curano, ma nel villaggio ve ne sono altri: a sud in un anfratto della roccia c’è Anadugo, l’altare che chiama le piogge e nella boscaglia a pochi minuti di cammino un albero di tamarindo e uno di selepili (Boscia angustifolia) servono per la fissazione delle malattie e un cespuglio di guzopili(Combretum glutinosum) nato su un termitaio nasconde un piccolo altare. Per terra sono depositati le offerte: cauri e sangue rappreso, a qualche metro moltissime piume di pollo. Ci è stato indicato come l’altare contro gli attacchi di stregoneria. Poi, fuori da Dono Ban, c’è l’altare dama ke inje ombolo: " tutti i villaggi appartengono a lui": a quell’altare fanno riferimento gli undici quartieri che costituiscono Ondugu.
"Melegen Die è l’altare lasciato dai padri. Gli altri sono stati trovati da Jon Wanama. Quando faceva i sacrifici, il primo altare su cui sacrificava era quello dei Melegen Die ; poi, sui suoi personali. Prima si saluta l’altare del padre, poi quelli personali. All’altare del padre non bisogna offrire molto". (AT, 05.02.04)
Ereditare gli altari del padre
Quando un uomo anziano muore, soprattutto se si tratta di una persona importante, vi sono vari riti da compiere. Innanzitutto va eseguito il ge m (dagni indonno so), il rito che libera il morto, aprendogli la via che lo trasformerà in antenato. Si prepara la birra, si convoca la gente, ci sono danze, e poi va fatto il sobo gundo (letteralmente: infila il coltello e toglilo) sacrificando lo stesso tipo e numero di animali che il padre aveva sacrificato alla morte del suo. Dopo aver fatto questo rito, il figlio può entrare nella casa di famiglia, prendere i campi, ereditarne i beni, altari compresi. Ma prima di divenire responsabile degli altari, deve fare un’altra cerimonia simile. La prima era servita per liberare il padre, la seconda serve per installare il figlio. Tra l’una e l’altra può passare anche molto tempo: il figlio deve trovare le risorse necessarie (se mbe , la forza) per eseguire la seconda cerimonia. Quando è il momento, avendo riunito birra, animali da sacrificare dello stesso numero e qualità di quelli che il padre sacrificava i giorni dell’Age (tra i montoni, spesso sono indicati quelli bel kenne, nati con un testicolo solo), il figlio fa la grande festa col subo gundo relativo. Solo in seguito a questa seconda cerimonia, il figlio può operare come faceva il padre e utilizzare gli altari.
Per quello che riguarda Dono Ban, la parte di Jon Wanama è stata eseguita (ge mu, dannyi). Ora occorre eseguire il secondo sobo gundo, ed è per questo che hanno chiesto il nostro aiuto: Ambaindé, abbandonato dai fratelli, non ha potuto fino ad ora raccogliere le risorse necessarie per effettuare il rito. Occorre prima di tutto sacrificare una piccola capra (e ne ) nel luogo dove sono collocati gli altari. E’ il magine (una sorta di cugino-alleato della famiglia, una delle figure dell’organizzazione sociale dogon, che non è attaccabile dagli òmbòlò della famiglia Tembiné) che deve compiere il sacrificio che ha come scopo la purificazione del luogo: uccide la capra non sugli altari, ma vicino ad essi. Poi trascina via il corpo pronunciando le formule si rito: tutto ciò che di contaminato, mescolato, confuso si trova sugli altari verrà in questo modo trascinato via. Il posto per il nuovo arrivato è purificato, pulito:jalu gondu (letteralmente: spazzare e togliere). Poi c’è il rito di se ge re mo, "l’accoglienza": vengono uccisi gli animali del secondo subo gundo, e il nuovo venuto si installa nel posto purificato. A questo punto sarà possibile per il nuovo venuto utilizzare gli altari; e ogni anno, il giorno di Age, verrà ripetuta la cerimonia di installazione, così come il padre faceva, sacrificando sugli altari gli animali portati dai malati, come ringraziamento per le cure ricevute.
E Amadu sottolinea:
"Tra i Dogon, quando qualcuno muore, dopo aver fatto i funerali si possono riattivare gli altari di cui era responsabile. Quello che è successo, è che Ambaindé e gli altri hanno potuto fare i funerali ma dopo non hanno avuto la forza di riattivare gli altari e per questo li hanno abbandonati. Quando Ambaindé era a Niono, Seydu era nel suo villaggio di Donno Ban. Quando il padre è morto, Ambaindé è tornato da Niono, e Seydu ha fatto i bagagli ed è partito per Bandiagara. Ambaindé allora è restato solo e non ha trovato la forza per riattivare gli altari. Curano grazie al sapere che hanno ereditato da Wanama, è con questo che Seydu guadagna il suo cibo a Bandiagara e Ambaindé a Dono Ban. Ora possono col vostro aiuto riattivare gli altari per curare la follia, ma nessuno può riattivare il binu, che appartiene solo a chi l’ha. Quando Jon Wanama è morto, dopo aver fatto le cerimonie rituali, il binu è stato nascosto (banye : "non possono prendere e sollevare") in una grotta. Il binu è molto diverso dagli altari che curano. Possono passare decine di generazioni, e i discendenti non hanno idea di dove si trovi il binu e poi un giorno lui può manifestarsi su una persona che lo trova in una grotta. Non è quindi possibile riattivare unbinu. E’ qualcosa che può tornare nella famiglia, qualcuno che non è ancora nato un giorno manifesta il binu e lo trova. Ma una volta che avranno riattivato i loro altari, potranno curare bene, come prima. Quando Wanama è morto, due persone che erano presenti hanno giurato sul latte della madre, e sulla cintura dei pantaloni del padre, nel nome di Dio e dell’altare che può uccidere, che non diranno a nessuno dove si trova il binu. Seydu e un altro di Ondo-da sono usciti la notte per nasconderlo. Sarà quello su cui tornerà il binu a trovarlo". (AMT, 12.11.04)
L’attività attuale di cura
Le sorgenti del potere terapeutico si trovano dunque negli altari di Dono Ban.
"E’ Ambaindé che cura, e quando gli altari saranno riattivati (òmbòlò denyiede: altare alzato, sollevato) il solo che potrà curare davvero sarà Ambaindé. Gli altri possono distribuire rimedi in polvere a Bandiagara ma le vere cure si fanno qui. Anche se c’è chi improvvisa le cure dicendo ho i rimedi, le vere cure sono qui, perché sono gli altari che possono guarire. Girovagando per la boscaglia si possono trovare rimedi ma le cure sono qui. Un tempo i malati arrivavano portando una capra che veniva sacrificata sugli altari prima che iniziassero le cure: alcuni erano curati dai Melegen, altri da Yapilin, perché ci sono due tipi di malattie e quindi anche due altari. A volte sono i Seytan che salgono sulla persona e provocano la follia, ma c’è anche la follia inviata dalle persone. Ma anche se fosse inviata da Dio è l’òmbòlò che può combatterla.
Oggi, se un malato viene, lo curiamo come al solito, con i rimedi che conosciamo. Ma non possiamo sacrificare sugli altari". (AMB, 14.12.04)
Chiediamo quanti pazienti sono venuti negli ultimi sei mesi. Ambaindé ci dice che alcuni avevano detto che sarebbero venuti per le cure, ma poi non l’hanno fatto, e d’altronde lui era molto occupato dal lavoro nei campi. L’ultimo malato di follia che hanno curato è un uomo di Ondugu emigrato in Costa d’Avorio; è stato qui per due anni e se ne è andato due mesi fa.
In passato curavano anche l’epilessia (kili-kili) ma le cure per questa malattia non sono molto efficaci, solo a volte ci riescono. Ricordano un caso di molti anni fa in cui era stato fatto il sacrificio Yeleen Amba, e poi le scarificazioni asciugando il sangue con una tartaruga che liberano nell’acqua, e poi hanno iniziato la cura. Il malato era già caduto nel fuoco e si era bruciato una mano; ma poi è guarito, è andato a Bamako, si è sposato e ha avuto figli. E’ morto poco tempo fa.
Curano say (itterizia) ma solo agli esordi: "quando la persona è molto presa è difficile". La tosse, invece, è il loro lavoro, e la curano col Melegen Die , l’altare dei padri.
Qui possono curare gamma, la tosse, la follia, gli avvelenamenti dovuti a stregoneria, yeme—yeme: una malattia che assomiglia alla follia ma non lo è. Tutti i rimedi provengono dal nonno e dal padre di Ambaindé, per ognuno c’è un luogo dove andare a "pregare".
A Dono Ban si trova anche la necropoli; in due grotte separate ma vicine sono sepolti i "morti alla rovescia": sana kumo è la grotta raccoglie i corpi dei morti colpiti dal fulmine e Na kumo, quella delle donne morte in gravidanza o di parto.Sembra che fin dalla creazione di Ondugu gli abitanti di Dono Ban avessero il "diritto" di occuparsi dei riti funerari di questi morti; e anche oggi che, dalla morte di Jon Wanama, gli altari sono dormienti, sdraiati sono i soli a poterlo fare. D’altronde, per Yapilin, se un malato viene non si deve sacrificare sull’altare, ma le benedizioni vengono chieste a distanza.
A Ondugu vi è un altro altare Yapilin ma accoglie le donne che muoiono durante il periodo puerperale (35-40 giorni) e a Ningari recentemente è stato risvegliato l’altare alle Madri, ma da sempre i malati di Ningari vengono qui, e mai l’inverso.
Ambaindé dice che le donne della zona regolarmente vengono a Dono Ban per affidarsi all’òmbòlò di Yapilin. Lo fanno di nascosto perché sempre più la gente si allontana dalla tradizione, è per questo che vengono di notte all’altare, come delle clandestine, vestite come se andassero a fare legna, con i polli per il sacrificio nascosti nei teli. Sono entrate nella religione, ma non hanno abbandonato la tradizione, vengono a pregare il buon dio di far loro del bene. Vengono di nascosto perché la religione proibisce i tòro (altari, in lingua fulfulde); prima vanno a fare la divinazione e quando l’indovino ricorda loro che i padri e i nonni erano legati a Yapilin, e che nessun altro può proteggerli o risolvere i loro problemi, allora vengono con il sacrificio. Anche ieri una donna è venuta portando due polli legati e nascosti in un sacco. Vengono e chiedono a Ambaindé di comunicare agli antenati che non li hanno dimenticati, che anche se i mariti sono entrati nella religione e non le lasciano fare quello che vogliono, loro sono sempre con gli altari, lo erano ieri, lo sono oggi e lo saranno domani.
Ambakane conferma, lui è arrivato proprio mentre la donna stava tirando fuori i polli dal sacco. Ambaindé e Ambakane si aspettano un forte aumento nelle richieste di cura dopo la riattivazione degli altari; considerano una vera fortuna il fatto di avere finalmente l’opportunità di farlo. Interpretano una serie di segni (canto della tortora, il passaggio di un geco; una nascita gemellare avvenuta mentre eravamo presenti nel villaggio ecc.) come buoni auspici.
Dimensioni del tempo: intese e fraintendimenti
In un primo momento, avevamo insieme convenuto come data per la festa di riattivazione il 1 Dicembre 2004. Ma arrivato quel giorno e visto che non accadeva niente abbiamo capito che la data non poteva essere decisa dalla famiglia e da noi autonomamente, ma che la cerimonia si inseriva nel complesso insieme dei riti calendariali della comunità. Sono così iniziate interminabili discussioni che hanno richiesto un vero e proprio lavoro per dipanare una matassa che a ogni passaggio diventava sempre più intricata.
I Dogon contano il tempo per serie di cinque giorni, ognuno legato al mercato in uno dei villaggi della zona (in questo caso: Ningari, Ondugu, Tèh , Kaoli, Moley). La cosiddetta "settimana dogon", sulla quale si è sovrapposta la settimana di "importazione", regola il calendario delle cerimonie tradizionali che si articola con le grandi scansioni stagionali legate alle attività agricole.
Alusseini Baba Yalcuyé afferma perentorio che "i giorni dei Dogon non cambiano; sono quelli dei bianchi che ogni anno cambiano" e continua:
"Per i Dogon, i giorni non cambiano. Si comincia trasportando il concime nei campi (bilintuia). Quando piove, si semina (tow: seminare). Dopo, c’è la prima cultura (guduwol) e poi la seconda cultura (momo). Poi ci si riposa (wal dagni). Il lavoro riprende e si toglie il miglio che non è cresciuto bene, quello germogliato dai semi caduti a terra l’anno prima (yu do gondo) e dopo c’è bile nom, quando i più anziani mangiano le nuove foglie dei fagioli e poi arriva la raccolta (gie ). A volte le famiglie finiscono i vecchi cereali ma è solo quando il bile nomarriva che si possono consumare i cerali del nuovo raccolto. Prima che il capo famiglia abbia gustato il bile nom, non si possono mettere i nuovi cereali in bocca. Dopo la raccolta c’è Amba ba goundo: che Dio ci mostri il nuovo anno. Poi si va nella boscaglia a raccogliere legna (yan tinu san) e dopo viene Agen. Il giorno di Age Tommo (quest’anno il 14 dicembre) i vecchi delle famiglie sacrificano sui loro altari, e quel giorno che viene comunicato il giorno di Age. Quest’anno è sei mercati di Ningari dopo quello appena passato, e cade il 7 gennaio. Ma l’anno prossimo potrà cambiare. Dopo Age c’è ogo yanda, quando si saluta l’uomo più vecchio; poi tala, la caccia collettiva; poi ondo mbiri, e quando è passato ondo mbiri, inizia la stagione delle piogge; e alla prima pioggia grande, si può seminare". (ABY, 13.12.04)
Fino al 12 Dicembre, non siamo stati in grado di sapere la data della cerimonia, nonostante interminabili discussioni collettive tentassero di situare almeno il mese. Ogni volta si arrivava a conclusioni diverse e contraddittorie. Finalmente, il 13 Dicembre "il giorno è uscito", i vecchi lo hanno gridato sul mercato di Ondugu. Solo allora abbiamo capito che tutti lo sapevano ma nessuno poteva dirlo.
"Sono giovane, ma conosco il nostro totem. Non puoi parlare fino a che il più vecchio del villaggio non ha fatto uscire la sua parola. Ondo ha 11 villaggi e il giorno che devono prendere la decisione di Age Tommo, l’Aba Kadana, il più vecchio, prima di tutto prepara la birra, e sarà il giorno del mercato di Ondogu e ci sarà folla nel mercato; e quelli che vengono dai vari villaggi si riuniscono attorno a questa birra e la bevono. E quando bevono, il giorno di Age Tommo ("prendere e avviluppare Age"), quando il messaggio viene diffuso ovunque, prendono una decisione, e danno una data: ibe nai (quattro mercati). E l’Aba Kadana dice: tra quattro mercati sarà Age, e già ha dato una parola. Ora, quelli che sono attorno a lui diranno: scusaci, è troppo presto, prendiamo altro tempo; e poiché lo pregano l’Aba Kadana dice allora tra cinque mercati potrete mangiare Age (Age gné bedo). E ancora gli altri gli dicono: ancora il tempo che ci dai è troppo poco, daccene di più. E allora l’Aba Kadana prende la decisione definitiva, e dice a tutti quelli che sono venuti per il mercato: questa è la decisione dalla quale non posso uscire, quella del sesto mercato. E allora tutti cominciano a comprare i polli, le capre, e tutto quello che vorranno mangiare. Ecco: al Binu dell’Aba Kadana vengono offerti i sacrifici, è il più grande Binu di Ondogu, si chiama Ne mbe , ed è l’Aba Kadana che ne è il responsabile. Oggi, il Binu Ne mbe è stato preso dalla religione, l’hanno messo in una grotta e murato col cemento. E’ stato affidato a tre persone e quando il giorno viene, sono informati e vanno là a fare i rituali; aprono e richiudono. Ecco, il giorno è domani, il giorno non cambia, niente cambia. Anno dopo anno, è sempre Age Tommo, per Ningari, Ondugu, Moley. Con la religione la gente sta abbandonando tutto: lasciano i gesti, ma non i giorni". (ABY, 12.12.04)
Il 13 Dicembre, giorno dell’Age Tommo, la data dell’Age è stata "gridata" dall’Aba Kadana al mercato di Ondugu. Il giorno del sesto mercato successivo di Ondugu, è quello della festa del paese ed è lo stesso giorno in cui verrà eseguita la cerimonia di riattivazione degli altari. Fatti i conti, quel giorno corrisponde al 7 Gennaio 2005.
Fig. 1 — Mappa dell’Altopiano di Bandiagara
Fig. 2 — Mappa di Dono Ban con la collocazione dei diversi altari
Coppo Piero 2004 "Padri e figli: continuità e discontinuità in una cultura africana", in Atti dell’VIII Convegno Itinerari Psicanalitici, Verona 2 Ottobre 2004
Coppo Piero, Fiore Barbara, Koné Nouhoun 1990 "Gamma: catégorie nosologique dogon" in Coppo Piero, Keita Arouna (sous la dir. de) Médecine Traditionnelle. Acteurs, itinéraires thérapeutiques, Ed. E, Trieste
De Ganay Solange 1942 Le Binou Yébéné, Miscellanea Africana Lebaudy, Librairie Orientaliste Paul Geuthner, Parigi
Dieterlein Germaine 1938 Le Duge. Signe d’alliance chez les Dogon de Sanga, "Bull. du Comité d’Etudes Historiques et Scientifiques de l’A.O.F.", XXI (i) pp 108-129
Dieterlein Germaine 1941 Les Âmes des Dogons, Institut d’Ethnologie, Parigi
Latour Bruno 1996 Riflessione sul culto moderno dei faiticci, Meltemi ed., Roma 2005
Kervran Marcel Dictionnare dònnò-sò — francais, parrocchia cattolica di Bandiagara.