(Salvatore Inglese**)
Vorrei innanzitutto ringraziare quanti hanno concepito la proposta e la realizzazione di questi seminari perché sono riusciti a edificare uno spazio di confronto scientifico tra persone che si inseguono da molti anni allo scopo di costruire una via italiana all’etnopsichiatria. In questo momento penso, ad esempio, a Sergio Mellina, che ha già sostenuto il suo seminario in questo stesso luogo. Insieme ad altri giovani colleghi (Cardamone e De Micco) lo incontrammo una prima volta più di 10 anni fa, all’Università di Napoli, per ascoltare le sue argomentazioni appassionate sulle impronte culturali infiltranti la psicopatologia dei pazienti sardi da lui rinvenute finanche all’interno degli asili manicomiali. Qualche anno prima, in Svizzera, avevo assimilato le lezioni di León Grinberg (1984) che, utilizzando il vertice psicoanalitico, si muoveva con sofferta partecipazione e lucidità etico-politica in mezzo al labirinto della psicopatologia della migrazione e dell’esilio. Tra il 1985 e il 1988, peraltro, il mondo occidentale era costretto a riconoscere l’estensione e l’intensità di due grandi problemi planetari, quello dell’AIDS (ormai destinato ad irridere la stigmatizzazione moralistica ed etiologica delle cosiddette condotte omosessuali "a rischio") e quello delle migrazioni di massa. In questo punto di svolta epocale, entrava nuovamente in ebollizione un calderone sociale e ideologico dov’era stato compresso il senso conflittuale delle soggettività "altre", minori e marginali, prodotto e bersaglio necessario delle biopolitiche dell’Occidente. Il conflitto tra governo dell’esistente e tattiche di sopravvivenza delle soggettività non assimilate alla norma sociale rappresentava il fardello e alimentava il furore conoscitivo di Michel Foucault la cui morte (1984) appare oggi perfettamente sincronizzata con l’accelerazione intensiva e la multiformità qualitativa di questa mutazione epocale che imponeva la ripresa di un pensiero critico in grado di articolare una pratica trasformativa e una diversa metodologia di conoscenza.
In Francia (con Racamier) e in Svizzera (con Ciola e Salem) imparavo a riconoscere gli stadi iniziali degli effetti psicosociali provocati dallo scacco dei progetti migratori individuali e collettivi. In qualità di psichiatra territoriale, impegnato nell’assistenza dei cittadini di alcuni piccoli paesi della Calabria interna, avevo ormai abbastanza esperienza degli esiti finali di quei fallimenti esistenziali, perfettamente riconoscibili quando gli emigrati rientravano per sempre nel loro contesto originario (Inglese, 1988; 1993). Il mio accostamento progressivo all’etnopsichiatria non si è inizialmente disteso lungo una lontana orbita esotica ma si è sviluppato in un perimetro sociale ben delimitato, soggetto al peso gravitazionale di un nucleo culturale denso e compatto (Inglese e Madia, 1989; Inglese 2000a) anche se i migranti appartenenti a queste comunità meridionali avevano vissuto la propria esperienza in tutte le contrade della terra.
Mi trovavo, se vogliamo, in una situazione di esercizio clinico di tipo intraculturale già formalmente descritta da Devereux (1968) e la cui problematicità veniva da lui stesso ribadita nella prefazione al primo libro del suo allievo più innovativo e radicale (Nathan, 1977). In queste condizioni, infatti, il processo terapeutico è caratterizzato dalla condivisione degli stessi impliciti culturali da parte del paziente e del clinico. Tale condivisione appare talmente naturale(implicita) da non essere mai lavorata durante l’interazione pietrificandosi come struttura inamovibile e immodificabile ancorché generativa di quote sintomatiche. Lo sbarramento alla coscienza di tali impliciti, collusivamente architettato da una simile coppia di lavoro, mantiene una serie di contenuti, di relazioni di significato, di flussi affettivi e cognitivi in uno stato di latenza intangibile e di latitanza inarrestabile, risolvendo l’interazione a favore della teoria professionale del clinico o a vantaggio della teoria psicopatologica del paziente. In generale, questa repressione del comune radicale culturale impedisce, secondo l’analisi di Devereux, l’acquisizione di autentici insights mutativi anzi cristallizza, rinvigorendone la disfunzionalità, l’insieme delle difese culturali adoperate dal paziente e dal terapeuta. L’aspetto più importante della metodologia etnopsichiatrica è l’utilizzazione delle leve culturali per facilitare l’elaborazione di insights mentali prima impensabili. In molti luoghi della sua vasta opera teorica Devereux segnala il rischio rappresentato dal misconoscimento da parte del terapeuta del doppio e complementare lavoro di fabbricazione culturale e di costruzione psicologica attraverso cui viene prodotto ogni individuo appartenente a un qualunque gruppo umano. La mobilizzazione degli impliciti culturali condivisi serve infatti al terapeuta per attingere a questo stratificato nucleo generativo e per trasformare, rendendolo maggiormente adattivo, il ruolo e la funzione del sistema culturale da cui il terapeuta stesso è stato creato nel corso del suo divenire biografico e che infine ha dato luogo alla sua funzione sociale altamente specifica e mai neutrale.
E’ certamente più agevole presupporre l’esistenza di radicali culturali divergenti quando il clinico e il paziente appartengono a matrici sociali profondamente diverse. E’ già più complesso, però, saper riconoscere analiticamente la fattispecie concreta e l’azione psicodinamica di queste differenze culturali che costituiscono i prodotti finali di processi storici autonomi. Devereux, in un certo senso, immagina che il gradiente differenziale tra una matrice culturale e l’altra, la diversa morfologia con cui un mondo storico si presenta all’altro, l’interposizione di uno spazio materiale e simbolico tra il paziente ed il clinico costituiscono una distanza critica utile per non cadere in uno stato di fascinazione o di rigetto immediato dell’alterità culturale. E’ vero, altresì, che per poter interagire efficacemente con persone di diversa origine culturale il clinico deve dotarsi degli strumenti essenziali di conoscenza precisa dell’altrui costituzione antropologica (lingua, costumi, religione, concezione politica, oggetti, sistemi di cura, etc.). L’attrazione per la presentificazione concreta della differenza culturale è abbastanza potente perché aggrega una rappresentanza significativa di molte professionalità intorno a soggetti di cui non si è mai occupato nessuno, che non sono economicamente o socialmente redditizi, che spesso nemmeno esistono ufficialmente: sono i pazienti della notte che ancora oggi, nonostante la migliore volontà legislativa e la rumorosità del rompicapo sintomatologico, entrano ed escono dall’interazione clinica come ombre clandestine.
In questi anni, data la complessiva situazione di disinteresse e d’inerzia assistenziale, i pochi clinici italiani impegnati in attività interculturali hanno goduto di una preziosa libertà di esperienza e di sperimentazione seppur depotenziata da una generale povertà di mezzi e di risorse. Durante tale prolungato periodo, con simili pazienti perduti si sono impegnati clinici altrettanto perduti, collocati regolarmente in una posizione di marginalità istituzionale, ma affatto smarriti. Accade sempre qualcosa di strano e interessante quando soggettività marginali siffatte incrociano e rinsaldano, nel corso dell’interazione clinica, i relativi destini (Foucault, 1968). In questo punto d’incrocio l’attenzione del clinico culturalmente sensibile è invitata a spostarsi dalla psicopatologia della migrazione allo studio-invenzione dei princìpi fondamentali dell’etnopsichiatria.
Per specificare in senso teorico, operazionale e, infine, disciplinare le interazioni terapeutiche nei diversi contesti socioculturali, Devereux, ad un certo punto, utilizza il neologismo combinatorio di etnopsichiatria, coniato dallo psichiatra haitiano Louis Mars. Operando uno smontaggio di questa parola vi troveremo almeno tre termini autonomi: etno, psiche e iatria. In questa coalescenza semantica la frazione "etno" funziona come marcatore della differenza culturale che costituisce anche la chiave di accesso privilegiata alle peculiari dimensioni storiche e mitiche da cui originano ed entro cui vivono i pazienti. Il blocco di chiusura "iatria" specifica una funzione sociale essenziale rivolta alla cura delle persone e alla soluzione di problemi di adattamento degli individui nelle proprie nicchie ecosociali. Questo termine, ancorché legittimamente applicato alle diverse specializzazioni mediche (es., psichiatra, odontoiatra), quando viene proiettato su insiemi culturali non-occidentali qualifica operatori di cura non coincidenti con la figura del medico licenziato dalle Università. Il segmento più conflittuale di etnopsichiatria è però quello intermedio, "psiche", perché esso non coincide meccanicamente con il cosiddettoapparato psichico (Freud) né con l’organo per pensare i pensieri (neocortex). Esso è, al contempo, un concetto intermediario che riconosce l’esistenza, nei più diversi contesti culturali, di un principio impalpabile che rende umano l’individuo, una sorta di "soffio" vivificante, proprio come indicato nella concezione arcaica di questa parola (Onians, 1998). Tale principio, può arrivare a coincidere con l’anima, intesa come parte immarcescibile della persona che va incontro a infinite trasformazioni di stato rimanendo all’interno del corpo, dislocata nei suoi organi nobili (a seconda delle aree, dei tempi e delle concezioni culturali essa abita nel fegato, nei polmoni, nella testa; Zempleni, 1968) o ad esso sopravvivendo distribuendosi nel mondo ambiente, nel cosmo, nell’aldilà. Rispettando integralmente la vocazione culturalista dell’etnopsichiatria, "psiche" rimbalza nella sua concezione teorica e nei suoi dispositivi d’azione come un principio aleatorio ma non sempre immateriale, operativo ed efficace, perché alimenta il funzionamento cognitivo, relazionale, emozionale, politico, religioso dei pazienti di diversa origine culturale. Arretrando anche solo di un passo la definizione di questo concetto, ad esempio ripiegandola sull’entità freudiana di apparato psichico o su quella biomedica di encefalo, forzeremmo la teoria etnopsichiatrica in una direzione nuovamente etnocentrica che obbligherebbe a colonizzare tutti gli insiemi mentali esistenti nel mondo, annettendoli ad una definizione scientifica unilaterale.
Accostarsi all’etnopsichiatria non deve tradursi in una dimostrazione di divertita accondiscendenza alla maschera grottesca del folclorismo né in un cedimento alle molli o avventurose lusinghe dell’esotismo. Il radicale "ethnos" è utile ed euristicamente potente proprio perché è capace di manifestare senza infingimenti il versante oscuro, duro e selvatico della "razza", della diversità radicale, del conflitto e dell’antagonismo (Baudrillard, 1990; Devereux, 1970). Esso serve a non far dimenticare che il dialogo e la mediazione culturale felice possono essere i risultati per nulla scontati di un processo intenzionale di scambio e di confronto progressivo che, attraversando gli stati della diversità e dell’incomprensione, può finalmente addivenire alla stipula di un nuovo contratto sociale fondato sul rispetto e sulla reciproca comprensione tra gruppi culturalmente determinati (de Pury, 1998). Si raggiunge questa meta pur senza acclamare la costituzione universale della natura umana ma riconoscendo tale costituzione in quanto prodotto storico necessario del processo di contatto interculturale. Essa non può essere proclamata unilateralmente nonché dispoticamente applicata a universi culturali differenti in nome di una presunta verità incontrovertibile di cui saremmo i primi e illuminati detentori (Róheim, 1967; Sironi, 1999). L’ideologia dell’uguaglianza costituzionale del genere umano non può essere presentata agli altri come a priori giuridico, filosofico, etico, religioso e scientifico, essa è piuttosto un approdo mobile o, addirittura, un ideale che, abilitato nella dimensione decontestualizzata delle categorie, deve accettare le prove ripetute e terribili del tempo storico.
Per muoverci nella direzione liberatoria del confronto, del dialogo e dell’integrazione culturale possiamo utilizzare l’accezione più aperta del termine "psiche" enfatizzata più sopra. Ciò permette di avvicinarsi all’obiettivo prefissato scalando versanti empirici e operativi (le dinamiche della cura) che possiedono una libertà di accesso ai mondi altri assolutamente straordinaria. Tale metodologia di approssimazione contiene comunque una propria forza speculativa, di tipo filosofico e antropologico, temperata da un atteggiamento pragmatico orientato verso uno scopo ben determinato (guarigione) che riesce a scavalcare barriere altrimenti insormontabili.
Questo passaggio meditato della nostra riflessione serve a introdurne un altro. Quando si lavora in etnopsichiatria, almeno secondo certi stili o rispettando alcune premesse pratiche e teoriche, ci si accorge che è necessario muoversi lungo una direzione inversa rispetto a quella seguita da Freud. Egli ha speso l’intera vita per emanciparsi dallo studio delle cellule del sistema nervoso, riuscendo a dilatare le sue concezioni sull’apparato psichico fino a cimentarsi con la natura complessa e anche indesiderabile della realtà sociale. Noi perseguiamo un’operazione contraria: ci muoviamo da queste situazioni macrofenomeniche (il culturale, il sociale, l’ideologico, il religioso) che lasciamo dispiegare nel corso della terapia e solo dopo esserci saldamente ancorati su questo fondo aspro e irregolare riusciamo a esplorare il territorio enigmatico della soggettività più intima e individuale offerta dalla singolarità identitaria del paziente compreso nel dispositivo d’interazione etnopsichiatrica.
Per riuscire a far ciò bisogna però criticare la pavidità teoretica e l’orizzonte chiuso della psichiatria transculturale "classica" (di derivazione kraepeliniana) che si limita a tradurre i comportamenti, le parole e i sintomi dei pazienti (allogeni e autoctoni) nei propri irrinunciabili codici nosografici. Quando trattiamo un oggetto magico, un’attività di influenzamento a distanza o l’irruzione di entità culturali nella vita del paziente incominciamo a considerare queste cose eterogenee come entità reali, autentiche e agenti secondo intenzione che non hanno bisogno di una traduzione immediata nel nostro linguaggio scientifico. Ad esempio, è del tutto indifferente classificare uno stato di possessione o il dispiegamento di personalità "seconde" come disturbo di "conversione", "dissociativo", "somatoforme". Si tratta piuttosto di assumere tali elementi fenomenici senza la rigidità precostituita di un presunto sapere sovrano per incominciare, innanzitutto, a riconoscere nel paziente e nel suo gruppo naturale i partners di riferimento essenziali con i quali il clinico è chiamato ad allacciare una danza e a giocare un ruolo, talvolta anche terribile dati certi aspetti, peculiari e "straordinari", dell’interazione.
Ma come si può fare questo? Come si può costruire un dispositivo operativo controllato in qualche modo replicabile, quindi rispettando alcune premesse del nostro atteggiamento scientifico di base (nucleo culturale)? Sulla taglia enorme del problema si è gettato Tobie Nathan (1996) inventando uno strumento interattivo capace di innescare il processo terapeutico in modo teoricamente compatibile con il patrimonio culturale dei pazienti non-occidentali. Egli incomincia così a elevare una torre di Babele miniaturizzata i cui costruttori ne sono anche gli ospiti culturalmente titolati. Nel suo dispositivo l’attore terapeutico non è l’individuo singolarmente concepito ma un collettivo di lavoro etnicamente eterogeneo e parlante molteplici lingue attivate in seduta a partire da quella del paziente. Tale gruppo non prevede limiti numerici di partecipazione nella consapevolezza che la sua massa critica può aumentare esponenzialmente nel corso dell’interazione. Il compito essenziale di Nathan è stato quello di aver saputo immaginare che la diversità culturale può essere interrogata solo partendo dalla pluralità e dall’eterogeneità strutturale del dispositivo destinato ad accoglierne la domanda di guarigione. Egli è stato capace di avviare un processo sulla scorta di una considerazione metodologica generale: variando la struttura del dispositivo si modifica anche la natura dei fenomeni che è possibile osservare grazie ad esso. Egli ha così modificato le condizioni del dispositivo e, conseguentemente, gli effetti e i fenomeni osservabili. Tali modificazioni sono state cospicue e controverse perché hanno attualizzato una serie di sintomatologie tradizionali (possessione, fattura, sortilegio, etc) ormai sconosciute dalla clinica convenzionale praticata in situazioni monoculturali. Esse hanno inoltre permesso una presa di contatto diretta o mediata con il mondo dei guaritori tradizionali che costituiscono ancora oggi le principali risorse terapeutiche a disposizione dei pazienti migranti in Occidente. Questa innovazione del metodo interattivo risulta decisiva sia da un punto di vista tecnico che politico.
Dal punto di vista tecnico incominciamo a capire che le terapeutiche "altre" possono insegnarci qualcosa di sostanziale nel trattamento di problemi clinici che costituiscono la cifra enigmatica iscritta indelebilmente sulla superficie della differenza culturale. In questo senso, in qualità di etnopsichiatri clinici, ci troviamo in una situazione assolutamente privilegiata perché nessun medico gode attualmente anche solo della possibilità teorica di operare nel proprio campo avendo in mente tecniche terapeutiche elaborate altrove. Per il terapeuta la possibilità di comprendere il razionale delle tecniche allogene è un fattore di arricchimento spontaneo e ormai necessario.
Il punto di vista politico, altresì, è addirittura di rilevanza strategica. Assumo il politico come espressione articolata dei rapporti di forza sempre esistenti tra i blocchi di sapere. Per comodità analitica tendiamo ad assimilare le culture "altre" a quelle popolari che la riflessione gramsciana riconosce come subalterne alla sfera d’influenza della cultura nazionale di derivazione borghese (Gramsci, 1975). Più precisamente la categoria della subalternità culturale individua sia una posizione di resistenza sia un destino soccombente delle culture popolari sottoposte alla pressione storica della cultura egemone. Su questa linea interpretativa si assesta, peraltro, anche il discorso di de Martino (1980; 1987) che profetizza l’estinzione obbligatoria del composito mondo della magia cerimoniale popolare e dei relativi dispositivi mitico-rituali. Gramsci e de Martino sviluppano le proprie analisi scientifiche, ideologiche e politiche nella consapevolezza che, quando due soggettività culturali occupano lo stesso spazio d’interazione storica, la natura stessa di questo confronto, insieme ai suoi esiti necessari, sarà determinata dal rapporto di forza istituito tra questi attori in ogni manifestazione della vita sociale.
Allora, se si intende il politico in questo modo, il fatto di disporsi ad un approccio all’alterità rispettoso della sostanza di cui questa è fatta — patrimonio compiuto di tecniche e saperi autonomi — permette di inverare una prospettiva di pace. Possiamo addirittura immaginare la costruzione di una piattaforma interattiva irriducibilmente conflittuale ma altrettanto pacifica. Una piattaforma in cui ci si può presentare all’incontro clinico senza mettere in atto una strategia di sopraffazione dell’altro che condannerebbe all’estinzione puntuale la cultura non egemone. Vale a dire: l’etnopsichiatria oggi rappresenta, nel mondo occidentale, uno dei pochi angoli in cui è possibile mediare tra le differenze culturali concrete allo scopo di ottenere un risultato ben delimitato (cura e guarigione) che, rendendo transitivi gli scambi culturali, rinsalda legami di reciproco riconoscimento al fine di ripristinare uno stato di equilibrio soggettivo. Questo forse rappresenta uno dei pochi legami che ancora oggi esistono tra soggettività alternative impegnate storicamente nella progressiva divaricazione delle rispettive tappe evolutive, fino a quando, giunte al punto estremo della loro divergenza, uno dei due soggetti, verosimilmente il più forte, provvederà alla soppressione dell’altro (Inglese, 2000b).
Un dispositivo etnopsichiatrico costituito da un gruppo eterogeneo di persone parlanti lingue diverse, dove ognuno è invitato a interpretare la propria, dove ci sono mediatori e interpreti che negoziano instancabilmente sulla differenza richiede, per la sua costruzione, l’attraversamento di tappe di avvicinamento alla questione politica iniziale e principale. Cosa verrebbero a guadagnare gli altri dalla creazione di questo dispositivo clinico fondato sul pluralismo culturale? Il ricavo di un vantaggio terapeutico sostanziale dipende da un preliminare o simultaneo lavoro extra-clinico di legittimazione e valorizzazione della differenza culturale storicamente fondata. E’ come se irrompesse, in un luogo apparentemente separato e autonomo (la cura), ciò che dovrebbe essere promosso nello scambio politico più generale: l’istituzione di un nuovo contratto sociale capace di assegnare uno spazio di autodeterminazione alle soggettività esterne alla logica costitutiva dell’occidente.
Il versante tecnico, si riconoscerà, non può mai essere scisso da quello politico perché non esiste un’effettiva autonomia di una sfera sociale rispetto a un’altra. Tutte le sfere dell’attività umana contribuiscono a creare la dimensione sociale totale. Addirittura in ciascuna di esse si possono riconoscere i tratti caratteristici dell’universo sociale complessivo. L’etnopsichiatria, articolandosi sulla metodologia della doppia descrizione, culturale e psicologica, del disordine mentale deve necessariamente problematizzare, alla radice, le modalità con cui i fenomeni culturali vengono assunti nella pratica terapeutica dei clinici occidentali. Bisogna infatti sforzarsi di elaborare una definizione di cultura riconoscendo in essa non solo un versante astratto e ideologico (visione del mondo) facilmente traducibile nei codici interpretativi dell’occidente razionalisticamente orientato. La struttura scientifica del pensiero occidentale è forte e compatta, costituendone il prodotto cognitivo più elevato e potente, riesce quindi a tradurre le cosmovisioni degli altri in assunti e categorie appartenenti alla sua matrice culturale. Un problema ben più complesso si dispiega quando bisogna trasferire nel nostro mondo, ospitandole e interagendovi, le pratiche di quelle culture e non solo le loro visioni del mondo meramente predicate. Ciò conduce alla constatazione che nessun confronto culturale è mai solamente astratto e disincarnato, poiché l’incontro con l’altro è sempre materiale. Non ci si limita a discutere delle alleanze matrimoniali come se costituissero un modello ideale di strategia antropologica o, addirittura, una sopravvivenza documentaria decontestualizzata (Lévi-Strauss, 1984). Il matrimonio, in etnopsichiatria, è il pane quotidiano di esistenze personali concrete i cui destini problematici rimbalzano nel luogo della clinica impregnati di dolore e generanti disordine. La costituente materiale della cultura è in grado di catalizzare nel clinico e nel suo contesto sociale di riferimento i gradi più elevati di reazione incontrollata (controtransfert culturale; Devereux, 1967a). Dal modo in cui vengono risolti questi effetti di antipatia culturale è possibile ricavare indicazioni ineludibili sullo stato di benessere sociale di una collettività eterogenea e sulla capacità dell’attore terapeutico di risolvere in modo positivo l’istanza terapeutica. La sostanza materiale del confronto culturale passa attraverso un riesame anche della funzione operativa esercitata sugli aggregati concreti della popolazione straniera da parte dei guaritori espressi da una tradizione sapiente estranea a quella occidentale. In questo periodo assistiamo al transito di pratiche terapeutiche culturalmente orientate che possono costituirsi come una risorsa alternativa a disposizione dei migranti. Bisogna quindi saper affrontare il grande problema se tali risorse possono essere complementari e sinergiche rispetto a quelle offerte dalla clinica occidentale oppure se esse siano soltanto le vestigia inattuali di un sapere non utilizzabile e regressivo.
Quello che osservo al passaggio verso il nuovo millennio mi ricorda quanto già conosciuto intorno al 1982. In quegli anni vivevo in una comunità calabrese di montagna che, nell’arco di un secolo, aveva lanciato nel gioco rischioso della migrazione internazionale la maggioranza della sua popolazione. Nel suo recinto geoculturale residuavano solo anziani, donne e bambini mentre le generazioni intermedie e gli uomini abbandonavano la postazione di pertinenza. Per l’esercizio clinico diventava veramente importante saper riconoscere, all’interno di una comunità siffatta, lo straordinario lavoro di riplasmazione dell’organizzazione collettiva e di attivazione delle attitudini riparative nei confronti di coloro che il metabolismo migratorio aveva riconsegnato alla comunità come scarti sociali. La mia collocazione istituzionale in questo luogo mi permetteva di vivere direttamente la tensione tra modernità e tradizione, tra mutazione e stabilizzazione, tra flusso e staticità. A questo punto saprei dire che i gruppi umani risolvono secondo determinate equazioni locali i problemi sociali che li concernono direttamente e che su questa capacità di risoluzione giocano le proprie possibilità di sopravvivenza. Vengo da una regione in cui ci sono paesi senza rumore, vale a dire situazioni in cui quelle popolazioni non hanno risolto positivamente la propria equazione sociale in termini di sopravvivenza culturale e sono stati perciò risucchiati nel vortice di un’estinzione progressiva. Proprio in questi luoghi, ormai desertificati e abitati dai fantasmi dolenti del passato, si innestano le comunità migranti straniere (es., afghani, curdi e kosovari in fuga dalle calamità politiche, religiose e belliche). Riuscire a definire se questi nuovi soggetti sociali siano delle comunità fisse o in movimento, cristallizzate o capaci di trasformazione, diventa impossibile se si rimane al livello di un’esercitazione teorica. Passando invece all’interazione sociale concreta è possibile riconoscere il metodo applicato dell’etnopsichiatria all’interno di comunità storicamente estemporanee e, probabilmente, transitorie. In tutti questi casi, prefigurati come autentiche emergenze di popolazione, ci si trova di fronte al dilemma di come armonizzare la situazione contingente di persone non appartenenti tutte a uno stesso ceppo culturale originario. In simili casi l’etnopsichiatra funziona come un catalizzatore di comunità in grado di esercitare questo ruolo dinamico solo se possiede una filosofia d’azione fondata sul riconoscimento e sull’attivazione delle organizzazioni sociali tipiche preesistenti alla deviazione strutturale contingente delle comunità in esame. In tali circostanze, ad esempio, si può dare valore e restituire autorità agli anziani che costituiscono il bersaglio privilegiato di ogni operazione di annientamento culturale. In tal modo si promuove un lavoro su una nuova fondazione culturale del gruppo umano che – come nel sostegno del peso culturale del vecchio Anchise da parte dell’etica filiale di Enea – ritrova un’autentica forza propulsiva senza la quale nessun atto di rifondazione può essere realizzato. In questa complessa dinamica le istanze della modernità e della trasformazione sono strettamente associate a quelle della tradizione e della conservazione strutturale. Esse si potenziano vicendevolmente in una situazione in cui la perdita dell’una (tradizione) espone alla soppressione dell’altra (modernità). L’etnopsichiatria non si propone di far ricadere l’ombra lunga del tempo antico sulla figura evolutiva del tempo mutevole. Si tratta invece di considerare che la centrifuga migratoria determina la fluttuazione veloce delle persone esponendole alla vulnerabilità della mancanza di un’allocazione, di un appoggio su basi sicure, perché questa esperienza radicale li costringe, spesso, a non avere più nome né lingua.
Messa a diretto contatto con l’alterità culturale, l’etnopsichiatria permette infine di stabilire che nella realtà le culture tradizionali, unilateralmente intese, non esistono. Le culture, in ultima istanza, sono macchine solutrici di problemi e appaiono statiche o dinamiche in rapporto alla qualità dei problemi processati da queste macchine stesse (Deleuze e Guattari, 1980). Se in una comunità non si generano nuovi problemi, né dall’interno né dall’esterno, la macchina culturale può anche apparire immobile mentre essa continua a funzionare secondo un regime silenzioso e inapparente avendo già trovato le procedure ottimizzate per risolvere le questioni cogenti. Per rivedere all’opera l’effettivo funzionamento originario di una simile macchina è necessaria l’emergenza di un’anomalia o di un rompicapo imprevisto.
Nel contatto culturale gli individui continuano ad appartenere ai propri gruppi generativi e per un tempo discreto agiscono secondo un vincolo interattivo in cui di fatto, indipendentemente dalla predisposizione personale, sono obbligati ad interpretare i caratteri prototipici della cultura di provenienza (Devereux, 1970). E’ idealistico pensare che si possa scampare a questa regola per mezzo di aggiustamenti artificiali soggettivi ed è pericolosamente illusorio adoperare un qualsiasi travestimento che simuli la singolarità irripetibile dell’individuo a scapito della rappresentazione delle caratteristiche collettive del gruppo umano a cui si appartiene. Semmai l’emergenza di un individuo possibile e irripetibile, a qualunque gruppo culturale esso appartenga, dovrebbe diventare il prodotto finale di un lungo processo di singolarizzazione (Devereux, 1967b). Il rapporto con il paziente migrante è caratterizzato, all’inizio, da un’inquietante asimmetria: egli, da solo, è chiamato ad incarnare la totalità della propria cultura mentre il clinico può concedersi di interpretare un ruolo sociale specifico e offrirsi secondo i caratteri di un’identità funzionalmente ben delimitata. Anche per questa ragione sarebbe molto più produttivo incontrare non le singole persone ma i gruppi stranieri perché in questo modo si aprirebbe la possibilità di fare emergere da questi laboratori creativi l’individualità assoluta del paziente senza più costringerlo a manifestarsi come l’elemento occasionale e sostanzialmente anonimo di un sistema culturale alieno.
L’incontro con i gruppi è peraltro positivo per lo stesso clinico perché per questa via riuscirebbe a riconoscere l’influenza che i sistemi gruppali da cui è stato generato, famiglia e istituzioni, hanno esercitato sulla sua individualità. Attraverso questa modifica del dispositivo terapeutico (da individuale a gruppale, da omogeneo a eterogeneo, da monoculturale a multiculturale) si incorpora nella materialità dell’esercizio tecnico l’opzione filosofica di base che caratterizza l’etnopsichiatria e che impone un movimento verso le proprie determinanti culturali originarie per scoprirne la necessità, l’inclinazione ideologica e la possibilità di un’autocorrezione trasformativa al cospetto dell’altro. De Martino (1977) condensava questo percorso coscienziale autoriflessivo nella categoria dell’etnocentrismo critico indicando nella determinante culturale non solo la virtù identitaria ma anche il limite ontologico del ricercatore. Egli proponeva questa categoria al termine di una prolungata meditazione sugli squilibri di potere storicamente esistenti tra civiltà occidentale e non occidentali. L’etnopsichiatria realizza questa categoria attraverso un confronto ineludibile innescato già all’interno del processo terapeutico dopo averlo incardinato alla struttura del dispositivo clinico stesso (incontro tra il gruppo di appartenenza del paziente e quello costituito dal collegio dei clinici).
Seguendo tale metodologia i gradi di libertà operativa di un sistema interattivo, anche quando viene applicato ai discendenti di seconda o di terza generazione di un gruppo migrante, aumentano grazie alla tessitura di legami dilatati e profondi che intrecciano le storie molteplici nuovamente narrate tra generazioni reciprocamente sconosciute. La migrazione, invece, funziona sempre come un processo che spezza i legami di appartenenza e di identificazione collettiva. Tant’è che i migranti meglio adattati ai nuovi contesti di adozione sono quelli confederati in strutture allargate capaci di produrre vincoli di mutua solidarietà. Solo comprendendo all’interno del processo terapeutico l’intera struttura sociale disposta intorno al paziente si assiste a un allungamento del raggio d’azione della terapia. Il terapeuta che si dimostra capace di reclutare i soggetti posti al di fuori dello spazio chiuso dello scambio clinico incomincia a percepire che lui stesso è solo un segmento finito di questa interazione. I fattori generativi di cura non sono mai nel terapeuta né saranno trovati nel paziente ma sono dislocati lungo l’intera serie interattiva, verosimilmente molto estesa. Nel caso dei pazienti africani, ad esempio, essa risale e attinge all’azione degli antenati fondatori.
La problematizzazione che vado articolando è focalizzata su svariati frammenti di pratiche etnopsichiatriche possibili impegnate nella ricerca inesausta di una teoria generale adeguata. Per dare una risposta a questa istanza bisogna continuare a sperimentare la pratica dell’etnopsichiatria clinica attraverso l’attivazione di dispositivi locali e specifici derivanti dalla storia sociale in cui il gruppo clinico è fisicamente installato. In realtà, la mia principale preoccupazione non è di edificare un sistema interpretativo generale ma è piuttosto quella di riuscire a individuare e dare un senso a una serie di fenomeni di campo attivati dalla pratica stessa dell’etnopsichiatria. Un dispositivo etnopsichiatrico strutturato sull’eterogeneità dei costrutti e dei soggetti culturali, che ammette la convocazione di gruppi estemporanei e sconosciuti, che rinvia all’esistenza di "doppi" (guaritori tradizionali) impiegati nelle stesse operazioni in cui è impegnato il professionista occidentale, che lavora su sintomatologie "esotiche" descritte solo in modo approssimativo dalla clinica psichiatrica genera una serie di fenomeni esorbitanti rispetto alle teorie esplicative già possedute dagli animatori di un dispositivo siffatto. E’ possibile, a questo punto, siglare solo una conclusione provvisoria di questa ricerca: ancora per molto tempo gli etnopsichiatri dovranno inseguire l’emergenza di fenomeni imprevisti e imprevedibili generati nel campo applicativo della loro disciplina. Ci troviamo, cioè, ancora in una fase assolutamente creativa dell’avventura etnopsichiatrica inaugurata dalle riflessioni metodologiche di Devereux e proseguita dalla scoperta di Nathan di una macchina produttiva di fenomeni su cui ancora non si possiede un teorema interpretativo convalidato. Dobbiamo pertanto attraversare quel tempo in cui il numero e la qualità dei fenomeni non possono essere conteggiati e ponderati con strumenti di precisione. Non riusciamo nemmeno a descrivere una fisionomia stabile e ben definita di molti di essi. Ci troviamo verosimilmente nel punto in cui non sappiamo riconvertire l’intera gamma di questi effetti emergenti in strumenti di lavoro efficaci e resistenti. Ci troviamo, cioè, nel punto esatto in cui potrebbe effettivamente verificarsi una mutazione dei paradigmi che governano le strategie e le operazioni di cura degli esseri umani. Ci troviamo, in definitiva, nel punto di massima turbolenza dell’apparato concettuale che governa la nostra stessa professione clinica. Ma sappiamo che proprio qui, al divenire di questo momento, bisogna attendere con attitudine critica e operosa.
———————————
** Psichiatra e psicoterapeuta; Responsabile del Modulo di Psichiatria transculturale e di Comunità del Dipartimento di Salute Mentale dell’A.S.L. n. 7 di Catanzaro; collaboratore scientifico del Centre "Georges Devereux" Università di Parigi VIII; capo redattore della rivista "I Fogli di ORISS" ; redattore di "Ethnopsy. Les mondes contemporains de la guérison"; "AM. Rivista della Società Italiana di Antropologia Medica" e "DAEDALUS. Laboratorio di Storia"; autore di molti saggi di psicopatologia delle migrazioni e di etnopsichiatria. Consulente in programmi di sostegno sociosanitario in Mali e Kosovo.
Questo saggio è comparso nel libro a cura di Anna Rotondo e Marco Mazzetti Il carro dalle molte ruote. Etnopsichiatria e psicoterapie transculturali, edito nel 2001 da Edizioni di Terrenuove, Via A. Tadino 52, Milano, Tel. 0229524600. Ringrazio l’Autore e l’Editore per la gentile autorizzazione alla sua pubblicazione su Internet. (Piero Coppo)
0 commenti